Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32980 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 32980 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/12/2024
ha emesso la seguente ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 4772/2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli Avv.ti NOME COGNOME (indirizzo Pec: EMAILpec.kstudioassociato.it) e NOME COGNOME (indirizzo PecEMAILpec.kstudioassociatoEMAILit).
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Dogane dei Monopoli, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 2400/2023, depositata in data 25 luglio 2023, non notificata udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 25 settembre 2024, dal Consigliere NOME COGNOME udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito, per la parte ricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso per cassazione; udito per la parte controricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso per cassazione;
FATTI DI CAUSA
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso avente ad oggetto il provvedimento di diniego dell’istanza di rimborso della somma di euro 39.468,00, corrispondente al valore delle royalties, incluso nella dichiarazione del valore delle merci importate indicata nelle bollette doganali per gli anni 2013 e 2014.
I giudici di secondo grado, dopo avere disposto la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. in attesa della pronuncia della Corte di Cassazione relativa a cause di contenuto analogo intercorrente tra le stesse parti pendenti presso il giudice di legittimità (a seguito della quale la società RAGIONE_SOCIALE riassumeva il giudizio allegando la sentenza della Corte di Cassazione n. 10687 del 5 giugno 2020, che aveva confermato la sentenza di secondo grado n. 6914 del 2016), hanno affermato che:
-) non era consentito, ai sensi dell’art. 91 del d.P.R. n. 43 del 1973, richiedere il rimborso della parte di imposta relativa al valore della
merce rappresentata dalle royalties volontariamente incluse dalla richiedente nel valore della merce in dogana;
-) la società appellante, se riteneva di non dovere includere le royalties nel valore della merce ai fini del pagamento del dazio, non avrebbe dovuto conteggiare tale voce al momento della presentazione della dichiarazione doganale, esattamente come aveva fatto per gli anni antecedenti, impugnando l’eventuale successivo avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle Dogane e dei Monopoli;
-) la spontanea liquidazione dell’imposta doganale calcolata sul valore della merce comprensiva della royalties aveva determinato l’estinzione dell ‘ obbligazione tributaria doganale per acquiescenza e la spontanea adesione della contribuente alla pretesa impositiva, come manifestata dall ‘ Amministrazione in riferimento alle annualità immediatamente antecedenti;
-) nella condotta della società, che si conformava ai precedenti atti impositivi, non era rilevabile alcun errore, né di volontà né di scienza, trattandosi di una libera scelta della contribuente di non addivenire ad un ulteriore contenzioso con l’Amminist razione doganale che, in riferimento agli anni precedenti 2011 e 2012, in cui la società non aveva incluso le royalties nella bollette doganali, aveva già provveduto alla contestazione dell’inesatto assolvimento del dazio doganale mediante emissione di un avviso di accertamento in rettifica;
-) una volta che l’obbligazione si ea estinta per adempimento volontario non era possibile resuscitare la controversia attraverso il meccanismo della istanza di rimborso, proposta al di fuori dei casi specificamente previsti dall’art. 91 d.P.R. n.73 del 1973 (in particolare errore di calcolo) e in assenza di ogni vizio di volontà o di scienza riscontrabile nella dichiarazione doganale presentata dalla società;
-) infine, il diniego di rimborso appariva legittimo poiché la richiesta di restituzione di parte del dazio doganale versato era stata giustificata dalla società con la allegazione di due pronunce di merito favorevoli
alla contribuente ma relative ad annualità diverse, in relazione alle quali la controversia riguardava l’emissione di avviso di accertamento in rettifica;
-) era del tutto evidente che le pronunce di merito relative ad atti di altra natura (avvisi di accertamento e non diniego di rimborso) e riguardanti anni di imposta diversi non potevano «fare stato» e fondare il diritto al rimborso in relazione alle diverse annualità per le quali era stata avanzata la richiesta di restituzione.
La società RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione con atto affidato a sette motivi.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli resiste con controricorso.
La società RAGIONE_SOCIALE ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 93 del d.P.R. n. 43 del 1973 e dell’art. 11 del decreto legislativo n. 374 del 1990. I Giudici di secondo grado erano incorsi in un evidente errore, ritenendo che il rimborso ai sensi dell’art. 91 del d. P.R. n. 43 del 1973 potesse essere richiesto solo ed esclusivamente nel caso di errore di calcolo determinati da vizi di scienza o volontà nella compilazione della dichiarazione doganal e. L’art. 11 del decreto legislativo n. 374 del 1990, espressamente richiamato dall’art. 91 T ULD non limitava affatto il procedimento di revisione su istanza di parte ai soli casi di errore commesso nella compilazione della dichiarazione di importazione. avendo «spontaneamente» proceduto alla liquidazione dei
Parimenti erronea era la sentenza di appello laddove aveva escluso il diritto al rimborso dei dazi affermando che la società RAGIONE_SOCIALE, dazi calcolati sul valore della merce comprensiva della royalties, aveva estinto l’obbligazione doganale per acquiescenza e adesione alla pretesa impositiva contenuta in accertamenti relativi ad altre annualità.
Nel caso di specie, la corresponsione dei dazi non era avvenuta spontaneamente perché la società aveva ritenuto di includere i diritti di licenza nel valore delle merci importate, e corrispondere i dazi su tale valore, al fine esclusivo di poter continuare ad operare sul mercato, nonché evitare ulteriori contestazioni da parte degli Uffici di riferimento; le annualità 2011 e 2012 erano state oggetto del contenzioso conclusosi con la sentenza della Corte di Cassazione n. 10687 del 2020 che aveva riguardato proprio le dichiarazioni di importazione effettuate in tali annualità e i medesimi contratti di cui al presente giudizio. Nel caso di specie, non sussisteva nessuno dei presupposti per ritenere che la condotta della società costituisse acquiescenza alla debenza dei dazi sulle royalties corrisposti negli anni 2013 e 2014. La sentenza era pure erronea laddove aveva affermato che i precedenti di merito citati dalla società a dimostrazione del proprio diritto al rimborso non erano vincolati per il presente giudizio in quanto afferenti ad altre annualità e a differenti atti impositivi, in quanto i giudici di secondo grado avrebbero dovuto analizzare le clausole dei contratti di licenza prodotti in giudizio e verificare se i precedenti giurisprudenziali favorevoli all’esponente, e da quest’ultima citati nei propri critti difensivi, avessero riguardo i medesimi contratti di licenza, e non le medesime annualità o i medesimi atti impositivi emessi dall’Ufficio delle Dogane.
2. Il secondo motivo deduce, in subordine rispetto al primo motivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 113 cod. proc. civ. e la violazione del principio iura novit curia . I giudici di secondo grado anziché ancorarsi al dato normativo indicato dalla società ricorrente e liquidare la questione negando alla società il diritto al rimborso per il semplice fatto che l’art. 91 Tuld non trovava applicazione nel caso di specie, avrebbero dovuto individuare altre disposizioni applicabili ai rimborsi dei maggiori diritti doganali riscossi dall’Agenzia delle Dogane, in ossequio al principio iura novit curia
sancito dall’art. 113 cod. proc. civ.. Il rimborso dei maggiori dazi indebitamente corrisposti all’atto di importazione era prevista dall’art. 117, paragrafo 1, Reg. Ue n. 952/2013 (CDU) (« si procede al rimborso o allo sgravio dell’importo del dazio all’importazione o all’esportazione qualora l’importo corrispondente all’obbligazione doganale inizialmente notificata superi l’importo dovuto o l’obbligazione doganale sia stata notificata al debitore non conformemente all’articolo 102, paragrafo 1, secondo comma, lettere c) o d) » ) o ancora dall’art. 173, paragrafo 3, CDU (« su richiesta del dichiarante, entro tre anni dalla data di accettazione della dichiarazione in dogana, la modifica della stessa può essere autorizzata dopo lo svincolo delle merci per consentire al dichiarante di adempiere ai suoi obblighi riguardanti il vincolo delle merci al regime doganale in questione »), nonché, dall’art. 11 del decreto legislativo n. 374 del 1990 il quale disciplinava il procedimento di revisione dell’accertamento su i stanza di parte che consentiva di emendare le dichiarazioni di importazioni e di ottenere il rimborso dei maggiori dazi erroneamente versati.
3. Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 e 93 Tuld, 11 del decreto legislativo n. 374 del 1990, 117 e 173 Reg. Ue n. 952/2013 (CDU) e il vizio di motivazione apparente della sentenza impugnata in merito alla sussistenza del diritto al rimborso della società RAGIONE_SOCIALE I Giudici di secondo grado non avevano dato conto delle ragioni e -soprattutto – degli elementi probatori che avevano giustificato la propria decisione, né erano stato indicate le pronunce di merito allegate dalla contribuente (in numero di tre) a sostegno della propria istanza di rimborso, né le diverse annualità interessate da tali pronunce che da sole non valevano a fondare il diritto al rimborso dell’esponente.
4. Il quarto motivo deduce, in re lazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 7, comma 5 bis , del decreto legislativo n. 546 del 1992. La sentenza era erronea perchè la società ricorrente non si era limitata ad
allegare soltanto due pronunce di merito, ma aveva prodotto, nel giudizio di primo grado, i contratti di licenza d’uso dei marchi relativi alle operazioni di importazione per le quali aveva richiesto il rimborso dei dazi indebitamente corrisposti; la sentenza n. 6914/2016 della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, resa in senso favorevole alla società e in relazione alla medesima vertenza e nel giudizio di secondo grado la sentenza n. 10687/2020 della Suprema Corte che aveva determinato il passaggio in giudicato della sentenza n. 6914/2016, vincolante per il giudizio. La Commissione tributaria regionale aveva pure violato l’art. 7, comma 5 bis , del decreto legislativo n. 546 del 1992, non avendo considerato tutti gli elementi di prova emersi nel corso del giudizio che, se analizzati, avrebbero portato al riconoscimento del diritto al rimborso della società.
5. Il quinto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 324 cod. proc. civ. e dell’art. 2909 cod. civ. e la violazione del giudicato esterno vincolante intervenuto a seguito della sentenza della Suprema Corte n. 10687 del 2020. I giudici di secondo grado, dopo aver dato atto di aver sospeso il giudizio a norma dell’art. 295 cod. proc. civ. in attesa della pronuncia della Suprema Corte relativa a cause di contenuto analogo, avevano rigettato l’appello della società senza nulla dire in merito alla sentenza resa dalla Corte di Cassazione, in senso favorevole all’esponente, proprio in esito ad uno dei giudizi per il quale era stata disposta la sospensione. La circostanza per cui la causa conclusasi con la sentenza n. 6914 del 2016 della Commissione tributaria regionale della Lombardia vertesse sulla medesima fattispecie di quella oggetto del presente giudizio era stata espressamente riconosciuta dagli stessi Giudici di secondo grado, che, infatti, avevano disposto la sospensione del giudizio ex art 295 cod. proc. civ.. I giudici di secondo grado, dunque, nel disporre la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ.,
avevano riconosciuto in un primo momento il carattere vincolante della decisione della causa pendente davanti la Corte di Cassazione, salvo poi omettere qualsiasi riferimento alla sentenza n. 10687 del 2020 emessa in esito a tale giudizio, che aveva riguardato i medesimi contratti di licenza d’uso dei marchi (che non erano stati stipulati per singole annualità, ma erano contratti di durata che spiegavano i propri effetti sulle operazioni di importazione effettuate in più annualità) in relazione ai quali la s ocietà RAGIONE_SOCIALE aveva presentato l’istanza di rimborso dei dazi per cui era causa e che erano stati ritualmente prodotti in giudizio dall’esponente.
6. Il sesto motivo deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia, ovvero i giudici di secondo grado non avevano valutato che la sentenza n. 10687 del 2020 riguardava i medesimi contratti di cui alla presente controversia sulla base dei quali la Corte di Cassazione era giunta alla conclusione che, nel caso di specie, non sussistevano i presupposti per la daziabilità delle royalties, nonché la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 6914 del 2016, confermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10687 del 2020, che aveva assunto la veste di giudicato esterno vincolante ai sensi degli artt. 324 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ. e i contratti per la concessione dei diritti di licenza stipulati dalla società RAGIONE_SOCIALE con i licenzianti che non prevedevano un legame tra la produzione e il pagamento delle royalties e neppure un controllo dei licenzianti nei confronti dei produttori esteri che esulasse dal mero controllo di qualità sui prodotti.
7. Il settimo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 Reg. Ue n. 2193 del 1992 (CDC) e degli artt. 159 e 160 DAC, in quanto i giudici di secondo grado avevano omesso di analizzare le clausole dei contratti di licenza d’uso dei marchi prodotti in giudizio con ciò violando le norme unionali in materia di daziabilità dei diritti di licenza. Nel caso
di specie, non sussisteva nessuna delle condizioni imposte dalla normativa e dalla prassi comunitarie per la daziabilità delle royalties, come emergeva dall’esame della documentazione versata in atti (contratto stipulato dalla COGNOME con Walt Disney e contratti con le licenzianti).
Il quinto e il sesto motivo, la cui trattazione è prioritaria perché riguardano la sussistenza del giudicato esterno (in relazione alle sentenze della Corte di Cassazione n. 10687 del 5 giugno 2020 e della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 6914 del 2016, confermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10687 del 2020), sono infondati.
8.1 E’ necessario premettere che nel caso in esame viene in rilievo il giudicato sostanziale che trova la sua fonte normativa nell’art. 2909 cod. civ., a tenore del quale « l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa » e che, a differenza del giudicato formale di cui all’ art. 324 cod. proc. civ. (che determina il momento nel quale gli effetti della sentenza diventano immutabili, momento che viene individuato nell’esaurimento d i tutti i mezzi di impugnazione oppure nel mancato esercizio del potere di impugnazione nei termini stabiliti), stabilisce i limiti oggettivi e soggettivi degli effetti sostanziali, ormai non più soggetti a modificazione, determinati dalla sentenza.
8.2 I limiti oggettivi del giudicato, che sono delineati dall’accertamento contenuto nella sentenza, corrispondono all’oggetto del processo e riguarda non solo quanto dedotto dalle parti (il c.d. giudicato esplicito o dedotto), ma anche le ragioni non specificamente dedotte che si presentano come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia (c.d. deducibile o giudicato implicito) (Cass., 9 novembre 2022, n. 33021; Cass., 7 dicembre 2021, n. 38767; Cass., 12 marzo 2020, n. 7115; Cass., 26 febbraio 2019, n. 5486).
8.3 Come affermato da questa Corte, anche di recente, « il principio in virtù del quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile concerne i limiti oggettivi del giudicato, il cui ambito di operatività è correlato all’oggetto del processo e riguarda, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, estendendosi non soltanto alle ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche a tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia; i limiti oggettivi del giudicato, pertanto, anche con riguardo al deducibile, non si estendono a domande diverse per petitum e causa petendi, rispetto alle quali può porsi soltanto il problema di una eventuale preclusione che, tuttavia, non può ritenersi sussistente in ragione del mero rapporto di connessione intercorrente con una domanda già proposta in un giudizio precedente, in quanto la connessione incide normalmente sulla competenza del giudice, ma non postula il necessario cumulo delle domande connesse » (Cass., 11 gennaio 2024, n. 1259).
8.4 Ancora, nell’ambito del giudicato, si opera un’ulteriore distinzione tra giudicato interno e giudicato esterno (che è quello che rileva nel caso in esame) e mentre il giudicato interno si forma nell’ambito dello stesso processo, tra le stesse parti e sul medesimo oggetto, per effetto di una impugnazione parziale, con il conseguente corollario che sono coperti da giudicato i punti della sentenza non impugnati (Cass., 30 giugno 2022, n. 20951; Cass., 15 dicembre 2021, n. 40276; Cass., 18 settembre 2017, n. 21566; Cass., 17 settembre 2008, n. 23747; Cass., 23 agosto 2007, n. 17935), i l giudicato esterno si forma in un diverso giudizio, tra le stesse parti ed avente lo stesso oggetto e ciò anche se il giudizio successivo ha delle finalità diverse (Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, Cass., 1 luglio 2015, n. 13498; Cass., 30 ottobre 2012, n. 24433; Cass., 29 luglio 2011, n. 16675; Cass., Sez. U., 16 giugno 2006, n. 13916).
8.5 Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sussiste giudicato esterno qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato; in tal caso, l’accertamento compiuto nel giudicato in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo del giudicato, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (cfr. Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, in motivazione; Cass., 3 gennaio 2019, n. 37).
8.6 Più specificamente, il giudicato esterno impedisce la proposizione di un nuovo giudizio caratterizzato dalla identità dei predetti elementi (soggetti e oggetto) ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche nell’ipotesi in cui il medesimo si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, trattandosi di un dato che può essere assimilato agli elementi normativi astratti, in quanto destinato a fissare la regola del caso concreto, sicché il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del «ne bis in idem», corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (Cass., 11 gennaio 2022, n. 571; Cass., 26 luglio 2021, n. 21375).
8.7 Dunque, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause
preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto e tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente. In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato appare d’altronde coerente non solo con l’oggetto del giudizio tributario, che attraverso l’impugnazione dell’atto mira all’accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria (salvo che il giudizio non si risolva nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione), ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale «norma agendi» cui devono conformarsi tanto l’Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell’individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d’imposta (Cass., 24 maggio 2022, n. 16684; Cass., 27 ottobre 2021, n. 38950; Cass., 20 febbraio 2020, n. 15171; Cass., 20 dicembre 2018, n. 32957).
8.8 Ciò posto, osserva la Corte che, nel caso di specie, non sia invocabile l’autorità del giudicato sostanziale esterno che opera, come già detto, entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione, e
presuppone, quindi, che la causa precedente e quella in atto abbiano in comune, oltre ai soggetti, anche il petitum e la causa petendi , restando irrilevante, a tal fine, l’eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione (cfr. Cass., 1 marzo 2024, n. 5515; Cass., 7 giugno 2021, n. 15817; Cass., 25 giugno 2018, n. 16688; Cass., 24 marzo 2014, n. 6830).
8.9 Ed invero, è sufficiente rilevare, al riguardo, che la causa in esame riguarda bollette doganali afferenti ad operazioni doganali diverse rispetto a quelle in relazione alle quali le società hanno dedotto la sussistenza del giudicato esterno, ciò che rende diverso il « petitum » degli atti di contestazione degli illeciti doganali oggetto di impugnazione nelle rispettive cause.
8.10 E’ utile precisare che, nel caso di specie, il fatto generatore dell’imposta è retto dalla dichiarazione in dogana e sul valore doganale delle merci importate oggetto della bolletta doganale; vi è, dunque, una dichiarazione doganale, atto con il quale il soggetto interessato manifesta la volontà di vincolare quelle determinate merci dichiarate ad uno specifico regime doganale e la merce dichiarata è proprio quella oggetto della dichiarazione, con il valore doganale esposto in dichiarazione, ovvero il fatto generatore dell’obbligazione doganale è retto dalla dichiarazione in dogana (Cass., 26 febbraio 2019, n. 5560). Inoltre, questa Corte ha pure affermato che, nella specifica materia doganale, non sussiste un equipollente alla « diversità di periodo d’imposta », che, sicuramente, non è identificabile nel compimento delle singole operazioni doganali e ha statuito il principio di diritto secondo cui « In tema di sanzioni doganali è inapplicabile il regime della continuazione di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 472 del 1997, che postula che le violazioni siano state “commesse in periodi d’imposta diversi”, nozione questa estranea alla materia doganale, senza che ad essa possa ritenersi equivalente il compimento delle singole operazioni d’importazione o esportazione » (Cass., 21
settembre 2020, n. 19663), il che esclude, al contempo, la problematica della configurabilità, nella vicenda in esame, dell’istituto del giudicato esterno in caso di situazioni giuridiche di durata, (nella specie, per quanto rilevato, del tutto assenti), che, come già rilevato, opera in presenza di elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta, assumono carattere tendenzialmente permanente.
8.11 Né, all’evidenza, in assenza di un giudicato, viene in rilievo un problema di compatibilità o di contrasto tra norme europee produttive di effetti diretti e disposizioni nazionali di diritto sostanziale, quale quella di cui all’art. 2909 cod. civ., con la conseguente disapplicazione delle disposizioni nazionali in virtù del carattere di supremazia dell’ordinamento dell’Unione.
8.12 In proposito, occorre precisare che la questione dei rapporti tra la normativa nazionale che fissa la autorità del giudicato ed il diritto dell’Unione è stata già esaminata da questa Corte sulla base dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia, che ha affermato che « Il diritto dell ‘UE, così come costantemente interpretato dalla corte di giustizia (sentenze 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, e 16 marzo 2006, in causa C234/04, Kapferer) non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione. Invero, la corte di giustizia ha fatto salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, in cui il rinvio pregiudiziale è possibile o obbligatorio anche a fronte di passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ipotesi che ricorrono allorquando sussistano discriminazioni tra situazioni di diritto unionale e situazioni di diritto interno ovvero che sia reso in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento UE. Neppure sussistono le ipotesi eccezionali in cui, invece, il giudice nazionale può superare il giudicato:
non vertesi in ipotesi di discriminazioni tra situazioni di diritto dell’UE e situazioni di diritto interno, né le norme dell’ordinamento nazionale da cui deriva l’inammissibilità del ricorso in cassazione rendono in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento unionale » (Cass., 13 luglio 2018, n. 18642 e, più di recente, Cass., 6 agosto 2019, n. 2100 e Cass., 14 dicembre 2021, n. 397902).
8.13 Ed invero, « Il giudice dell’Unione ha, con plurime pronunce (per tutte: Corte di Giustizia 4 marzo 2020, in causa C-34/19, punti 65-71, Telecom s.p.a. e giurisprudenza ivi citata ) evidenziato che: – qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata – conformemente ai principi di equivalenza e di effettività e sempre che dette condizioni siano soddisfatte – per ripristinare la conformità della situazione oggetto di giudizio alla normativa dell’Unione; – in caso diverso, il diritto dell’Unione non impone che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto adottata dalla Corte, un organo giurisdizionale nazionale debba necessariamente riesaminare una sua decisione che goda dell’autorità di cosa giudicata . A tale riguardo la Corte di Giustizia ha evidenziato l’importanza che riveste, sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali, il principio dell’autorità della cosa giudicata. Infatti, al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione. Il diritto dell’Unione non impone, dunque, ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono
autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetta di porre rimedio alla violazione di una disposizione del diritto dell’Unione, di qualunque natura essa sia. Nella sentenza del 10 luglio 2014 in causa C-213/13 COGNOME la Corte di Giustizia ha chiarito che il suddetto principio non è posto in discussione dalla propria sentenza 18 luglio 2008, in causa C-119/05 COGNOME spa (secondo la quale il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una disposizione nazionale, come l’articolo 2909 del codice civile italiano, che mira a consacrare il principio dell’intangibilità del giudicato nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto dell’Unione e dichiarato incompatibile con il mercato comune da una decisione della Commissione europea divenuta definitiva). Si è precisato che nel caso ivi esaminato si trattava di una situazione del tutto particolare, in cui erano in questione principi di disciplina della ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato » (Cass., 12 maggio 2022, n. 15102, in motivazione; Cass. 14 dicembre 2021, n. 39790).
8.14 Le considerazioni sopra espresse sono state esaminate anche alla luce della giurisprudenza unionale in materia di limiti di applicabilità del giudicato quando la pretesa impositiva ha avuto ad oggetto, quale quella in esame, tributi armonizzati, cioè sottoposti alla specifica disciplina e questa Corte ha rilevato che « Peraltro trattandosi pur sempre dell’opponibilità di un giudicato, con riferimento ai tributi armonizzati occorre tenere conto della regola di diritto ricavabile da CGUE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, secondo la quale, in assenza di una normativa unionale in materia, ‘ le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi. Esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere
strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) ‘ ; 2.4.1. Sicché, secondo la menzionata sentenza, il diritto unionale osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 cod. civ., in una causa vertente sull’IVA concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, ‘ in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta ‘ . 2.4.2. Tale principio è stato già recepito dalla giurisprudenza della S.C. in materia di IVA, affermando che non è possibile estendere ad altri periodi di imposta un giudicato in contrasto con la disciplina unionale, avente carattere imperativo, proprio perché ne comprometterebbe la sua effettività (Cass. n. 9710 del 19/04/2018; conf. Cass. n. 8855 del 04/05/2016; Cass. 5 ottobre 2012, n. 16996; Cass. 19 maggio 2010, n. 12249). 2.4.3. Peraltro, è la stessa sentenza RAGIONE_SOCIALE a chiarire che, in linea di principio, gli effetti del giudicato vanno salvaguardati salvo ipotesi del tutto particolari (si veda, in senso analogo, anche CGUE 10 luglio 2014, in causa C-213/13, COGNOME, § 58) o che investono la stessa ripartizione di competenze tra gli Stati membri e la UE (cfr. CGUE 18 luglio 2007, in causa C-119/05, COGNOME). Si tratta, pertanto, di un principio da applicare restrittivamente, in quanto ‘ il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto ‘ (CGUE 10 luglio 2014, cit., § 59) » e ha concluso affermando che «2.5. Orbene, non è dubbio che la materia dei dazi doganali risenta, al pari dell’IVA, delle norme dettate dalla UE, trattandosi di risorsa propria dell’Unione. E, tuttavia, non può non evidenziarsi che, diversamente dall’IVA, l’imposta non è
suscettibile di applicazione periodica, ma riguarda singole importazioni, sicché l’occasionale impedimento all’effettività del diritto unionale conseguente all’applicabilità della regola prevista dall’art. 2909 cod. civ. non è di rilevanza pari a quanto prospettato dalla CGUE nella sentenza RAGIONE_SOCIALE, laddove la non corretta applicazione del diritto dell’unione «si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione» (CGUE 3 settembre 2009, cit., § 30 )» (Cass., 16 dicembre 2019, n. 33095, in motivazione).
8.15 In conclusione, la Corte di giustizia, tenuto conto dei precedenti sopra indicati, ha confermato il valore che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario che negli ordinamenti giuridici nazionali e che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie, precisando che una interpretazione dell’art. 2909 cod. civ., che consenta di ritenere comunque prevalente l’autorità della cosa giudicata rispetto all’esigenza di tutelare l ‘ applicazione del diritto comunitario, non è corretta, in quanto ostacoli di tale portata all’applicazione effettiva delle norme comunitarie in materia di tributi unionali non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere, dunque, considerati in contrasto con il principio di effettività. Ancora, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi (adesso principio di competenza ex art. del TUE, che richiama l ‘art 47 della
Carta, cfr. Corte di giustizia UE, sentenza 2 marzo 2021, causa C824/18) e non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).
8.16 In ultimo, è utile precisare che il giudicato giammai può riguardare l’attività interpretativa delle norme di diritto, in quanto « l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta dal Giudice, consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire limite all’attività esegetica esercitata da altro Giudice, dovendosi richiamare a tale proposito il distinto modo in cui opera il vincolo determinato dall’efficacia oggettiva del giudicato ex art. 2909 cod. civ. rispetto a quello imposto, in altri ordinamenti giuridici, dal principio dello ‘ stare decisis ‘ (cioè, del precedente giurisprudenziale vincolante) che non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale (cfr. Cass, 15 luglio 2016, n. 14509, Cass., 21 ottobre 2013, n. 23723) », con la conseguenza che « l’interpretazione ed individuazione della norma giuridica posta a fondamento della pronuncia -salvo che su tale pronuncia si sia formato il giudicato interno -non limitano il Giudice dell’impugnazione nel potere di individuare ed interpretare la norma applicabile al caso concreto e non sono, quindi, suscettibili di passare in giudicato autonomamente dalla domanda o dal capo cui si riferiscono, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione (cfr. Cass. 20 ottobre 2010, n. 216561, Cass. 23 dicembre 2003, n. 19679) » (cfr. Cass., 5 marzo 2024, n. 5822, in motivazione). 8.17 Né può farsi richiamo al principio, più volte enunciato in sede di legittimità, in forza del quale « se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico -giuridico di un diritto derivatone, il
giudicato si estende al predetto accertamento e pertanto spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto (Cass., Sez. 3, 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., Sez. L, 14 agosto 1999, n. 8680; Cass., Sez. 3, 29 settembre 1997, n. 9548; Cass., Sez. L, 13 maggio 1995, n. 5243; Cass., Sez. 1, 22 novembre 1990, n. 11277) » (Cass., 14 giugno 2024, 16618, in motivazione), poiché, per quanto rilevato, tale principio postula che i giudizi interessati siano fra le stesse parti e vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, ancorché le finalità dei due giudizi siano diverse, evenienza che non sussiste nella fattispecie in esame. Ed invero, solo in tal caso « la denuncia di violazione del giudicato esterno attribuisce poi a questa Corte il potere di accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito » (Cass., Sez. U., 28 novembre 2007, n. 24664).
8.18 In conclusione, il quinto e il sesto motivo vanno rigettati in applicazione del seguente principio di diritto: « Il diritto dell’UE , come interpretato dalla Corte di giustizia nel rispetto del principio di competenza ex art. 4 del TFUE, non impone al giudice nazionale, anche in tema di tributi armonizzati, di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato, in ossequio ai principi di equivalenza e di effettività, non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie».
9. Il terzo motivo è infondato.
9.1 I giudici di secondo grado hanno affermato che « il diniego di rimborso appare legittimo poiché la richiesta di restituzione di parte del dazio doganale versato è stata giustificata dalla società con la allegazione di due pronunce di merito favorevoli alla contribuente ma relative ad annualità diverse, in relazione alle quali la controversia riguardava l’emissione di avviso di accertamento in rettifica; è del tutto evidente che le pronunce di merito relative ad atti di altra natura (avvisi di accertamento e non diniego di rimborso) e riguardanti anni di imposta diversi non possono ‘fare stato’ e fondare il diritto al rimborso in relazione alle diverse annualità per le quali è stata avanzata la richiesta di restituzione »; la Commissione tributaria regionale, dunque, ha ritenuto che la società ricorrente non aveva fornito la prova, sulla sussistenza dei presupposti dell’istanza di rimborso dalla stessa presentata (ovvero l’insussistenza delle condizioni per le quali il pagamento delle royalties potesse considerarsi «condizione della vendita» nel senso di cui alla normativa UE e, segnatamente, che i titolari dei diritti di licenza sui marchi non esercitassero alcun controllo o il loro controllo fosse solo un «controllo di qualità» sulle merci prodotte all’estero) e che la società si era limitata, come risultava dagli atti, ad allegare due pronunce di merito favorevoli, ma relative ad annualità diverse, in relazione alle quali la controversia riguardava l’emissione di avvisi di accertamento in rettifica (cfr. pagina 3 della sentenza impugnata).
9.2 Risulta, pertanto, evidente che la decisione impugnata assolve in misura adeguata al requisito di contenuto richiesto dalle disposizioni di legge di cui il ricorso lamenta la violazione, attesa l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione.
9.3 Va osservato, con la giurisprudenza di questa Corte, che, dovendo l’obbligo motivazionale ritenersi compiutamente adempiuto allorché
per mezzo della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione venga ad essere illustrato il percorso motivazionale che ha indotto il giudice a regolare la fattispecie al suo esame mediante la norma di diritto applicata, viene al contrario meno all’obbligo in parola – e si mostra perciò viziata dal difetto di motivazione apparente o di mancanza della motivazione – la decisione nella quale « il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento » (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., 5 agosto 2019, n. 20921; Cass., 7 aprile 2017, n. 9105), evenienza che, nel caso in esame, per quanto rilevato, non si è verificata.
9.4 Peraltro, la decisione impugnata, sul punto, è conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte che ha ribadito, anche di recente, che il rimborso di imposta dà, invero, origine ad un rapporto giuridico nel quale – con una netta inversione dei ruoli rispetto allo schema paradigmatico del rapporto tributario – è il contribuente a rivestire il ruolo attivo, assumendo nei confronti dell’Erario la posizione di creditore di una determinata somma di denaro, per il fatto di avergliela in precedenza versata (Cass., 3 luglio 2023, n. 18644; Cass., 2 settembre 2022, n. 25999; Cass., 3 marzo 2020, n. 5827).
Il quarto motivo è pure infondato, avendo la società ricorrente prospettato la violazione del disposto di cui all’art. 2697 cod. civ., ancorché il giudice di appello non abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata, secondo le regole di scomposizione della fattispecie in esame contraddistinta dalla presentazione dell’istanza di rimborso ( Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769).
10.1 Nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale ha ritenuto, correttamente, che venendo in rilievo il diniego di rimborso
della somma spontaneamente pagata dalla società, tenendo conto, anche delle royalties, nella determinazione del valore delle merci importate, era onere della stessa società allegare e dimostrare la insussistenza delle condizioni di vendita per le quali il pagamento delle royalties potesse considerarsi condizione della vendita nel senso di cui alla normativa UE e, più in particolare, che i titolari dei diritti di licenza sui marchi non esercitassero alcun controllo o il loro controllo fosse un « controllo di qualità » sulle merci prodotte all’estero , e che una prova siffatta non era stata fornita dalla società ricorrente, appellata, che si era limitata a invocare l’autorità della sentenza della Corte di Cassazione n. 10687 del 2020, riguardanti bollette doganali degli anni 2011 e 2012, due pronunce di merito favorevoli alla contribuente, ma relative ad annualità diverse, in relazione alle quali la controversia riguardava l’emissione di avviso di accertamento in rettifica ; i giudici di secondo grado, dunque, con un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, hanno sostanzialmente affermato che la società ricorrente non aveva assolto l’onere, sulla stessa incombente, di allegare e provare i presupposti costitutivi dell’istanza di rimborso, ovvero l’assenza dei presupposti per la configurabilità del pagamento delle royalties come «condizione della vendita», con conseguente assoggettamento del relativo importo ai diritti doganali.
10.2 La censura proposta, dunque, lungi dal denunciare l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa in quella astratta recata da una norma di legge o l’omesso esame di fatti decisivi, mira, dunque, in definitiva ad ottenere una diversa ricostruzione dei fatti di causa, censurando la negata congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova acquisiti, che correttamente ha ritenuto non provati i presupposti per il non assoggettamento dell’importo dei diritti doganali nel valore delle m erci oggetto di importazione. Si tratta, pertanto, di argomentazioni critiche con
evidenza diretta a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge (cfr. Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
10.3 Quanto all’incidenza al caso di specie della nuova previsione in materia di onere probatorio, di cui al comma 5 bis dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della legge n. 130 del 2022, cui la società ricorrente ha fatto riferimento, deve osservarsi che, come già precisato da questa Corte che « In tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della legge n. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale ». questa Corte (Cass., 27 ottobre 2022, n. 31878) e che « La nuova formulazione legislativa, che prevede che ‘L’amminist razione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni’, non costituisce abrogazione, neppur e implicita, dell’utilizzo delle presunzioni non legali in materia tributaria e, precisamente, delle presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., ma detta al giudice tributario le regole di valutazione della prova, stabilendo che se questa, anche presuntiva, fornita dall’amministrazione finanziaria, quando ne è onerata, è
contraddittoria o insufficiente, allora il giudice deve annullare l’atto impositivo, e allo stesso modo dovrà fare quando addirittura essa manchi, come, invero superfluamente, pure prevede la disposizione in esame» (Cass., 13 giugno 2024, n. 16493)
10.4 A quanto detto aggiungasi che tale disposizione ha chiaramente natura sostanziale posto che, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, sono tali le norme che, come quella in esame, consistono in regole di giudizio la cui applicazione comporta una decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda, mentre hanno carattere processuale le disposizioni che disciplinano i modi di deduzione, ammissione e assunzione delle prove (cfr. Cass., 17 luglio 2018, n. 18912). Ne consegue che la disposizione in esame, di natura sostanziale e senza alcuna valenza interpretativa di altre disposizioni in tema di valutazione delle risultanze probatorie, non ha efficacia retroattiva e, quindi, si applica, ai giudizi introdotti successivamente al 16 settembre 2022, data di entrata in vigore dell’art. 6 della legge n. 130 del 2022 che l’ha introdotta, per la quale il successivo art. 8, dettato in materia di « disposizioni transitorie e finali », non prevede una diversa decorrenza (cfr. Cass., 13 giugno 2024, n. 16493, citata, in motivazione).
11. Il settimo motivo è inammissibile, atteso che il denunciato vizio di omesso esame delle clausole dei contratti di licenza d’uso dei marchi prodotti in giudizio , riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo per il giudizio (Cass., Sez. U., sentenza 7 aprile 2014, n. 8053). In particolare, questa Corte ha chiarito che il fatto storico prospettato, inteso come un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, deve essere decisivo, ovvero per potersi configurare il vizio è
necessario che la sua assenza conduca, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data, vale a dire un fatto che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 14 novembre 2013, n. 25608). Inoltre, il vizio dedotto, non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24035; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 23 maggio 2014, n. 11511); né la Corte di cassazione può procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass., 7 gennaio 2014, n. 91; Cass., Sez. U., 25 ottobre 2013, n. 24148). Peraltro, questa Corte ha anche affermato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del decreto legge n. 83/2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 134/2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass., 14 giugno 2017, n. 14802).
11.1 Ciò posto, la doglianza della società ricorrente, secondo cui i giudici di secondo grado non avevano valutato le clausole dei contratti di licenza d’uso dei marchi prodotti in giudizio , non prospetta alcun riferimento a fatti controversi, nella accezione indicata, di specifici accadimenti o di precise circostanze, intesi in senso storico e naturalistico, aventi carattere di decisività.
Il primo e del secondo motivo di ricorso, con i quali è stata lamentata la violazione degli artt. 91 e 93 del d.P.R. n. 43 del 1973, dell’art. 11 del decreto legislativo n. 374 del 1990 e la violazione del principio « iura novit curia », sono inammissibili per carenza di interesse ad agire, giacché prospettano alcune questioni che, se anche fossero risolte come postula la società ricorrente, non potrebbero comportare la cassazione della sentenza e, dunque, sono prive di decisività (Cass., 25 giugno 2020, n. 12678).
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 25 settembre 2024.