Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9160 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 9160 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 07/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 18263/2017 R.G. proposto da: COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOMECODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende -controricorrente-
avverso la SENTENZA di COMM.TRIB.REG. dell’EMILIA ROMAGNA -BOLOGNA n. 538/2017 depositata il 26/01/2017. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 15/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
COGNOME NOME , titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE di Carigi NOME , si vedeva contestato, con PVC del 16/12/2009 redatto dai funzionari dell’Agenzia delle entrate-D.P. di ForlìCesena, richiamante anche un altro PVC del 26/01/2005, sfociato in analoghe ma distinte contestazioni, una partecipazione attiva ad una cd. frode carosello infraunionale, fondata sull’utilizzo di soggetti interposti al fine di evadere l’IVA, mediante il ricorso a fatture soggettivamente inesistenti. In particolare, stando al PVC, ‘la RAGIONE_SOCIALE ha agito nel tipico ruolo di interponente, ovvero con un ruolo attivo e consapevole’, di modo che, giusta la tesi che sarebbe stata fatta propria dall’Agenzia delle entrate, ‘la finalità dei clienti nazionali come la RAGIONE_SOCIALE di Carigi, effettivo importatore, sarebbe stata quella di acquisire merci ad un prezzo inferiore a quello di mercato detraendosi illegittimamente l’IVA derivante dalle stesse operazioni, ma non versata all’Erario dai propri fornitori interposti come ‘cartiere” (p. 3 ric.).
1.1. Condiviso il PVC del 16/12/2009, l’Agenzia, giusta avviso di accertamento n. THF01H401620-2010 notificato il 08.10.2010, per l’anno d’imposta 2005, contestava:
-illegittima detrazione IVA pari ad € 172.603,66 relativa ad acquisti per operazioni inesistenti e pari ad € 49,72 per costi non inerenti;
omessa integrazione di fatture di acquisto intracomunitarie per IVA complessiva non annotata di € 170.776,67, sanzionata ai sensi degli artt. 38 e 46 d.l. n. 331 del 1993;
irregolare tenuta delle scritture contabili;
presentazione della dichiarazione annuale IVA con imposta inferiore a quella dovuta;
addebito di IVA illegittimamente applicata al regime del margine per un totale di € 2.750,00 con rideterminazione dell’IVA complessiva in misura pari ad € 346.180,00;
determinando
-un maggior imponibile IVA per operazioni inesistenti pari ad € 863.016,01 ed un maggior imponibile IVA per costi non inerenti pari ad € 248,58;
-un maggior imponibile IRPEF di € 945.206,24;
-un maggior imponibile IRAP di € 950.099,24,
e conseguentemente liquidando maggiori imposte, interessi e sanzioni.
1.2. Anche dal PVC del 16/12/2009, come, già prima, dal PVC del 26/01/2005, era scaturito un procedimento penale, esitato in sentenza assolutoria n. 458/12 del 16.04.2012, replicante quella n. 417/09 del 02.04.2009.
Il contribuente adiva impugnatoriamente la CTP di ForlìCesena, la quale, secondo quanto riferito dalla CTR, giusta ‘sentenza n. 214/2012’ (cfr. il frontespizio della sentenza impugnata), ‘rigettava il ricorso, condannando il contribuente al pagamento delle spese di lite, sulla base del fatto che l’Agenzia aveva pienamente assolto all’onere probatorio previsto dalle norme di legge’. Valga rilevare che con tale versione della CTR coincide quanto leggesi a p. 7 ric.: ‘In data 19.11.2012 veniva depositata la sentenza n. 213 /3/12 pronunciata dalla Sez. n. 3 della Commissione Tributaria Provinciale di Forlì, che rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali’; un tanto sebbene, poi, in più luoghi della parte del ricorso dedicata all’illustrazione dei motivi, ed esplicitamente alle pp. 25 e 26 ed alla p. 37, si sostenga invece che la CTP avrebbe accolto l’impugnazione ed annullato l’avviso.
3. ‘Si appella il contribuente’ prosegue la sentenza in epigrafe -‘nel ribadire che tutte le operazioni poste in essere erano assolutamente legittime, regolarmente registrate e pagate eccepisce la nullità della sentenza per non aver dichiarato l’illegittimità delle sanzioni comminate in ordine alla presunta tenuta irregolare della contabilità, per vizio di violazione e falsa applicazione del principio afferente all’onere della prova, in ordine alla partecipazione del contribuente al disegno criminoso. Chiede pertanto la riforma della sentenza con l’accoglimento dell’appello con condanna dell’Agenzia al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio’.
Controdeduceva l’Agenzia, ‘ribadendo che la documentazione allegata prova in modo certo e preciso l’attivazione della cosiddetta ‘frode carosello’ in quanto contribuente interposto le aziende che sono risultate cartiere avendo solo l’unico scopo di non pagare l’IVA’.
Soggiunge la CTR che ‘con memoria successiva l’Agenzia comunicava di avere proceduto all’annullamento parziale in esercizio del potere di autotutela con provvedimento 70515 del 13.12.2016, dell’avviso impugnato, rideterminando la pretesa erariale alla luce dell’art. 8, comma 1, d.l. 16/2012, nel rispetto del dettato normativo di cui all’art. 4 dm 37/1997, per cui rideterminava il reddito imponibile confermando i rilievi in tema di IVA, rideterminando di conseguenza anche le sanzioni irrogate’.
La CTR respingeva l’appello sulla base essenzialmente della seguente motivazione:
Per quanto riguarda il rilievo afferente alla presunta IVA detratta in conseguenza di fatture soggettivamente inesistenti, la giurisprudenza si è conformata con la tesi che essendo in presenza di un tributo armonizzato per procedere al non riconoscimento della detrazione deve essere provato anticipatamente dall’Agenzia che la contribuente fosse consapevole di partecipare ad una frode fiscale detta prova dagli atti di causa risulta essere presente, in modo pieno e chiaro in quanto risulta che le operazioni di rivendita venivano effettuate aumentando di poco il prezzo
di vendita, a volte anche a prezzi inferiori rispetto a quelli di acquisto, che i pagamenti venivano effettuati per contanti ed alcune volte anche in anticipo rispetto alla fornitura, che le fatture di acquisto sono risultate incomplete e lacunose, mancando dei dati essenziali, che vi era una totale assenza dei documenti di trasporti i rapporti commerciali sono risultati nella realtà essere direttamente intrattenuti dal contribuente con il fornitore estero. Per contro a fronte di dette prove ed indizi aventi il carattere di essere gravi, precisi e concordanti, il contribuente si limita ad asserzioni di rito senza portare alcuna prova a sostegno delle proprie lagnanze e/o obiezioni.
L’atto di rettifica in autotutela emanato dall’Agenzia a rettifica del reddito dichiarato ha completamente sanato questo aspetto parziale del contenzioso, l quale rimane confermat l’Illegittimità perpetrata dal contribuente in ordine all’IVA.
Propone ricorso per cassazione il contribuente con dodici motivi (alla stregua dell’enunciazione a seguire).
L’Agenzia delle entrate resiste con articolato controricorso.
Il contribuente deposita ampia memoria telematica addì 11 aprile 2024 in vista dell’udienza pubblica del 23 aprile 2024.
Disposto, a tale udienza, il rinvio della causa a nuovo ruolo, in ragione dell’entrata in vigore, nelle more della decisione, dell’art. 21bis D.Lgs. n. 74 del 2000, in vista dell’odierna pubblica udienza, il 9 dicembre 2024, il P.M. in persona del Dott. NOME COGNOME deposita requisitoria scritta mediante la quale ‘chiede che la Corte voglia, previa eventuale ricorrenza dei presupposti , accogliere il primo motivo di ricorso con cassazione della sentenza impugnata in difetto rigettare il ricorso con le conseguenze di legge’; in data 3 e 9 gennaio 2025, il difensore del contribuente deposita ulteriori memorie mediante le quali insiste (in specie con l’una) nelle difese già assunte e deposita (in specie con l’altra) sentenza penale dibattimentale assolutoria con attestazione di giudicato.
All’odierna pubblica udienza, dopo breve discussione, il predetto P.M. reitera le conclusioni come sopra ; i difensori presenti rispettivamente della parte privata e pubblica concludono come da corrispondenti atti, che illustrano.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Viene preliminarmente in linea di conto la questione della valutazione, agli effetti del neointrodotto art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000, della sentenza n. 458 del 16 aprile 2012 del Tribunale penale di Forlì che, ‘visto l’art. 530 c.p.p.’, assolve NOME dai reati ascrittigli ex art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000 ‘perché il fatto non sussiste’.
1.1. In disparte essere stata detta sentenza prodotta, con la necessaria attestazione di irrevocabilità, solo in allegato alla memoria del 9 gennaio 2025, a dispetto del termine di quindici giorni prima dell’udienza di cui all’art. 21 -bis, comma 2, D.Lgs. n. 74 del 2000, è decisivo il rilievo che essa è stata resa ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen.
Vero è che quest’ultima disposizione non è formalmente richiamata in dispositivo, ma è altrettanto vero che l’essersi il Tribunale attenuto a tale formula terminativa emerge con chiarezza dalla motivazione della sentenza.
Vi si legge, infatti:
-‘Dall’indagine svolta nel corso del dibattimento non è apparsa dimostrata la responsabilità dell’imputato in ordine ai reati addebitati’;
-‘Altri elementi evidenziati dal verbale di constatazione, per quanto sufficienti ad integrare spunti indiziari di notevole interesse, non sono stati integrati da accertamenti di fatto, necessari al fine di dirimere dubbi interpretativi’;
-‘Ne consegue, all’esito di tutto, che non è provato il meccanismo fraudolento che si vuole addebitare . Vale aggiungere, proprio in riferimento all’elemento soggettivo, se non è provato l’accordo pianificato , neppure è provato il fine specifico della condotta’.
La motivazione della sentenza, dunque, consente di affermare che il contribuente è stato bensì assolto in sede penale, tuttavia ai sensi dell’art. 530, comma 2, e non comma 1, cod. proc. pen.
Ora, la formula dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen. esclude l’attitudine al giudicato della sentenza agli effetti dell’art. 21 -bis D.Lgs. n. 74 del 2000 .
Più precisamente, la statuizione assolutoria comunque (‘… anche’) resa dal giudice (‘Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione’) prende atto di un risultato probatorio ‘mancante’, ‘insufficiente’ o ‘contraddittorio’ in ordine agli elementi strutturali del sussistere il fatto, dell’averlo l’imputato commesso, del costituire il fatto un reato e dell’essere l’imputato (‘recte’, l’autore del reato) imputabile.
Come già rilevato da questa Suprema Corte alla stregua di una linea di giurisprudenza costante nel tempo (cfr. da ultimo Sez. 3, n. 4764 dell’11/03/2016, Rv. 639372 -01), siffatta statuizione, proprio perché riposa sulla mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, cioè sulla constatazione (che per brevità si potrebbe definire ‘negativa’) in ordine all’inidoneità del risultato probatorio ad attribuire un fatto di reato ad un soggetto che l’ipotesi imputativa assumeva esserne l’autore, non contiene ‘funditus’ alcun accertamento (che di converso si potrebbe definire ‘positivo’) in ordine all’insussistenza dei suddetti elementi strutturali.
In altre parole, la sentenza assolutoria ex art. 530, comma 2, cod. proc. civ. non contiene (perché non può contenere per definizione in ragione dei presupposti che la governano) alcuna affermazione, in conseguenza di alcun accertamento, che ‘il fatto sussiste che l’imputato lo ha commesso ‘: ragion per cui non rileva agli effetti dell’art. 21 -bis D.Lgs. n. 74 del 2000.
1.2. Peraltro, pur a prescindere da quanto precede, comunque la sentenza n. 458 del 16 aprile 2012 del Tribunale penale di Forlì è insuscettiva di produrre effetti ex art. 21 -bis D.Lgs. n. 74 del 2000.
Invero, come si vedrà ‘funditus’ innanzi, il primo motivo di ricorso, in cui la decisione assolutoria del giudice penale è evocata, è inammissibile.
Donde trova applicazione il principio, che deve essere ribadito anche in relazione all’art. 21 -bis D.Lgs. n. 74 del 2000, secondo cui nel giudizio di legittimità non è ammessa l’applicazione dello “ius superveniens” ove i motivi di ricorso cui lo stesso attiene debbano essere dichiarati inammissibili, atteso che, in detta ipotesi, la disciplina sopravvenuta non potrebbe comunque determinare l’accoglimento del ricorso (Sez. 5, n. 23518 del 28/09/2018, Rv. 650516-01).
Può dunque procedersi alla disamina del ricorso.
All’enunciazione dei primi quattro motivi è premesso un unitario inquadramento (par. II, p. 11), che li accomuna sotto la rubrica ‘Vizi propri della sentenza impugnata’.
3.1. Primo motivo (par. II.1, p. 11 ric.): ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 4-bis, L. n. 537 del 1993, e relativa integrazione di cui alla Circ. n. 42 del 26.09.2005 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)’.
3.1.1. ‘In forza della sopravvenuta sentenza conclusiva dell’instaurato procedimento penale , è stato definitivamente dichiarato non sussistente il fatto delittuoso ascritto all’odierno ricorrente. Tale circostanza, a fronte della contestata indeducibilità di ‘costi fittizi non riconosciuti’ perché ritenuti riferibili ad operazioni inesistenti, e dunque a fatti qualificati come reato, fa assumere notevole rilevanza alla parte della motivazione dell’accertamento . Alla luce dell’intervenuto giudicato penale, le argomentazioni appena riportate – nel mentre non potranno non essere riviste in via amministrativa dal competente Ufficio – in
questa sede giurisdizionale portano a rendere viziata, in forza del giudicato sopravvenuto, la sentenza di appello qui di interesse perché una simile pronuncia, ritenendo espressamente ‘fondati i motivi e le pretese degli atti accertativi emessi dall’Ufficio’, contrasta irreparabilmente con il giudicato penale successivamente formatosi in quanto finirebbe per fare risultare e qualificare l’operato del contribuente come integrante fatti penalmente illeciti nonostante che il competente giudice penale abbia affermato esattamente il contrario con sentenza passata in giudicato’.
3.1.2. Il motivo è inammissibile.
3.1.2.1. Lo è a misura che rimprovera alla sentenza impugnata di non aver tenuto conto della sentenza assolutoria in punto di cd. ‘costi da reato’, giacché pretermette totalmente il provvedimento di annullamento parziale adottato dall’Agenzia delle entrate in pendenza di giudizio, di cui fa espressa menzione la CTR nella sentenza impugnata, con tanto di dichiarazione, in dispositivo, di cessazione della ‘materia del contendere in ordine alla parte della pretesa erariale annullata con il provvedimento di autotutela emanato dall’Agenzia’.
3.1.2.2. Qualora poi dovesse ritenersi che esso sia volto a censurare la sentenza impugnata per non aver aderito ‘tout court’ al giudicato penale assolutorio, comunque incorrerebbe in inammissibilità, perché, di per sé neppure fornita la prova, mediante il richiamo di specifica produzione documentale in tal senso, di aver sottoposto alla CTR la sentenza del Tribunale penale munita di attestazione del passaggio in giudicato, sarebbe formulato in maniera equivoca, non consentendo una precisa enucleazione della censura se non attraverso un non consentito intervento suppletivo-interpretativo di questa Suprema Corte.
3.2. Secondo motivo (par. II.2, p. 13 ric.): ‘Vizio di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)’.
3.2.1. ‘Con il ricorso di primo grado e con le successive controdeduzioni di parte all’appello dell’Ufficio è stata eccepita, in ordine ai costi non ammessi in deduzione, la violazione dell’art. 109, commi 4 e 5, già art. 75, D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR). In particolare è stata lamentata la mancata applicazione: del ‘principio di inerenza (c. 5) secondo cui sono deducibili tutti i costi da cui derivano ricavi’; del ‘principio di iscrizione al conto economico (c. 4) secondo cui la deducibilità (dei costi) è condizionata alla loro contabilizzazione e dichiarazione’ . Sulle riportate eccezioni, invece, assolutamente nulla è stato argomentato con la sentenza di appello oggetto del presente ricorso, per cui la stessa è inequivocabilmente inficiata dal vizio qui in trattazione di omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia’.
3.2.2. Il motivo è inammissibile.
Anzitutto, non rende evidenza della specifica proposizione delle censure di cui si tratta in primo ed in secondo grado, richiamando, quanto a quest’ultimo, ‘controdeduzioni di parte all’appello dell’Ufficio’ che in realtà non trovano ragione, posto che in primo grado soccombente era stato il contribuente e non l’Ufficio.
Inoltre, tenuto presente che la CTR, dopo aver condiviso il giudizio della CTP in ordine all’avere l’Agenzia assolto all’onere della prova incombentele (‘ detta prova dagli atti di causa risulta essere presente’), nel periodo finale della sentenza impugnata, scrive che ‘ulteriori ed eventuali deduzioni sono assorbite da quanto sopra esposto’, e considerato che il paradigma dedotto è quello dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., propone una censura non consentita ai sensi dell’allora vigente art. 348 -ter cod. proc. civ. (cfr. Sez. 5, n. 11439 del 11/05/2018, Rv. 648075 -01: ‘La previsione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., che esclude che possa essere impugnata ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. la sentenza di appello
“che conferma la decisione di primo grado”, non si applica, agli effetti dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, per i giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all’11 settembre 2012’; nel presente giudizio, come visto, ‘ in data 19.11.2012 veniva depositata la sentenza n. 213/3/12 pronunciata dalla Sez. n. 3 della Commissione Tributaria Provinciale di Forlì’).
In ogni caso. è del tutto locutorio e generico, non esponendo le ragioni di fatto e di diritto a fondamento della censura.
3.3. Terzo motivo (par. II.3, p. 14 ric.): ‘Vizio di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)’.
3.3.1. ‘Con il ricorso di primo grado e con le successive controdeduzioni di parte all’appello dell’Ufficio è stato eccepito – in ordine ai costi non ammessi in deduzione per effetto dell’applicazione dell’art. 14, comma 4-bis, L. n. 537 del 1993, il quale ‘in relazione all’art. 6, 1° c. del TU/R, dispone che non sono ammessi in deduzione i costi e le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reati’ – che, con l’atto di accertamento, non era stato contestato al Sig. NOME sussistenza di alcuna ipotesi di reato ‘in relazione alle operazioni di acquisto regolarmente fatturate di auto poi regolarmente vendute’. Il rilievo formulato, pertanto, era del tutto privo di qualsivoglia effettivo supporto motivazionale e andava conseguentemente annullato . ssolutamente nulla è stato argomentato con la sentenza di appello oggetto del presente ricorso’.
3.3.2. Il motivo è inammissibile.
Valgono le medesime ragioni già esposte in relazione al motivo precedente, dovendosi solo aggiungere che, viepiù, il presente, in violazione del principio di autosufficienza, neppure riproduce nella parte rilevante la motivazione dell’avviso.
3.4. Quarto motivo (par. II.4, p. 14 ric.): ‘Contraddittoria motivazione in ordine all’assoggettamento del ricorrente ad IRAP (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)’.
3.4.1. ‘Con la conferma dell’accertamento dell’Ufficio, la C.T.R. di Bologna ha ovviamente confermato l’assoggettamento ad IRAP del reddito presuntivamente attribuito dall’Ufficio al ricorrente. In simili presupposti non si può non rilevare l’indubbia e palese contraddittorietà, oltre manifesta illogicità, in cui sono incorsi i giudici di seconde cure laddove: – da una parte, hanno affermato che manca un’autonoma organizzazione del Sig. NOME COGNOME per essere appunto lo stesso privo di un’adeguata struttura commerciale e di propri dipendenti. Circostanza, questa, che avrebbe dovuto indurre a trarre la conclusione della non applicabilità dell’IRAP nei confronti del ricorrente; – dall’altra parte, hanno ritenuto il medesimo contribuente assoggettabile ad IRAP ai sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, così presupponendo e dando per scontato l’esistenza di un’autonoma organizzazione agli effetti dell’imposta, che era stata invece prima negata’.
3.4.2. Il motivo è inammissibile.
Non dimostrando, ‘a monte’, essere stata la doglianza relativa alla non debenza dell’IRAP, per difetto del presupposto dell’autonoma organizzazione, introdotta in primo ed in secondo grado, attribuisce alla CTR di aver ‘affermato che manca un’autonoma organizzazione del Sig. NOME COGNOME per essere appunto lo stesso privo di un’adeguata struttura commerciale e di propri dipendenti’: affermazione questa, tuttavia, da essa in nessun luogo della sentenza impugnata compiuta.
Né, d’altronde, finanche in astratto, alcuna contraddittorietà si apprezza tra riconoscimento dell’intraneità alla frode ed assoggettamento all’IRAP, posto che il contribuente era il reale importatore dall’estero degli autoveicoli, talché, in difetto di specifiche evidenze di segno contrario dal medesimo non
introdotte, ben poteva disporre di un’organizzazione atta a gestire le operazioni, tenuto conto dei relativi volumi testimoniati dagli importi accertati.
All’enunciazione del quinto e del sesto motivo è premesso un unitario inquadramento (par. III, p. 15), che li accomuna sotto la rubrica ‘Vizi rilevanti ai fini della valutazione delle prove per presunzioni e della ripartizione dell’onere probatorio’.
4.1. Quinto motivo (par. III.1, p. 16 ric.): ‘Vizio di insufficiente motivazione (art. 360, comma l. n. 5, c.p.c.)’.
4.1.1. ‘i ritiene che debba essere anzitutto valutata la motivazione della sentenza impugnata, laddove ha affermato che ‘le presunzioni formulate dall’Ufficio in merito alla inesistenza soggettiva delle operazioni di compravendita contestate (…) rivestono per l’insieme degli elementi emersi quei caratteri di gravità, precisione e concordanza che giustificano l’accertamento emesso ai sensi dell’art. 39 DPR 60011973 per le imposte sui redditi e dell’art. 54 DPR 633/1972 per l’IVA’. Nell’anticipare l’erroneo richiamo normativo in cui sono incorsi i Giudici dell’appello per individuare lo strumento accertativo utilizzato dall’Ufficio, si ritiene che debba essere anzitutto evidenziata l’inammissibilità della prova per presunzioni in un accertamento effettuato dall’Ufficio utilizzando lo strumento dell’accertamento parziale che, in quanto tale, deve essere fondato su elementi in qualche misura certi e precisi ‘. ‘Nella fattispecie i giudici ‘a quibus’ si siano limitati alla mera elencazione degli elementi indiziari offerti dall’Ufficio, senza però formulare un giudizio di valore sul loro fondamento attraverso una loro reale ed approfondita valutazione ‘.
4.1.2. Il motivo è inammissibile.
La CTR, nella motivazione della sentenza impugnata, sopra trascritta, mai si esprime nei termini indicati nel motivo, che per l’effetto è rispetto ad essa del tutto decentrato.
Inoltre, e comunque, il motivo, che non riproduce l’avviso, onde rendere conto della metodologia accertativa utilizzata dall’Ufficio, è proposto per una censura non consentita ai sensi del pur invocato art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., oltretutto in violazione della preclusione della cd. doppia conforme (art. 348-ter cod. proc. civ. ‘ratione temporis’ vigente).
Infine, pur a prescindere da quanto precede, il motivo sarebbe in ogni caso infondato, alla luce del costante insegnamento giurisprudenziale per cui l’accertamento parziale non individua una metodologia accertativa ulteriore e diversa dalle ordinarie, da anzi in nulla si differenzia, se non per la pronta emersione di materia imponibile (cfr. Sez. 5, n. 28681 del 07/11/2019, Rv. 655548 -01: ‘L’accertamento parziale, che è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo e il relativo avviso può essere emesso pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare’, cui ‘adde’, più recentemente, Sez. 5, n. 6243 del 05/03/2020, Rv. 657384 -01: ‘In materia di IVA, l’accertamento parziale, ai sensi dell’art. 54, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, è uno strumento diretto a perseguire la sollecita emersione della materia imponibile, laddove le attività istruttorie non richiedano, per la loro oggettiva consistenza, ulteriori valutazioni’).
Infine, laddove, nell”ultima parte del motivo, parrebbe affermarsi non avere la sentenza impugnata compiuto una corretta valutazione della prova indiziaria, esso ignora, anche graficamente, avere invece la CTR richiamato, perfettamente centrandoli, tipici elementi di riscontro della piena ed attiva partecipazione del contribuente alla frode.
4.2. Sesto motivo (par. III.2, p. 20 ric.): ‘Vizio di violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)’.
4.2.1. ‘Fermo restando il precedente vizio denunciato dell’erroneo apprezzamento delle prove risultanti in atti, occorre evidenziare che al Sig. COGNOME è stato anche espressamente contestato di non aver presentato ‘ricostruzioni fattuali, elementi o documenti che si pongano in valida contestazione dei dati raccolti dall’Ufficio’. Orbene, tale contestazione si pone in aperto contrasto con la disposizione di carattere generale di cui alla norma in epigrafe . Infatti, nel pacifico presupposto che l’Amministrazione finanziaria è l’attore sostanziale nel contenzioso tributario, si ritiene incontestabile che l’onere probatorio relativo alla dimostrazione della natura delle operazioni effettuate dal Sig. COGNOME in ogni caso, non avrebbe potuto che incombere sull’Ufficio’.
4.2.2. Il motivo è manifestamente infondato.
4.2.2.1. La CTR non contesta affatto al contribuente di non aver presentato ‘ricostruzioni fattuali, elementi o documenti che si pongano in valida contestazione dei dati raccolti dall’Ufficio’: espressione, questa, che neppure compare nella motivazione della sentenza impugnata.
La CTR, dopo aver dimostrato che l’Agenzia ha assolto all’onere probatorio incombentele, osserva che, di contro, ‘il contribuente si limita ad asserzioni di rito senza portare alcuna prova a sostegno delle proprie lagnanze e/o obiezioni’, sancendo per l’effetto non avere il contribuente offerto la prova contraria.
In tal guisa, essa fa pedissequa applicazione del criterio di riparto degli oneri probatori di cui all’art. 2697 cod. civ.
4.2.2.2. Viepiù, essa ossequia la giurisprudenza sia unionale che interna sviluppatasi, sul punto, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, addirittura inasprendo, rispetto a questa, l’onere probatorio dell’Agenzia, giacché reputa necessario
che, ‘per procedere al non riconoscimento della detrazione deve essere provato anticipatamente dall’Agenzia che la contribuente fosse consapevole di partecipare ad una frode fiscale’, laddove invece (ed in tal senso l’affermazione della CTR va corretta) l’Agenzia deve fornire semplicemente la prova della conoscenza o mera possibilità di conoscenza, da parte del contribuente, della frode .
Più precisamente, l ‘insegnamento della giurisprudenza unionale – a termini della quale, dinanzi ad operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione è tenuta a provare che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione dell’IVA, ma non anche la partecipazione all’evasione stessa (cfr. Corte Giust Ppuh, C -277/14; Corte Giust. COGNOME, C -285/11) – è invero recepito dalla giurisprudenza interna, in seno alla quale trovasi costantemente ripetuto il principio secondo cui, ‘in tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, in -serite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di pro -vare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consa -pevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una eva -sione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a cono -scenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesi -stenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto in -combente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto’ (Sez. 5, n. 15369 del 20/07/2020, Rv. 658429 -01, cui ‘adde’, da ultimo, in ipotesi di ‘re -verse charge’, Sez. 5, n. 4250 del 10/02/2022, Rv. 663882 -01).
Donde, ancor più esplicitamente, ‘in tema di IVA, in virtù degli artt. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 17 della Direttiva UE 17 maggio 1977, n. 388, osta al riconoscimento del diritto alla relativa detrazione da parte del cessionario, non soltanto la prova del suo coinvolgimento nella frode fiscale, ma anche quella della mera conoscibilità dell’inserimento dell’operazione in un fenomeno criminoso, volto all’evasione fiscale, la quale sussiste ove il cessionario, pur essendo estraneo alle condotte evasive, ne avrebbe potuto acquisire consapevolezza mediante l’impiego della specifica diligenza professionale richiesta all’operatore economico, avuto riguardo alle concrete modalità e alle condizioni di tempo e di luogo in cui si sono svolti i rapporti commerciali, mentre non occorre anche il conseguimento di un effettivo vantaggio’ (Sez. 5, n. 13803 del 18/06/2014, Rv. 631554 -01, ribadita da Sez. 6 -5, n. 13545 del 30/05/2018, Rv. 648691 -01).
Rispetto a tale consolidato stato della giurisprudenza, sia unio -nale che interna, deve soltanto precisarsi che la prova gravante sull’Amministrazione ben può consistere in attendibili indizi, anche tratti da indagini penali, siccome idonei ad integrare finanche una presunzione semplice, in conformità a quanto, per l’IVA, espressamente prevede l’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972 (cfr., da un lato, Corte Giust. COGNOME e NOME, C -80/11 e C -142/11 e Corte Giust. Kittel, C -439/04; dall’altro, ‘ex multis’, Sez. 6 -5, n. 14237 del 07/06/2017, Rv. 644435 -01).
4.2.2.3. Ora, per tornare al caso di specie, la CTR, con argomentazione logica e ben radicata nelle risultanze istruttorie, non minimamente scalfita dal motivo di ricorso in disamina, ritiene che l’Agenzia abbia dato prova finanche della collusione del contribuente e dunque di una sua piena adesione al sistema frodatorio, di cui d’altronde ha direttamente beneficiato.
Essa, infatti, senza contestazioni di sorta da parte del contribuente nei pur lunghi ed articolati ricorso e memorie, osserva
che ‘le operazioni di rivendita venivano effettuate aumentando di poco il prezzo di vendita, a volte anche a prezzi inferiori rispetto a quelli di acquisto, che i pagamenti venivano effettuati per contanti ed alcune volte anche in anticipo rispetto alla fornitura, che le fatture di acquisto sono risultate incomplete e lacunose, mancando dei dati essenziali, che vi era una totale assenza dei documenti di trasporti i rapporti commerciali sono risultati nella realtà essere direttamente intrattenuti dal contribuente con il fornitore estero’.
4.2.2.4. A questo proposito, rispetto all’evocazione, in specie nella prima memoria, del comma 5bis aggiunto all’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992 dall’art. 6, comma 1, della legge 31 agosto 2022, n. 130 (secondo cui ‘l’Amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il Giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati’), è a rilevarsi che non si tratta di disposizione immediatamente applicabile anche ai processi in corso , men che meno pendenti in cassazione.
Il comma 5-bis cit., ad avviso del Collegio, ha natura di norma sostanziale (Sez. 5, n. 20816 del 25/07/2024, Rv. 6720301), e non processuale, come invece sostenuto dal contribuente, giacché non incide sulle regole del processo in funzione della conformazione dell’attività delle parti e di riflesso dei poteri di esercizio dello ‘ius dicere’ ad opera del decidente,
ma esprime una regola di giudizio, che , sebbene ‘naturaliter’ destinata a vivere all’interno del processo, è volta a specificare il canone fondamentale dell’allocazione dell’onere della prova in capo a chi ha la disponibilità della relativa fonte .
Ora, come questo canone di per sé, in un’ottica di indiscussa coerenza sistematica, trova enunciazione nell’art. 2697 cod. civ., così pure il comma 5bis, che ne cala il ‘proprium’ nel rapporto tra Amministrazione e contribuente, esiste al di fuori delle, ed indipendentemente, dalle forme del processo.
E dunque il comma 5-bis , se ha natura di norma sostanziale, in difetto di previsioni di diritto intertemporale, non può disporre che per l’avvenire, ai sensi dell’art. 11, comma 1, prel. cod. civ.
Peraltro, nella consapevolezza del Collegio di un fitto dibattito, soprattutto dottrinale, che accompagna la novella, anche qualora si avesse a propendere, in via, per il Collegio, di mera ipotesi, per la natura processuale del comma 5-bis, comunque la conclusione non cambierebbe.
Le norme aventi tale natura, infatti, soggiacciono al principio ‘tempus regit actum’.
Ed allora, il controllo di legittimità della Corte di cassazione in ordine alla corretta applicazione, da parte del giudice di merito, dei criteri di valutazione (dell’onere) della prova non può che arrestarsi al momento in cui tale valutazione è stata compiuta, secondo le regole in allora vigenti.
Fermo quanto precede, infine, rispetto alla formulazione in sé (per vero linguisticamente non propriamente felice, come tradito dall’insista reiterazione dell’avverbio ‘comunque’) del comma 5 -bis, è ad osservarsi che essa neppure possiede quella travolgente carica innovativa, al cospetto dell’art. 2697 cod. civ., che talune interpretazioni le attribuiscono, giacché piuttosto, come già prima accennavasi, si pone pienamente nel solco dell’art. 2697 cod. civ.,
semplicemente specificandolo o, meglio, conformandolo al processo tributario .
Più nel dettaglio -essendo pacifico, ma nel contempo riduttivo, il richiamo al dovere del ‘Giudice’ di ‘fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio’, giacché appartiene alla tradizione così del paradigmatico processo ordinario di cognizione come dello stesso speciale processo tributario il brocardo che egli deve giudicare bensì ‘iuxta probata’ ma anche ‘iuxta alligata’ (sul presupposto, oltretutto, che il perimetro delle allegazioni circoscrive il ‘thema probandum’); ed essendo parimenti pacifico che gli elementi probatori su cui egli deve fondare la decisione non possono che emerge dal processo, essendogli vietato di fare affidamento su conoscenze attinte ‘aliunde’, e men che meno sulla scienza privata, non tanto perché non probatoriamente rilevante ma perché non dialetticamente controllabile dalle parti – il comma 5 -bis codifica il portato, ampiamente acquisito, secondo cui spetta all’Amministrazione, in quanto attrice sostanziale in un processo ad un tempo impugnatorio epperò sul rapporto (cd. impugnazione -merito), qual è il tributario, fornire la prova delle ‘violazioni contestate con l’atto impugnato’: una prova che, per andare a segno, ai sensi del prosieguo della formulazione del comma 5 -bis, deve essere effettiva, coerente (non contraddittoria) e sufficientemente circostanziata e puntuale; una prova che dunque, né letteralmente né sistematicamente, squalifica le presunzioni anche non legali (per quelle legali cfr. già Sez. 5, n. 2746 del 30/01/2024, Rv. 670209 -01), tenuto conto che anche un tal genere di presunzioni ben soddisfa tutti i superiori requisiti .
D’altronde – sia consentito non affatto ‘incidenter’ di far notare – neppure potrebbe essere diversamente in tutti i casi (come giust’appunto quello in esame) in cui ammissibilità ed oggetto della prova presuntiva appartengono allo statuto delle
imposte unionali , sotto il governo immediato ed in definitiva prevalente della giurisprudenza della Corte di giustizia.
Talché, tornando al caso di specie, la CTR, anche -a tutto voler concedere -alla luce dell’art. 7, comma 5 -bis, D.Lgs. n. 546 del 1992, ha accertato (come visto) avere l’Amministrazione fornito la piena prova dei fatti contestati al contribuente, senza che questi, ancora nella suddetta memoria, abbia addotto alcun concreto elemento per rendere evidenza di mancanze, contraddittorietà od insufficienze della stessa.
All’enunciazione dei motivi dal settimo all’undicesimo è premesso un unitario inquadramento (par. IV, p. 24), che li accomuna sotto la rubrica ‘Vizi rilevanti ai fini delle eccezioni concernenti lo strumento accertativo utilizzato dall’Ufficio e la natura delle diverse violazioni contestate’.
5.1. In particolare, nell’inquadramento, testualmente si legge (pp. 25 e 26):
Le censure da muovere riguardano le diverse questioni di diritto, tra loro logicamente e giuridicamente concatenate, la cui valutazione era stata rimessa ai giudici di merito e che possono essere così schematicamente riepilogate:
valutazione delle operazioni commerciali contestate all’odierno ricorrente al fine di stabilire, sulla base delle prove presuntive addotte, se le stesse potessero essere considerate soggettivamente inesistenti con conseguente pronuncia sulla detraibilità o meno dell’IVA;
valutazione della legittimità dello strumento accertativo utilizzato dall’Ufficio;
-ulteriore valutazione delle separate contestazioni relative alle addotte:
indeducibilità, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, dei costi documentati da fatture ritenute riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato;
mancata regolarizzazione, agli effetti dell’IVA, di acquisti intracomunitari effettuati da soggetti terzi ma ritenuti dall’Ufficio direttamente attribuibili all’odierno ricorrente .
Orbene, i Giudici di prime cure hanno ritenuto di dover accogliere il ricorso di parte limitandosi a pronunciarsi sulla prima questione, in quanto
hanno ritenuto che non risultasse provata l”inesistenza soggettiva od illegittimità delle operazioni commerciali, poste in essere dalla RAGIONE_SOCIALE‘; le altre questioni, sollevate con il ricorso di parte, sono quindi rimaste assorbite.
Passando al secondo grado di giudizio, in contrapposizione alle argomentazioni svolte dall’Ufficio per sostenere la legittimità del proprio operato e la conferma delle rettifiche effettuate, il Sig. COGNOME si è costituito in giudizio e ha richiamato integralmente tutti gli altri motivi di lagnanza fatti valere in punto di diritto con il ricorso di primo grado, che sono stati così esplicitamente tutti riproposti.
In simili premesse poiché i Giudici ‘a quibus’ hanno stabilito la inesistenza soggettiva delle operazioni di compravendita contestate appare evidente che gli stessi Giudici, così risolta la prima questione, per poter legittimamente stabilire la conferma ‘in toto’ dell’atto di accertamento notificato dall’Ufficio, sarebbero dovuti passare a pronunciarsi anche su tutte le altre questioni ed eccezioni sollevate dal Sig. COGNOME con il ricorso di primo grado, se del caso respingendole esplicitamente e con adeguata motivazione.
In proposito, infatti, si ritiene che non sia in alcun modo configurata una pronuncia di rigetto implicito delle domande proposte, in quanto le eccezioni sulle quali la C.T.R. di Bologna ha omesso di pronunciare si pongono, rispetto a quella preliminare della qualificazione delle operazioni commerciali contestate, in un rapporto che potrebbe essere in qualche modo definito di “dipendenza logica discendente”.
5.2. Come già rilevato, siffatta ricostruzione dello sviluppo processuale è contrastante con quella riferita dalla sentenza impugnata e finanche con quella esposta dallo stesso ricorso nella parte dedicata allo svolgimento del processo.
5.3. Il punto assume rilievo di per sé decisivo nel votare all’inammissibilità tutti i motivi sussunti sotto la rubrica del par. IV giacché -di per sé non riprodotte le specifiche censure devolute alla CTP con l’atto introduttivo del giudizio ‘a fortiori’ non lo sono quelle devolute alla CTR -adita dal contribuente e non dall’Ufficio, essendo il primo e non il secondo risultato soccombente in primo grado -con il ricorso in appello.
5.4. Ad ogni modo, per tuzioristica completezza, di procede comunque alla disamina dei singoli motivi.
5.5. Settimo motivo (par. IV.1, p. 26 ric.): ‘Vizio di omessa motivazione in ordine alla tipologia di strumento accertativo utilizzato e alla natura delle diverse violazioni contestate (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)’.
5.5.1. ‘La mancanza di ogni pronuncia sulle predette questioni costituenti punti decisivi della controversia (strumento accertativo e natura delle diverse violazioni contestate), si rileva immediatamente dalla lettura della sentenza impugnata’.
5.5.2. Il motivo è inammissibile.
Invero, incorrendo in difetto di autosufficienza, non allega e non dimostra di aver sollevato la questione di cui si tratta in primo ed in secondo grado; non riferisce quale sia lo strumento accertativo utilizzato dall’Ufficio; non riproduce la motivazione dell’avviso; non illustra le ragioni di fatto e di diritto a sostegno della censura.
Inoltre, deduce la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. in costanza di preclusione ex art. 348-bis cod. proc. civ.
5.6. Ottavo motivo (par. IV.1.1, p. 26 ric.): ‘Segue vizio di motivazione. Illegittimità dell’accertamento in ordine alla tipologia dello strumento accertativo utilizzato, in relazione al combinato disposto di cui agli artt. 54, comma 5, e 56, D.P.R. n. 633 del 1972, nonché in relazione al combinato disposto di cui agli arti. 41bis e 42, D.P.R. n. 600 del 1973’.
5.6.1. ‘L’Ufficio ha motivato l’atto a suo tempo notificato richiamando espressamente l’applicazione dell’art. 54, comma 5, D.P.R. n. 633 del 1972, per l’IVA, e dell’art. 41-bis, D.P.R. n. 600 de/1973, per le imposte sui redditi e l’IRAP che, con previsioni tra loro simili, disciplinano il c.d. accertamento parziale. Orbene, in presenza della motivazione contenente espressamente il riportato richiamo normativo, si deve lamentare l’eccezione della mancata
valutazione da parte della C.T.R. di Bologna – già sollevata in primo grado e rinnovata poi senza esito in secondo grado con tutte le altre -volta a lamentare la nullità assoluta dell’avviso di accertamento parziale oggetto del presente giudizio per vizio di motivazione’.
5.6.2. Il motivo è inammissibile e comunque manifestamente infondato.
Condivide pressoché integralmente le ragioni di inammissibilità già evidenziate a proposito del motivo precedente, in quanto parimenti incorre in difetto di autosufficienza, non allegando e non dimostrando di aver sollevato la questione di cui si tratta in primo ed in secondo grado, mediante specifica e puntuale riproduzione dei motivi; non riproducendo la motivazione dell’avviso; non illustrando le ragioni di fatto e di diritto a sostegno della censura.
Soggiace comunque a giudizio di manifesta infondatezza, in considerazione di quanto già rilevato nella disamina del quinto motivo, dovendosi soltanto qui aggiungere che la prova della soggettiva inesistenza delle operazioni intrattenute dal contribuente è dettagliata dalla CTR attraverso il richiamo di elementi di per se stessi rappresentativi della sua consapevolezza della frode: elementi neppure considerati, e men che meno contestati, nel motivo e più in generale nel ricorso.
5.7. Nono motivo (par. IV.1.2, p. 30 ric.): ‘Segue vizio di motivazione. Illegittimità dell’accertamento in relazione all’indeducibilità, agli effetti delle imposte sui redditi, dei costi documentati da fatture ritenute soggettivamente inesistenti’.
5.7.1. ‘Il ricorso originariamente proposto dal Sig. COGNOME conteneva anche l’eccezione relativa all’illegittimità dell’operato dell’Ufficio laddove, nonostante l’intervenuto riconoscimento di fatto della reale esistenza degli acquisti di autovetture posti in essere dalla Drive Car derivante dalla riscontrata rivendita delle stesse autovetture con regolare sottoposizione ad imposizione dei
relativi ricavi, aveva ritenuto indeducibili i costi documentati dalle fatture che l’Ufficio aveva ritenuto soggettivamente inesistenti’.
5.7.2. Il motivo è inammissibile.
Come il primo, di cui è sostanzialmente reiterativo, pretermette il provvedimento di autotutela adottato dall’Agenzia, su cui la CTR ha fondato la pronuncia di cessazione della materia del contendere ‘in parte qua’.
5.8. Decimo motivo (par. IV.1.3, p. 32 ric.): ‘Segue vizio di motivazione. Illegittimità dell’accertamento in relazione agli artt. 46 e 47, D.L. n. 331 de/1993, conv. in L. n. 427 de/1993’.
5.8.1. ‘Con particolare riferimento alla contestazione omessa regolarizzazione di acquisti intracomunitari, con il ricorso di primo grado erano state lamentate, con eccezione ritualmente riproposta nel secondo giudizio, l’illegittimità oltre che l’illogicità di una simile contestazione . ‘Ufficio – sulla base sempre delle medesime presunzioni -pretenderebbe di sostenere che l’odierno ricorrente avrebbe dovuto inserire nella sua contabilità, previa loro integrazione con l’ammontare dell’IVA, i documenti fiscali emessi a favore di soggetti terzi suoi fornitori da operatori economici comunitari ed intestati ai medesimi soggetti terzi quali operatori economici nazionali acquirenti. Ciò perché il Sig. COGNOME sarebbe stato sin dall’origine il reale e diretto acquirente dei beni . In pratica l’Ufficio oltre a muovere l’autonoma contestazione dell’indetraibilità dell’IVA gravante su fatture ritenute soggettivamente inesistenti – pretenderebbe di operare una inedita ‘fictio iuris’ non supportata da alcuna previsione normativa e, superando le insormontabili risultanze economiche e documentali di fatture intestate a soggetti terzi, pretenderebbe quindi di ritenere quelle stesse fatture come se le stesse fossero a tutti gli effetti intestate alla RAGIONE_SOCIALE‘. ‘A parte l’indubbio e illegittimo effetto duplicativo dei costi registrati e dell’IVA detratta di cui né l’Ufficio né la C.T.R. di Bologna hanno tenuto conto, tutto ciò risulta
motivato con il semplice richiamo alle norme in epigrafe che, ovviamente, riguardano gli adempimenti che l’acquirente, intestatario effettivo dei documenti, deve porre in essere sugli acquisti intracomunitari’.
5.8.2. Il motivo è inammissibile e comunque infondato.
5.8.2.1. È inammissibile in quanto, incorrendo in difetto di autosufficienza, non allega e non dimostra di aver sollevato la questione di cui si tratta in primo ed in secondo grado, né riproduce la parte rilevante dell’avviso, rendendo conto del tenore della contestazione.
5.8.2.2. È comunque infondato.
5.8.2.2.1. La contestazione dell’omessa regolarizzazione di acquisti intracomunitari costituisce la diretta conseguenza della considerazione del contribuente quale interponente e quindi effettivo cessionario dei beni importati.
Egli si trincera, nel motivo, dietro ‘le insormontabili risultanze economiche e documentali di fatture intestate a soggetti terzi’, ostative alla pretesa dell’Ufficio fondata da ‘una inedita ‘fictio iuris’ non supportata da alcuna previsione normativa’.
Per un verso, l’apparente regolarità documentale cede dinanzi alla sostanza della fittizietà delle operazioni di importazione.
Per altro verso, la pretesa dell’Ufficio non fonda su alcuna ‘fictio iuris’, giacché, una volta individuato nel contribuente l’effettivo importatore, rileva non avere il medesimo ottemperato agli adempimenti di cui agli artt. 46 e 47 d.l. n. 331 del 1993, conv. dalla l. n. 427 del 1993: segnatamente, l’art. 46 stabilisce l’obbligo del cessionario di integrare la fattura ricevuta dal cedente estero (con ulteriore annotazione, ai sensi dell’art. 47, nel registro di cui all’art. 23 d.P.R. n. 633 del 1972 o in altro appositamente istituito) sul presupposto che le operazioni di cui si tratta non sono imponibili nel Paese di provenienza dei beni, mentre lo divengono, ad opera del cessionario, nel Paese di destino.
Siffatta inottemperanza costituisce violazione degli ‘obblighi inerenti alla documentazione e alla registrazione di operazioni imponibili’ ex art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 471 del 1997.
5.8.2.2.2. Né, sotto altro profilo, sussiste alcun ‘ effetto duplicativo dei costi registrati e dell’IVA detratta’.
Il contribuente, infatti, quale effettivo importatore, non aveva alcun titolo per detrarre l’IVA addebitatagli dai suoi fornitori, siccome meramente interposti, IVA che, invece, come testé visto, avrebbe dovuto egli far emergere ed esporre, per la prima volta, con l’integrazione delle fatture di importazione.
Ora, sostanziando l’integrazione delle fatture da parte del primo importatore fittizio il presupposto formale dell’art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1972 ‘sub specie’ dell’emissione della fattura (‘Se viene emessa fattura per operazioni inesistenti ”), è a rilevarsi che il diritto alla detrazione presuppone la realtà dell’operazione, giacché – come osservato da questa Suprema Corte in tema di procedura di variazione ex art. 26 d.P.R. m. 633 del 1972 (cfr. da ult. Sez. 5, n. 1249 del 21/01/2020, Rv. 656738 -01) – l’art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1972 incide non solo sull’emittente la fattura, ma, ‘indirettamente, in combinato disposto con gli artt. 19, comma 1, e 26, comma 3, dello stesso d.P.R., anche sul destinatario della fattura stessa, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta in totale carenza del suo presupposto’.
5.8.2.2.3. Deve, in sintesi, enunciarsi il seguente principio di diritto:
In tema di importazioni dall’Unione europea intermediate da operatori fittiziamente interposti, la contestazione, nei confronti dell’interponente, dell’omessa regolarizzazione degli acquisiti mediante integrazione delle fatture non costituisce una mera ‘fictio’ avulsa dal sistema normativo, giacché
l’interponente, che non ha titolo alla detrazione dell’IVA in quanto il diritto alla detrazione (incidendo l’art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1972 sia sull’emittente che sul destinatario della fattura) presuppone l’effettività anche soggettiva dell’operazione, è direttamente obbligato a monte, quale importatore effettivo, ad integrare con l’IVA le fatture di acquisto all’importazione ai sensi degli artt. 46 e 47 d.l. n. 331 del 1993, conv. dalla l. n. 427 del 1993 .
5.9. Undicesimo motivo (par. IV.2, p. 34 ric.): ‘Contraddittoria motivazione in ordine allo strumento accertativo utilizzato (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)’.
5.9.1. Quello per cui è causa è un ‘accertamento parziale che, dovendo per sua natura poggiare su ‘elementi’, esclude tassativamente – per non essere stata appunto prevista – la facoltà di utilizzare ‘presunzioni’ di qualsivoglia genere’, cui invece fa riferimento la sentenza impugnata.
5.9.2. Il motivo è inammissibile e comunque manifestamente infondato.
Vale quanto già detto in relazione al quinto ed all’ottavo motivo, alla cui disamina, pertanto, si rinvia.
All’enunciazione del dodicesimo motivo è premesso un inquadramento (par. V, p. 35), sotto la rubrica ‘Vizi rilevanti relativi al risvolto sanzionatorio della controversia’.
6.1. Dodicesimo motivo (par. V.1, p. 35 ric.): ‘Vizio di omessa motivazione sull’addotta mancata applicazione dell’istituto della continuazione (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)’.
6.1.1. ‘L’Ufficio, con la notifica a suo tempo dell’atto sottostante al presente procedimento non aveva in alcun modo tenuto conto dell’analogo atto di accertamento, contestualmente notificato, che aveva interessato, sia ai fini IVA che delle imposte
sui redditi e dell’IRAP, anche l’anno 2003. Alla mancanza di intervento in tal senso assicurato dall’Ufficio, e nulla essendo tenuti a disporre al riguardo i Giudici di prime cure per avere integralmente annullato tutti gli atti di accertamento notificati, avrebbero dovuto comunque sopperire i Giudici di seconde cure – a seguito dell’intervenuto accoglimento dell’appello dell’Ufficio – per assicurare l’osservanza del disposto di cui al citato art. 12, comma 5, D. Lgs. n. 472 del 1997′.
6.1.2. Il motivo è inammissibile.
Ribadito che il primo grado di giudizio ha visto la soccombenza del contribuente, e non dell’Ufficio, il motivo non allega e non dimostra di aver devoluto la questione della continuazione (esterna) con gli illeciti relativi al 2003 già alla CTP e, a ‘fortiori’, di averla reiterata con il ricorso in appello; né allega e dimostra, mediante puntuali richiami agli atti ed ai documenti dei fascicoli di merito, di aver finanche dedotto e documentato a CTP e CTR il fatto in sé dell’irrogazione di sanzioni per gli illeciti relativi al 2003.
Esso, inoltre, in violazione del principio di autosufficienza, non riproduce l’avviso nella parte relativa alle sanzioni, rendendo quindi impossibile delibare la censura.
Né, in violazione dei medesimi principi, esplicita quando gli illeciti relativi al 2003 siano stati oggetto di constatazione: ciò al cospetto dell’affermazione contenuta nella prima parte dello stesso ricorso (fg. 5), laddove leggesi: ‘el P.V.C. del 16.12.2009 dell’Agenzia delle entrate si fa esplicito riferimento anche ad un precedente P.V.C. del 26/0112005 redatto dai funzionari dell’Agenzia delle entrate-Ufficio di Forlì, per gli anni d’imposta 2003 e 2004, con cui risulta verbalizzata a carico della ditta ora ricorrente la partecipazione ad un illecito ‘carosello fiscale”; affermazione che assume rilievo rispetto all’art. 12, comma 6, D.Lgs. n. 497 del 1997, secondo cui ‘il concorso e la continuazione sono interrotti dalla constatazione della violazione’.
Infine, è articolato come omessa motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., incorrendo nella preclusione di cui alla doppia conforme di merito.
In definitiva, il ricorso va integralmente rigettato, con le statuizioni consequenziali come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia le spese di lite, liquidate in euro 12.000, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso a Roma, lì 15 gennaio 2025.