Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21556 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21556 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 28936/2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura speciali in atti.
PEC: EMAIL
PEC: EMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
PEC: EMAIL
-controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della EMILIA ROMAGNA n. 1095/2021, depositata in data 6 settembre 2021, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del l’11 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso avente ad oggetto gli avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2013 e 2014, con i quali era stata recuperata l’Iva relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti.
I giudici di secondo grado, in particolare, integrando la motivazione della sentenza di primo grado, hanno rigettato le prime due richieste della società riguardanti la nullità dell’avviso di accertamento per violazione del principio di ragionevolezza e per l’immotivata irrogazione delle sanzioni nel massimo edittale, ritenendo che:
-) il principio di ragionevolezza non era stato violato dall’accertamento, perché la partecipazione ad una frode sulle imposte indirette nulla aveva a che vedere con l’andamento dei dati di bilancio del contribuente dal 2005 al 2012 e con la diminuzione della percentuale di redditività sul fatturato ed infatti gli ingenti profitti a cui si riferiva l’Ufficio erano costituiti dal recupero dell’IVA effettuata dal contribuente che non aveva comperato la merce dal soggetto che aveva emesso la fattura, rendendo non deducibile l’IVA indicata in fattura;
-) la reiterazione dell’utilizzo di fatture ricevute da fornitori che non erano i reali venditori della merce acquistata, come dimostrato dagli accertamenti emessi dall’Ufficio per annualità diverse, dal 2006 al
2014, era motivo sufficiente per l’applicazione delle sanzioni massime.
La CTR ha, inoltre, affermato, che:
-) le società fornitrici delle merci, RAGIONE_SOCIALE di Milano, RAGIONE_SOCIALE di Milano e RAGIONE_SOCIALE di Avellino, erano prive di organizzazione e avevano le caratteristiche di cartiere e ciò non era stato messo in discussione dalla società contribuente, che aveva basato la sua difesa sul fatto che non era, né poteva essere a conoscenza di ciò all’epoca dei fatti;
-) il prezzo di acquisto della merce ricevuta dalle società fornitrici si era dimostrato inferiore al prezzo di mercato mediante il confronto con il prezzo di acquisto del medesimo materiale comperato nello stesso periodo, anche a distanza di pochi giorni presso produttori/distributori indicati alle pagine 16, 25 e 30/31 del PVC;
-) a fronte di ciò, la società contribuente non aveva dato spiegazioni sulle modalità con cui era venuta in contatto con i fornitori fittizi, anche perché gli eredi non partecipavano all’azienda del padre, che essendo deceduto nel 2016 non aveva lasciato traccia delle modalità organizzative dell’impresa, né vi erano ordini scritti, per cui doveva presumersi che il de cuius effettuasse gli acquisti solo verbalmente;
-) la tesi della società contribuente secondo cui la % campionata dai verificatori era stata del 13,87% degli acquisti effettuati dalle società fornitrici e che le restanti percentuali di acquisti erano in linea con i prezzi di mercato non era condivisibile perché la società contribuente non aveva fornito comparazioni sui restanti acquisti effettuati con i tre fornitori monitorati e non aveva spiegato i motivi per i quali i prezzi erano inferiori a quelli di acquisto dei medesimi articoli effettuati da fornitori abituali ed affidabili;
-) l’unica spiegazione offerta dalla società contribuente era consistita nelle modalità operative del settore, ma la circostanza che il servizio offerto dai brokers non incideva sui prezzi di acquisto, ma serviva a garantire la continuità anche delle piccole forniture, non spiegava un prezzo di
acquisto anomalo, né era stata prodotta documentazione sul prezzo di rivendita della merce comperata e nemmeno erano stati offerti elementi per valutare se gli acquisti oggetto di accertamento avessero o meno elementi di diversità rispetto a tutte le altre operazioni di acquisto realizzate dallo stesso contribuente;
-) il quadro indiziario, dunque, consentiva di affermare che la società contribuente, se non era la mente attiva della frode, quanto meno, considerando anche l’esperienza pluridecennale come imprenditore del settore, avrebbe potuto capire di essere di fronte ad un meccanismo di illecito IVA.
In ultimo, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che non rilevavano:
-) il documento relativo a notizie di stampe sulla società produttrice RAGIONE_SOCIALE (allegato 5) perchè la RAGIONE_SOCIALE non era un fornitore storico del contribuente e l’articolo di giornale prodotto riguardava il calo non di vendite, ma di profitti nel primo trimestre 2013, riconducibile al calo della domanda e al fermo per manutenzione straordinaria programmata di alcuni impianti, che non implicava la diminuzione della produzione (e delle vendite) e la necessità di procacciarsi il materiale attraverso canali diversi e paralleli a quello ufficiale;
-) le fotografie di cui all’allegato 6 perchè riguardavano solo uno dei tre fornitori esaminati dalla G.d.F. e non rappresentavano una prova che il contribuente avesse effettuato ricerche in loco prima di comperare da questo fornitore;
-) la presunta imputazione del signor COGNOME per il reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 perché il suo decesso non lo rendeva penalmente perseguibile.
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi e successiva memoria, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo motivo deduce, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 17, 19, 21 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 e degli artt. 2697 e 2729 c.c. nonché dei principi indicati nelle sentenze della Corte di giustizia del 12 gennaio 2006 (cause C-354/03, 355/03 e 484/03) e 6 luglio 2006 (cause C-439/04 e 440/04), in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., nonchè omessa e/o erronea e/o contraddittoria motivazione in relazione ad un fatto decisivo per il giudizio e sul quale le parti hanno discusso, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., per avere la CTR disatteso il principio di diritto statuito da Codesta Suprema Corte in tema di «frodi carosello» e di compimento di operazioni soggettivamente inesistenti e per avere erroneamente posto a fondamento della decisione circa la consapevolezza del contribuente dell’esistenza della «frode carosello», elementi di fatto non oggettivi e che, in ogni caso, non potevano materialmente essere conosciuti dal contribuente «…al momento in cui acquistò il bene…» e avendo invece omesso ogni esame e/o non sufficientemente motivato l’insieme degli elementi probatori «a contrario» addotti dal contribuente. La CTR non aveva sanzionato l’error in iudicando in cui era incorsa la CTP di Parma la quale, saltando ogni motivazione in ordine al corretto riparto dell’onere probatorio, per il solo fatto che le società che avevano ceduto i beni al Casali erano state ritenute delle cartiere, senza aver preventivamente e/o correttamente verificato l’assolvimento dell’onere probatorio incombente all’Amministrazione finanziaria circa la presumibile partecipazione della società (rectius del sig. NOME COGNOME a detta frode, aveva addossato sic et simpliciter l’onere di «discolpa» a carico del contribuente. La società contribuente aveva chiaramente esposto nel ricorso introduttivo e riconfermato in sede di appello che la stessa aveva operato le verifiche ritenute possibili e necessarie in merito alla
«esistenza» dei cessionari. La CTR, per sua stessa ammissione era incappata nell’« error in iudicando » nella estensione della motivazione quanto meno relativamente alla procedura di formazione del proprio convincimento, vertendosi in tema di prova preventiva da parte dell’Amministrazione finanziaria. La CTR aveva motivato solamente il percorso «probatorio» di competenza dell’Amministrazione finanziaria ed aveva, altresì, candidamente assolto il sig. COGNOME da una qualsiasi responsabilità diretta e/o indiretta nella perpetrazione della frode addebitandogli esclusivamente una «scarsa» diligenza nella scelta dei propri fornitori. Era un fatto assodato anche dai verificatori e dall’Agenzia delle Entrate che il materiale acquistato era stato venduto ai clienti della RAGIONE_SOCIALE di Casali Giuseppe con il margine di mercato e che ciò era del tutto inconferente ai fini del decidere, tanto che anche l’Agenzia delle Entrate l’aveva sempre escluso dagli elementi indiziari in quanto del tutto inconferente. Appariva evidente quale fosse la difficoltà di «adeguare» i criteri «presuntivi» minimi individuati dalla giurisprudenza con riferimento ad una particolare tipologia di prodotto (le autovetture) al settore del commercio di prodotti plastici (per sua intrinseca natura, molto più «snello»). La sentenza impugnata era errata nella parte in cui non aveva effettuato una adeguata verifica degli elementi di prova proposti sia dalla Amministrazione Finanziaria, sia dal contribuente, anche in considerazione della differente tipologia di prodotti ceduti e degli usi e consuetudini commerciali riferiti al settore merceologico specifico.
1.1 Il motivo è inammissibile sia per quanto concerne la censura di violazione di legge, sia per quanto riguarda la censura di omesso esame di fatto decisivo, in quanto si tratta di doglianze dirette, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, dovendosi richiamare il principio statuito da questa
Corte secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass., 4 agosto 2017, n. 19547; Cass., 4 aprile2017, n. 8758; Cass., 2 agosto 2016, n. 16056; Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., 4 marzo 2021, n. 5987).
1.2 Ed invero, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30042).
1.3 Più in particolare, la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al vizio previsto dall’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. qualsiasi censura volta a criticare il «convincimento» che il giudice si è formato, in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui
all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Cass., 19 luglio 2021, n. 20553).
1.4 Inoltre, in sede di legittimità è possibile censurare la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3541), evenienza che, nel caso in esame, non è stata dedotta dalla società ricorrente.
1.5 Ne consegue che deve ritenersi inammissibile il motivo, come lo sono quelli proposti nella specie dalla società ricorrente, con cui si censura la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di appello (Cass. 1 giugno 2021, n. 15276).
1.6 Il motivo, inoltre, nella parte in cui deduce il vizio di omesso esame di fatto decisivo, è pure inammissibile, in costanza del principio della cd. doppia conforme ex art. 348 ter cod. proc. civ. e non avendo la società ricorrente specificato in ricorso le ragioni di fatto poste rispettivamente a fondamento della decisione di primo grado e di secondo grado, così dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 20 marzo 2024, n. 7442; Cass., 20 settembre 2023, n. 26934; Cass., 28 febbraio 2023, n. 5947; Cass., 9 marzo 2022, n. 7724; Cass., 26 gennaio 2021, n. 1562; Cass., 11 maggio 2018, n. 11439); la
giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata nell’affermare che il novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che, oltre ad avere carattere decisivo, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti; che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e che neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma (Cass., 23 agosto 2023, n. 25124; Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., Sez., 7 aprile 2014, n. 8053).
1.7 Il motivo è, comunque, anche infondato, dovendosi precisare che, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti questa Corte, in coerenza con le plurime affermazioni della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE, 6 settembre 2012, C-324/11; Corte di Giustizia UE, 22 ottobre 2015, C-277/14; Corte di Giustizia UE, 19 ottobre 2017, C101/16 e, più di recente, Corte di Giustizia UE, 1 dicembre 2022, C512/21) ha affermato che « qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la
prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto » (cfr. Cass., 16 febbraio 2025, n. 3949; Cass., 12 giugno 2024, n. 16361; Cass., 1 dicembre 2023, n. 33620; Cass., 31 gennaio 2022, n. 2922; Cass., 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; Cass., 20 aprile 2018, n. 9851).
1.8 Come chiarito da questa Corte, partendo dalla premessa che ai fini della ripartizione dell’onere della prova, occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’Iva che tale diritto costituisce, incombe, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione e che, una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente; inoltre, la prova che deve essere fornita dall’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti si incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale, ossia che il soggetto formale non è quello reale e che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione I.V.A. e, a tale ultimo fine, non è necessaria la prova della partecipazione all’evasione, ma è sufficiente e necessario che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851, in motivazione).
1.9 Con specifico riguardo alla consapevolezza del contribuente, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, deve essere soddisfatta l’esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se non sapeva o non avrebbe potuto sapere che
l’operazione si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’I.V.A. (Corte di Giustizia UE, 6 luglio 2006, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia UE, 21 giugno 2012, C-80/11 e C142/11; Corte di Giustizia, 22 ottobre 2015, C-277/14).
1.10 Sul «tipo» di prova incombente sull’Amministrazione si è precisato che essa può ritenersi raggiunta se quest’ultima fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova «certa» e incontrovertibile e che l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario deve essere ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta alla Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’I.V.A. e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851, in motivazione). Pertanto, sebbene al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali ed operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità ed ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore del mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo (Cass., 2 dicembre 2015, n. 24490).
1.11 In via esemplificativa, poiché la valutazione va in ogni caso ancorata alla concreta vicenda, possono costituire elementi di rilevanza
sintomatica: l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato; la limitatezza dell’eventuale ricarico; la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione; la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato (che esige una più attenta e approfondita valutazione dei propri interlocutori, proprio per verificarne l’effettività), poco importa se giustificata da esigenze di accelerazione e di margini produttivi; la tempistica dei pagamenti, in ispecie se incrociati od operati su conti esteri a fronte di interlocutori nazionali, ovvero se effettuati cash; la qualità del concreto intermediario con il quale sono state intrattenute le operazioni commerciali; il numero, la qualità e la durata delle transazioni, in ispecie a fronte di rapporti contigui e frequentazioni reiterate con i titolari della cartiera, ovvero nel caso in cui il contribuente abbia rapporti commerciali con una pluralità di soggetti aventi la quantità di cartiera (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851, in motivazione).
1.12 Ne consegue che la sussistenza di indizi, che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell’emittente, deve indurre l’operatore avveduto ad assumere le opportune informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi (Cass., 4 luglio 2022, n. 21072; Cass., 2 dicembre 2021, n. 38012; Cass., 16 novembre 2021, n. 34531). Il contenuto della massima diligenza esigibile nei confronti di un accorto operatore, al fine di non essere parte di una frode IVA, si incentra sulle opportune informazioni circa l’effettiva esistenza del fornitore, da acquisirsi direttamente (in relazione alla struttura organizzativa dello stesso), sia indirettamente, attraverso l’esame delle modalità con le quali si è estrinsecato il rapporto commerciale con l’emittente ( Cass., 27 settembre 2022, n. 28165).
1.13 Ed invero, l’o perazione soggettivamente inesistente si configura sia quando l’emittente della fattura non sia un soggetto passivo di
imposta, sia quando la falsità delle fatture riguarda operazioni avvenute tra soggetti diversi da quelli che appaiano nella documentazione; segnatamente, nel caso in cui l’Amministrazione ritenga che la fattura attenga ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, e cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente sia stato realmente destinatario), la detraibilità dell’IVA deve essere, in linea di principio, esclusa, venendo a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione, costituito dall’effettuazione di un’operazione ai sensi dell’art. 19, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, presupposto da ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione (Cass., 13 novembre 2009, n. 23987; Cass., 12 marzo 2007, n. 5719). In tal caso, infatti, come evidenziato da questa Corte, l’imposta viene versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta, in quanto le fatture sono emesse da un soggetto che non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, da ritenersi “inesistenti” (Cass., 30 ottobre 2013, n. 24426). In sostanza, in caso di emissione di fattura per operazioni inesistenti, l’IVA versata (come previsto dall’art. 21, comma 7, d.P.R. 6 n. 633 del 1972) alla non genuina controparte, va considerata (proprio per le finalità del complessivo sistema IVA) come “fuori conto”, e cioè “isolata” dalla massa di operazioni effettuate ed “estraniata” dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte” che presiede alla detrazione d’imposta di cui all’art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass., 13 marzo 2013, n. 6229) (Cass., 20 luglio 2020, 15369).
1.14 Questa Corte ha, poi, precisato che, in tema di evasione dell’IVA a mezzo di frodi carosello, quando l’operazione soggettivamente inesistente è di tipo triangolare, poco complessa e caratterizzata dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente comunitario ed
il cessionario italiano, l’onere probatorio a carico della Amministrazione finanziaria, sulla consapevolezza da parte del cessionario che il corrispettivo della cessione sia versato al soggetto terzo non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta, è soddisfatto dalla dimostrazione che l’interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al contribuente cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta (Cass., 21 aprile 2017, n. 10120; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27629; Cass., 20 dicembre 2023, n. 35591).
1.15 Raggiunta tale prova, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare, oltre all’effettività del cedente, la propria buona fede, ossia di «avere agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a far insorgere il sospetto», stante la inesigibilità di ulteriori verifiche (Cass., 20 luglio 2020, n. 15369). Il contribuente, in altri termini, può dimostrare sia l’anomalia degli elementi posti in evidenza dal Fisco, sia l’attività preventiva posta in essere da cui emergeva l’effettività ed operatività dell’impresa interposta. Risulta, invece, priva di rilievo tanto la prova sulla regolarità formale delle scritture e sulle evidenze contabili dei pagamenti, quanto sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio, e ciò in quanto le prime circostanze sono già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, mentre l’ultima si riferisce ad un dato di fatto esterno alla fattispecie, inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode ( Cass., 16 febbraio 2025, n. 3949). Nessun rilievo assume poi la riscontrata congruità dei prezzi e la regolarità formale delle operazioni, poiché il
primo costituisce un elemento neutro ai fini della prova della buona fede, e la seconda è addirittura utilizzata proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., dicembre 2019, n.33915; Cass., 24 agosto 2022, n. 25192). Né, a tal fine, è sufficiente dedurre che la merce sia stata consegnata e rivenduta e la fattura, IVA compresa, effettivamente pagata, poiché trattasi di circostanze pienamente compatibili con la frode fiscale perpetrata mediante un’operazione soggettivamente inesistente» (Cass., 9 settembre 2016, n. 17818), ovvero, «di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perché relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode» (cfr. Cass., 28 giugno 2018, n. 17153 del 2018).
1.16 Tanto premesso, nella vicenda in esame, la Commissione tributaria regionale ha fatto piena e corretta applicazione dei principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali. I giudici di secondo grado, n ella specie, a fronte della contestazione circa l’indebita detrazione Iva da parte della società ricorrente, in relazione a fatture emesse dalle società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, risultanti società cartiere, ha ritenuto che l’Amministrazione avesse fornito elementi idonei a dimostrare la conoscenza e/o conoscibilità della frode Iva da parte della società contribuente e che l’Ufficio aveva posto in evidenza elementi obbiettivi e specifici verificabili, che, consentendo di sospettare l’esistenza di irregolarità e/o di evasioni nella sfera delle emittenti le fatture, dovevano indurre la società contribuente -usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta – ad assumere le opportune informazioni sull’effettiva esistenza de i soggetti (fittiziamente) fornitori della merce; i giudici di secondo grado, dunque, hanno correttamente affermato che, a fronte degli elementi tipici che davano luogo ad una presunzione di svolgimento di operazioni soggettivamente inesistenti,
operava l’inversione dell’onere della prova a carico della società contribuente, nel senso che quest’ultima avrebbe dovuto dimostrare che «non avrebbe potuto sapere» pur avendo utilizzato la massima diligenza esigibile, non senza ribadire che, trattandosi di operazioni soggettivamente inesistenti di tipo triangolare l’onere probatorio a carico della Amministrazione finanziaria, sulla conoscibilità da parte della società contribuente della partecipazione ad una frode Iva è soddisfatto dalla dimostrazione della fittizietà del soggetto interposto, e che è l’indebita detrazione il maggior guadagno che consegue a tali operazioni. È certo, in ogni caso, e salvo la pretesa di un maggior rigore probatorio a seconda del livello di complessità dell’organizzazione della frode, in base al riscontro di una catena più corta o più lunga rappresentativa del numero di società partecipanti all’illecito , che l’accertamento giudiziale del concreto atteggiarsi delle varie fattispecie è generalmente affidato all’allegazione di pr ove indiziarie, che il giudice è tenuto a vagliare secondo i principi posti a presidio del governo delle prove presuntive (Cass., 12 luglio 2023, n. 19981). Il procedimento logico-valutativo seguito dalla Commissione tributaria regionale è, dunque, coerente con i criteri di ripartizione dell’onere probatorio come regolato dall’art. 2697 cod. civ. e con le regole di governo delle prove presuntive, poste dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ., nei limiti in cui questa Corte, nell’esercizio della funzione nomofila ttica, può controllare tale processo (Cass., 15 novembre 2021, n. 34248; Cass., 13 febbraio 2020, n. 3541).
Il secondo motivo deduce, in subordine, rispetto al primo motivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997, per l’illegittima applicazione della sanzione in misura superiore al minimo edittale. Era palese che la CTR, nell’operare detta «scelta», avesse utilizzato una motivazione palesemente incongrua e contraddittoria oltre che estremamente succinta. Il fatto che esistevano procedimenti relativi a
più anni e rivolti allo stesso soggetto non era motivo sufficiente per procedere con l’irrogazione delle sanzioni in misura superiore al minimo edittale per il semplice motivo che detta affermazione era del tutto decontestualizzata. In questo senso la Commissione stessa aveva confermato la mancanza di un ruolo attivo (e nemmeno passivo ma solo «poco diligente») nella realizzazione della frode. Ecco che allora risulta destituita di qualsiasi fondamento la scelta operata dalla Commissione nel confermare l’erogazione della sanzione in misura superiore al minimo edittale.
2.1 Il motivo è inammissibile.
2.2 L’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 stabilisce che « Nella determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali »
Ritiene questa Corte che la suddetta norma vada interpretata nel senso che – nella scelta tra i due parametri della sanzione edittale – deve farsi complessivamente riferimento ai parametri normativi a) della gravità della violazione, b) dell’opera successivamente svolta dall’agente per eliminarne o attenuarne le conseguenze, c) della personalità dell’agente (da desumersi, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 7, anche dai suoi precedenti in ambito fiscale) e, infine, d) delle sue condizioni economicosociali e che, con particolare riferimento al criterio della gravità cella violazione, che qui maggiormente interessa, la norma precisa che essa può essere desunta anche dalla condotta dell’agente. Insomma, il suddetto indice testuale specificato dalla norma (condotta dell’agente) viene individuato come parametro cui commisurare la gravità della violazione, che può essere desunta anche da altro, come dimostrato dalla congiunzione utilizzata dal legislatore (cfr . Cass., 20 febbraio 2019, n. 4927, in motivazione).
2.3 T anto premesso, è evidente come la censura in esame si palesa inammissibile, perché l’accertamento della gravità della condotta (che senz’altro costituisce parametro normativo cui, nella sostanza, s’è riferito il giudice d’appello, affermando, a pag. 6 della sentenza impugnata, che la reiterazione dell’utilizzo delle fatture ricevute dai fornitori che non erano i venditori della merce acquistata, come dimostrato dagli accertamenti emessi dall’Ufficio per annualità diverse che vanno dal 2006 al 2014, era motivo sufficiente per l’applicazione delle sanzioni massime), una volta esclusa la violazione di legge sotto lo specifico profilo enucleato dalla società ricorrente, implica valutazioni di fatto, non censurabili in sede di legittimità non censurabili in sede di legittimità; l’affermazione secondo cui la reiterazione dell’utilizzo delle fatture ricevute dai fornitori che non erano i venditori della merce acquistata, come dimostrato dagli accertamenti emessi dall’Ufficio per annualità diverse che vanno dal 2006 al 2014, era motivo sufficiente per l’applicazione delle sanzioni massime, si iscrive pienamente nel potere di valutazione demandato all’Ufficio dalla norma in rubrica, sicché la decisione impugnata va assolta da ogni censura al riguardo; ed invero, la circostanza che l’utilizzo ripetuto di fatture soggettivamente inesistenti ricevute da soggetti che non erano i venditori della merce acquistata implica già l’espressione di un disvalore normativo riguardo alla condotta tipica e un giudizio sulla gravità della condotta, pienamente sussumibile nell’ambito dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso va rigettato e la società contribuente va condannata al pagamento delle spese processuali, in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per
sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come legge e pure indicato in dispositivo.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 11 giugno 2025.