Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 15403 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 15403 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 30708-2018 R.G., proposto da:
COGNOME NOME COGNOME cf CODICE_FISCALE quale socio unico e successore ex art. 2495 della RAGIONE_SOCIALE, 0132640121, elettivamente domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che ex lege la rappresenta e difende –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 1329/22/2018 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 27 marzo 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 12 marzo 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Accertamento -Studi di settore -Contraddittorio
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza emerge che relativamente all’anno d’imposta 20 10 l’Agenzia delle entrate notificò alla L.C. RAGIONE_SOCIALE l’avviso d’accertamento con cui rideterminò l’imponibile ai fini Ires, Irap ed Iva, irrogando le conseguenti sanzioni. L’accertamento era scaturito dalla rilevazione della incongruenza tra i ricavi dichiarati ed i risultati derivanti dallo studio di settore relativo all’attività esercitata. L’ufficio rideterminò pertanto i ricavi sociali, ex art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
In particolare, all’esito d el contradittorio endoprocedimentale, durante il quale le pretese erariali erano state rideterminate per l’applicazione dello studio di settore evoluto VM22A, e a seguito della notificazione dell’atto impositivo, la società adì la Commissione tributaria provinciale di Varese, la quale, con sentenza n. 203/11/2016, ne accolse le ragioni. L’appello proposto dall’ Amministrazione finanziaria fu invece accolto dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con sentenza n. 1329/22/2018.
Il giudice regionale, dopo aver affermato che ai fini della rilevanza dello scostamento tra reddito dichiarato e reddito determinato con applicazione dello studio di settore, deve apprezzarsi l’emersione di una ‘grave incongruenza’, ha ritenuto che l’ufficio, all’esito del contraddittorio instaurato, aveva correttamente applicato lo studio di settore più evoluto, così riducendo le pretese erariali da € 97.636,00 a € 21.023,00. Da ciò ne ha tratto la considerazione che l’ amministrazione finanziaria aveva ben ponderato la posizione del ricorrente, e ciò con adeguata motivazione. Ha pertanto accolto l’appello erariale, respingendo le ragioni della contribuente, assorbendo ogni altra questione sollevata, da reputarsi implicitamente rigettata.
Con due motivi il ricorrente, socio unico succeduto alla società ex art. 2495 c.c., ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza, cui ha resistito l ‘Agenzia delle entrate con controricorso.
N ell’adunanza camerale del 12 marzo 2025 la causa è stata decisa. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il contribuente ha denunciato:
con il primo motivo «errata valutazione circa un fatto decisivo». La Commissione regionale non avrebbe tenuto conto che la riduzione delle pretese erariali non aveva trovato causa negli effetti del confronto tra le parti
RGN 30708/2018 Consigliere rel. NOME
in occasione del celebrato contraddittorio, ma solo perché applicato, doverosamente, lo studio di settore più evoluto;
con il secondo motivo la «violazione o falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d) D.P.R. 60 0.73». Il giudice d’appello non avrebbe considerato che l’applicazione del nuovo studio di settore, riducendo ad € 21.023,00 la differenza tra reddito dichiarato (€ 445.770,00) e reddito determinato con lo studio di settore (€ 466.793,00) , aveva limitato lo scarto delle due misure nella irrilevante misura del 4,72%. Ciò non consentiva più di riconoscere il requisito della grave incongruenza, che invece il giudice regionale aveva evidentemente rapportato al precedente ed obsoleto studio applicato.
I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente perché connessi, sono fondati e trovano accoglimento.
Va intanto premesso che rappresenta l’esito di un a evoluzione interpretativa ormai consolidata il principio secondo cui la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, introdotto con l’art. 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati -meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività- ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento. In tale sede il contribuente ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o che spieghino la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame. La motivazione dell’atto di accertamento non può dunque esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L’esito del contraddittorio peraltro non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, il cui onere probatorio grava sull’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U., 18 dicembre
2009, n. 26635; 18 dicembre 2017, n. 30370; 31 maggio 2018, n. 13908; 20 settembre 2017, n. 21754; 07/06/2017, n. 14091; 12 aprile 2017, n. 9484).
Attese quindi le conseguenze derivanti dalla ripartizione dell’onere probatorio, si è anche affermato che ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato e il contribuente abbia omesso di parteciparvi, oppure, anche partecipando, non abbia allegato alcunché per spiegare lo scostamento, l’Ufficio non è più tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (cfr. Cass., 15 luglio 2020, n. 14981; 20 settembre 2017, n. 21754 cit.; 30 ottobre 2018, n. 27617 e 20 giugno 2019, n. 16545). In questo caso, infatti la rilevazione dello scostamento, a fronte dell’assenza di elementi con cui il contribuente ne spieghi la sussistenza, assume la dignità di indizio grave e preciso, idoneo, pur se unico, a supportare la dimostrazione del fatto ancora sconosciuto, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ. Tanto in ogni caso non pregiudica definitivamente la difesa del contribuente, cui resta sempre il diritto di allegazione e di prova in sede contenziosa, anche per la prima volta, degli elementi idonei a vincere le presunzioni su cui l’accertamento tributario si fonda (cfr. Cass., 30 settembre 2019, n. 24330; 9 ottobre 2020, n. 21824; da ultimo cfr. 24931 del 18 agosto 2022).
Peraltro, sempre ai fini dell’accertamento affidato allo scostamento tra dichiarato e risultanze dello studio applicato, questa Corte ha ritenuto rilevante l’emersione di una grave incongruenza tra i dati (Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26635; cfr. anche 26 settembre 2014, n. 20414; 4 novembre 2016, n. 22421; 29 marzo 2019, n. 8854). E a tal fine si è affermato che il requisito della “grave incongruenza” di cui all’art. 62-sexies, comma 3, d.l. n. 331 del 1993, conv. con mod. dalla l. n. 427 del 1993, costituisce presupposto impositivo necessario per gli avvisi di accertamento su di essi fondati, senza che assuma rilievo, per gli avvisi notificati successivamente al 1° gennaio 2007, la modifica dell’art. 10, comma 1, l. n. 146 del 1998 operata con l’art. 1, comma 23, l. n. 296 del 2006, in quanto priva di portata innovativa e diretta ad assicurare, secondo una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, una funzione di mera semplificazione e coordinamento normativo, attesa l’abrogazione dei
commi 2 e 3 del medesimo art. 10, ad opera dell’art. 37, comma 2, lett. b, d.l. n. 226 del 2006, e l’estensione della tipologia di accertamento a prescindere dalla contabilità adottata (Cass., cfr. Cass., 27 giugno 2022, n. 20608).
Quanto, infine, allo studio di settore da applicare, giurisprudenza ormai consolidata ha chiarito come, trattandosi di accertamento compiuto mediante l’applicazione di parametri e studi di settore frutto di un progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività per categorie omogenee di contribuenti, esso costituisce un sistema unitario, per il quale si giustifica l’applicazione retroattiva dello strumento più recente, che prevale rispetto a quello precedente, in quanto più raffinato e più affidabile (cfr. Sez. U, 18 dicembre 2009, n. 26635; Cass., 18 novembre 2015, n. 23554, che ha dichiarato l’illegittimità dell’atto di rettifica, ai fini IRPEF ed IVA, adottato sulla base dei maggiori ricavi presunti in forza dei parametri di cui agli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, e 3, commi 181 e 184, della legge n. 549 del 1995, vigenti all’epoca dell’accertamento, nonostante la congruità dei ricavi dichiarati dal contribuente rispetto agli studi di settore, previsti dagli 62 bis e 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993, conv. in legge n. 427 del 1993, successivamente introdotti).
Si è anzi affermato che in tema di accertamento induttivo, mentre l’errato inquadramento nello studio di settore, in quanto afferente alla genesi dell’atto impositivo, costituisce un’eccezione relativa a norma procedimentale, che deve essere eccepita a pena di decadenza, il successivo affinamento in uno studio di settore più evoluto costituisce ius superveniens , rilevabile anche in appello, sorgendo in capo al contribuente un diritto soggettivo perfetto ad essere riqualificato secondo il nuovo strumento (Cass., 16 dicembre 2019, n. 33035). L’esigenza, e ad un tempo l’autorevolezza dello studio di settore più evoluto, giustifica peraltro l’affermazione secondo cui, a fronte di un accertamento induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, il giudice tributario deve verificare la scelta dell’Amministrazione, in relazione alle censure prospettate, atteso che tali studi vanno preferiti ai diversi parametri utilizzati in sede di accertamento induttivo, per la natura più raffinata dei primi, desumibile dalla stessa normativa che li ha introdotti (cfr. Cass., 18 agosto 2022, n. 24881).
Questi i principi che presidiano l’accertamento mediante applicazione degli studi di settore, nel caso ora al vaglio della Corte, il giudice d’appello, che pur ha riconosciuto la necessità di tener conto della grave incongruenza tra reddito dichiarato e risultanze dello studio applicato, non ha tuttavia valutato se tale requisito sussistesse nel caso di specie. Dalla motivazione, al contrario, emerge che il giudice abbia apprezzato l’attuazione del contraddittorio, ritenendo che da tale confronto fosse dipesa la riduzione dell’originaria pretesa erariale, senza tuttavia avvedersi che tale riduzione era solo effetto della applicazione dello studio di settore più evoluto, doverosa e ineludibile da parte dell’amministrazione finanziaria, pena la nullità dell’atto impositivo stesso, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata.
Ridotto lo scarto al 4,72% tra dichiarato e risultanze dello studio applicabile, il giudice regionale non ha operato alcuna valutazione sulla sussistenza o meno della grave incongruenza.
In tal modo la Commissione regionale non ha fatto applicazione dei principi enunciati in materia dalla giurisprudenza, così incorrendo nell’errore di diritto denunciato con il secondo motivo di ricorso, nonché in una illogicità delle argomentazioni, che non hanno tenuto conto del dato obiettivo del ridotto scarto tra dichiarato e risultanze dello studio applicabile.
Il ricorso in definitiva va accolto, la sentenza va cassata e il giudizio va rinviato alla Corte di giustizia di II grado della Lombardia, che in diversa composizione provvederà al riesame dell’appello, tenendo conto dei principi di diritto enunciati, oltre che alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Lombardia, cui demanda, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, all’esito della camera di consiglio del 12 marzo 2025