Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 748 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 748 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/01/2024
ORDINANZA
ha pronunciato la seguente sul ricorso n. 10519/2016 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME in virtù di mandato speciale a margine del ricorso per cassazione, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, al INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA, n. 9060/52/15, depositata in data 19 ottobre 2015, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 novembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
1 . La Commissione tributaria provinciale di Napoli, con sentenza n. 20596/46/14, depositata il 31 luglio 2014, aveva rigettato il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avente ad oggetto l’avviso di accertamento n. TF503AA03867, con cui l’Agenzia delle Entrate, a seguito di verbale di constatazione della Guardia di Finanza del 28 marzo 2013, aveva contestato alla società il ruolo di «buffer», ovvero di società cuscinetto o filtro, nell’ambito di una struttura finalizzata a frodare il fisco attraverso operazioni soggettivamente inesistenti, con conseguente recupero dell’IVA indebitamente detratta nel 2011 per euro 5.187.258,00, oltre sanzioni ed interessi.
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dalla società contribuente richiamando il nucleo centrale della motivazione della sentenza di primo grado e rilevando che:
la società appellante non aveva negato l’esistenza di una complessa frode carosello, ma aveva invocato, nella sostanza, la propria buona fede, e rispetto alla prima contestazione dei giudici di primo grado, di alienare a « società, quasi tutte create da poco e già in liquidazione o già cessate, e … risultate, a seconda dei casi, prive di organizzazione, o del tutto sprovviste di documentazione contabile, o con scritture contabili con annotazioni non coerenti con quelle risultanti nelle corrispondenti strutture della ricorrente » , aveva opposto in concreto che si era riferita ai propri fornitori e non ai propri acquirenti quando
aveva sostenuto che non poteva sapere delle loro violazioni tributarie, evidenziandone di contro l’apparente affidabilità commerciale;
-) rispetto alla seconda contestazione, di alienare ad un « prezzo, spesso inferiore a quello di acquisto », la società appellante aveva negato la circostanza, facendo riferimento ai prezzi finali al dettaglio, ossia al momento finale dell’operazione fraudolenta, mentre quello tra la società appellante e i suoi acquirenti era un momento intermedio, su cui non vi era stata deduzione;
-) rispetto alla terza contestazione della sentenza, di alienare « ancor prima dell’emissione delle fatture da parte del fornitore comunitario », la giustificazione dell’esistenza di fatture pro forma anteriori, che attestavano l’esistenza di proposte d’ordine riepilogative della merce disponibile e i relativi prezzi, non era sufficiente, perché restava il dato, oggettivo, che in molti casi le fatture di acquisto della C.G. Distribuzioni erano successive alle fatture di vendita dei beni e questa era un’incongruenza, in quanto, al di là della potenziale disponibilità dei beni, non si vendeva ciò che non era già proprio;
-) quanto alla quarta contestazione della sentenza, secondo cui « i beni stessi giacevano, una volta entrati in Italia, presso una società di logistica che veniva autorizzata di volta in volta a rilasciarli a cascata da una società all’altra fino al destinatario finale al quale la consegna avveniva con l’ultimo passaggio cartolare », il dato che tale circostanza fosse stata giustificata solo in termini economici, per la necessità di ridurre i costi aziendali, non era da solo sufficiente ad eliminare i dubbi sull’effettività dell’intermediazione della società RAGIONE_SOCIALE che non solo aveva venduto i beni invece di acquistarli e senza guadagnare, ma aveva venduto beni che nemmeno materialmente entravano nella sua disponibilità e che gli acquirenti finali ricevevano direttamente dalle società logistiche.
I giudici di secondo grado, inoltre, hanno ritenuto infondati: 1) il motivo di appello relativo alla nullità per difetto di motivazione
dell’avviso di accertamento, in quanto l’avviso di accertamento conteneva vari argomenti ed elementi motivazionali e faceva rinvio per relationem al p.v.c di constatazione della Guardia di Finanza del 28 marzo 2013, ancora più dettagliato e redatto in contraddittorio col legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e dallo stesso firmato; 2) il motivo di gravame sull’errata determinazione della pretesa erariale, che faceva riferimento a note di credito la cui falsità, come quella delle relative fatture, risultava chiaramente evidenziata nel p.v.c. del 28 marzo 2013; 3) l’ultimo motivo di impugnazione, poiché l’iscrizione a ruolo dell’intera pretesa erariale, senza frazionamenti, si giustificava per la notevole entità del credito tributario e per la stessa natura della violazione riguardante fatturazioni false per operazioni soggettivamente inesistenti.
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sei motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Il primo mezzo deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in riferimento alla conoscenza da parte della ricorrente delle caratteristiche delle società acquirenti individuate in sentenza, avendo la Commissione tributaria regionale posto a carico della società ricorrente un onere della prova che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità doveva essere posto a carico della Agenzia delle Entrate.
Il secondo motivo deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio inerente la circostanza che la società ricorrente non avesse proposto specifiche difese in relazione all’assunto dedotto nella sentenza di primo grado che aveva alienato a prezzi inferiori a
quelli d’acquisto. La Commissione tributaria regionale aveva omesso l’esame dei fatti dedotti nell’atto di appello in relazione alle vendite tra la società ricorrente ed i suoi acquirenti, indicati nelle pagg. 3 (trascritti alla pagina 6 del ricorso per cassazione) e 14-16 dell’atto di appello (trascritti alle pagine 6 e 7 del ricorso per cassazione).
Il terzo mezzo deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’o messo esame circa fatti decisivi per il giudizio inerente la circostanza che «in molti casi le fatture d’acquisto della C.G. Distribuzioni sono successive alle fatture di vendita dei beni». La Commissione tributaria regionale aveva omesso l’esame dei fatti dedotti nell’atto di appello in relazione alla pretesa anteriorità delle fatture di vendita rispetto a quelle di acquisto, indicati nelle pagg. 8-12 dell’atto di appello (trascritti alle pagine 8 -12 del ricorso per cassazione).
Il quarto mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 cod. proc., in riferimento all’accertamento della consapevole partecipazione della ricorrente ad una frode carosello. La sentenza impugnata era fondata su presunzioni che, in violazione dell’art. 2729 cod. civ. non erano gravi, precise e concordanti. Addirittura, per quanto concerneva la questione della presenza dei beni presso una società di logistica, i giudici di secondo grado non erano riusciti a scalfire la fondatezza e/o plausibilità dei rilievi della società ricorrente.
Il quinto mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio inerenti l’inesatta determinazione della pretesa erariale. La Commissione tributaria regionale aveva omesso l’esame dei fatti dedotti nell’atto di appello in relazione all’inesatta determinazione
della pretesa erariale, indicati nelle pagg. 18-19 dell’atto di appello (trascritti alle pagine 14 e 15 del ricorso per cassazione).
Il sesto mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 29 del decreto legge n. 78/2010 e 68 del decreto legislativo n. 546/1992, in riferimento alla negazione del beneficio della riscossione frazionata. La sentenza impugnata a fondamento della negazione del beneficio della riscossione frazionata aveva richiamato, sinteticamente, sia la notevole entità del credito, che, costituiva, invece, un presupposto per l’applicazione delle norme indicate, sia la natura dell’operazione, che non era prevista come un esimente per l’applicabilità della norma. Inoltre, i giudici di secondo grado, non aveva trattato della questione dei pericoli insiti alla concessione dei benefici dedotta alle pagg. 1920, dell’atto di appello, trascritt a alle pagine 16 e 17 del ricorso per cassazione.
Il primo e il quarto motivo, che vanno trattati unitariamente perchè connessi, sono inammissibili ed infondati.
7.1 Sono inammissibili, in quanto si tratta di doglianze dirette, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
7.2 Ed invero, da un lato la società ricorrente ha prospettato la violazione del disposto di cui all’art. 2697 cod. civ., ancorché la Commissione tributaria regionale non aveva attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata, secondo le regole di scomposizione della fattispecie (come di qui a poco si dirà), ritenendo, invece, assolto l’onere probatorio posto a capo dell’Agenzia delle Entrate in relazione alla fattispecie in esame caratterizzata dalla emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e ritenendo, piuttosto, che la società appellante non avesse fornito
adeguato riscontro probatorio diretto ad accertare l’uso della diligenza massima esigibile da un operatore accorto, tenuto conto delle circostanze del caso concreto.
7.3 Dall’altro , ha dedotto la violazione degli artt. 2729 cod. civ., anche se la valutazione delle prove raccolte, pure se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito (Cass., 19 luglio 2021, n. 20553).
7.4 Ed invero, il giudizio di merito non può essere ulteriormente revisionato in questa sede, tenuto conto del principio di diritto secondo cui: « Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione » (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30042).
7.5 In sede di legittimità è, poi, possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3541), evenienza che, nel caso in esame, non è stata dedotta dalla società ricorrente.
7.6 I motivi sono pure infondati, poiché i giudici di secondo grado hanno fatto corretta applicazione di principi affermati da questa Corte, anche di recente, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti ai fini IVA (per quel che rileva in questa sede) e di criteri di ripartizione dell’onere della prova ad esso correlati.
7.7 In proposito, deve richiamarsi l’orientamento di questo Corte secondo cui «Q ualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto » (cfr. Cass., 31 gennaio 2022, n. 2922; Cass., 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; Cass., 20 aprile 2018, n. 9851).
7.8 Più in particolare, questa Corte, partendo dalla premessa che ai fini della ripartizione dell’onere della prova, occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’Iva che tale diritto costituisce, ha affermato che incombe, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione e che, una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto
le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851, citata).
7.9 Ciò posto, il giudice tributario di merito, investito della controversia avente ad oggetto l’atto impositivo, deve previamente valutare, con giudizio di fatto censurabile in cassazione solo per vizi attinenti alla congruità ed alla coerenza logica della motivazione, la sussistenza dei caratteri di gravità, precisione e concordanza degli indizi motivanti l’atto medesimo, esaminandoli sia singolarmente sia nel loro complesso, ed esponendo adeguatamente l’esito di tale giudizio nella motivazione della sentenza. Quando egli ritiene, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità (non necessariamente di certezza), che detti indizi sono sufficienti a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, con riguardo, nel caso delle frodi carosello, all’esistenza dell’organizzazione fraudolenta, alla partecipazione ad essa del contribuente o, quanto meno, alla consapevolezza da parte sua di avvantaggiarsi della frode con danno dell’erario, la domanda dell’amministrazione deve ritenersi provata; con la conseguenza che si sposta a carico del contribuente, secondo la regola generale ricavabile dall’ art. 2727 cod. civ. e ss., e dall’art. 2697, comma secondo, cod. civ., l’onere di provare eventuali fatti a suo favore; la mancata deduzione di idonea prova contraria, fin dall’atto introduttivo del giudizio, o l’insuccesso di essa, comportano l’accoglimento della pretesa del fisco fondata su valide presunzioni. In tale contesto, le dichiarazioni rilasciate da terzi; le risultanze delle indagini condotte nei confronti di altre società; gli atti trasmessi dalla guardia di finanza, risultanti dall’attività di polizia giudiziaria, senza esclusione di altri atti, se contenuti negli atti (come il processo verbale di constatazione) allegati all’avviso di rettifica notificato o trascritti essenzialmente nella motivazione dello stesso, costituiscono parte integrante del materiale
indiziario e probatorio, che il giudice tributario di merito è tenuto a valutare dandone adeguato conto nella motivazione della sentenza.
7.10 Tanto premesso, nella vicenda in esame, la Commissione tributaria regionale ha fatto piena e corretta applicazione dei principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali, in quanto, dopo avere riportato il nucleo centrale della motivazione dei giudici di primo grado ( «Nel caso che occupa la Commissione, la Guardia di Finanza ha accertato che la società ricorrente alienava ad altre società, quasi tutte create da poco e già in liquidazione o già cessate, e che da accertamenti incrociati sono risultate, a seconda dei casi, prive di organizzazione, o del tutto sprovviste di documentazione contabile, o con scritture contabili con annotazioni non coerenti con quelle risultanti nelle corrispondenti strutture della ricorrente, beni di provenienza comunitaria ricevendone dai propri clienti il prezzo, spesso inferiore a quello di acquisto, ancor prima dell’emissione delle fatture da parte del fornitore comunitario e che i beni stessi giacevano, una volta entrati in Italia, presso una società di logistica che veniva autorizzata di volta in volta a rilasciarli a cascata da una società all’altra fino al destinatario finale al quale la consegna avveniva con l’ultimo passaggio cartolare. Appare chiara quindi la fondatezza della costruzione elusiva contestata ….. emergendo con chiarezza cristallina il fine ultimo degli individuati passaggi, solo virtuali, dei beni di provenienza comunitaria, quello cioè di creare un credito Iva su beni sui quali l’Iva non era mai stata assolta») ha evidenziato che la società appellante non aveva negato l’esistenza di una complessa frode carosello, ma aveva invocato, nella sostanza, la propria buona fede, non fornendo, tuttavia, adeguati riscontri probatori: 1) con riferimento alla prima contestazione (alienare a società create da poco e già in liquidazione o cessate, prive di organizzazione e di documentazione contabile o con scritture contabili non coerenti con quelle della società ricorrente ), in quanto si era riferita ai propri acquirenti e non ai propri fornitori; 2) con riguardo alla seconda contestazione ( vendite ad un prezzo spesso inferiore a quello di acquisto ), in quanto aveva avuto riguardo al prezzo finale, mentre quello tra la società appellante e i suoi acquirenti era un momento intermedio, su cui non vi era stata alcuna deduzione; 3) in relazione alla terza contestazione ( alienare prima dell’emissione delle fatture da
parte del fornitore comunitario ), poiché rilevava il dato oggettivo che in molti casi le fatture di acquisto della C.G. Distribuzioni erano successive alle fatture di vendita dei beni; 4) rispetto alla quarta contestazione ( i beni stessi giacevano, una volta entrati in Italia, presso una società di logistica che veniva autorizzata di volta in volta a rilasciarli a cascata da una società all’altra fino al destinatario finale al quale la consegna avveniva con l’ultimo passaggio cartolare ) perché la necessità di ridurre i costi aziendali non eliminava i dubbi sull’effettività dell’intermediazione della società RAGIONE_SOCIALE, che non solo aveva venduto i beni invece di acquistarli e senza guadagnare, ma aveva venduto beni che nemmeno materialmente entravano nella sua disponibilità e che gli acquirenti finali ricevevano direttamente dalle società logistiche. Ed invero, le specifiche contestazioni hanno rappresentato, secondo l’insindacabile valutazione dei giudici di merito, elementi tipici che hanno dato luogo ad una presunzione di svolgimento di operazioni soggettivamente inesistenti, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico della società contribuente, nel senso che quest’ultima avrebbe dovuto dimostrare, in modo idoneo, che « non avrebbe potuto sapere » pur avendo utilizzato la massima diligenza esigibile. Di contro, la società ricorrente ha ancorato la sussistenza dell’incolpevolezza dell’ignoranza ad elementi che sono stati considerati dai giudici di secondo grado non risolutivi, in presenza di una vicenda frodatoria, dove il maggior guadagno che conseguiva a tali operazioni era proprio l’indebita detrazione Iva. Ed invero, come sopra rilevato, in ipotesi di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti consistita nella diretta acquisizione della prestazione da soggetto certamente diverso da quello che ha emesso fattura e percepito l’Iva in rivalsa, la prova che la prestazione non è stata effettivamente eseguita dal fatturante, essendo questo privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione medesima, costituisce di per sé
elemento idoneamente sintomatico dell’assenza di «buona fede» del contribuente, poiché l’immediatezza dei rapporti (tra cedente/fatturante-cessionario committente) induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’iva a soggetto non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta; con l’effetto che, in tal caso, sarà il contribuente a dover provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri.
Il secondo, terzo e quinto motivo sono inammissibili ai sensi dell’art. 348 te r cod. proc. civ., vertendosi in fattispecie nella quale la società ricorrente è risultata soccombente in entrambi i giudizi di merito, sulla base di statuizioni fondate sui medesimi rilievi in fatto, che hanno disatteso i diversi argomenti -sostanziali e probatori -dalla stessa proposti.
8.1 Ed invero, la previsione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348 ter , quinto comma, cod. proc. civ., che esclude che possa essere impugnata ex art. 360, primo grado, n. 5, cod. proc. civ. la sentenza di appello «che conferma la decisione di primo grado», si applica, agli effetti dell’art. 54, comma 2, del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione successivamente all’11 settembre 2012 (Cass., 18 dicembre 2014, n. 26860; Cass., 11 maggio 2018, n. 11439), così nella fattispecie in esame dove l’appello, come risulta dalla pag. 1 della sentenza impugnata, è stato depositato in data 19 novembre 2014.
Il sesto motivo è inammissibile, perché non si confronta con il contenuto del provvedimento impugnato, che ha sostanzialmente ritenuto legittima l’iscrizione a ruolo straordinario dell’intero importo, in ragione della notevole entità del credito tributario e della stessa
natura della violazione riguardante fatturazioni false per operazioni soggettivamente inesistenti (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata). Ciò, peraltro, trova conferma, a pag. 16 del ricorso per cassazione, dove si riporta il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e si fa riferimento all’Ente impositore che ha ritenuto sussistenti le condizioni del fondato pericolo e ha negato l’agevolazione prevista dall’art. 68 del decreto legislativo n. 546 del 1992, avvisando la società contribuente che, in caso di ricorso, sarebbe stata iscritta a ruolo l’intera pretesa erariale.
9.1 Ed invero, a norma dell’art. 11, secondo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973, i ruoli si distinguono in ordinari e straordinari. I ruoli straordinari sono formati quando vi è fondato pericolo per la riscossione (art. 11, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973) e autorizzano l’Amministrazione finanziaria ad iscrivere le imposte, gli interessi e le sanzioni per l’intero importo risultante dall’avviso di accertamento, anche se non definitivo (art. 15 bis del d.P.R. n. 602 del 1973). Tale ultima disposizione costituisce una misura cautelare posta a garanzia del credito erariale (Cass., Sez. U., 13 gennaio 2017, n. 758) e opera, ricorrendone i presupposti, anche prima della pronuncia del giudice tributario, diversamente da quanto previsto in via ordinaria dall’art. 68 del decreto legislativo n. 546 del 1992, che consente la riscossione frazionata del credito tributario solo all’esito del giudizio di primo grado (Cass., 1 marzo 2023, n. 6207, in motivazione).
9.2 Inoltre, il carattere eccezionale dell’iscrizione nel ruolo straordinario prevista dall’art. 15 bis del d.P.R. n. 602 del 1973 giustifica la necessità, prevista dall’art. 11, comma terzo, del citato decreto, che sussista un fondato pericolo per la riscossione e, correlativamente, fonda l’obbligo dell’Amministrazione di indicare le ragioni che legittimano l’iscrizione a ruolo dell’intero carico tributario non definitivo (Cass., 17 gennaio 2023, n, 1236), come è accaduto nel caso in esame, laddove i giudici di secondo grado hanno richiamato la
notevole entità del credito e la natura della violazione consistita nelle fatturazioni false per operazioni soggettivamente inesistenti.
9.3 Peraltro, l’iscrizione nei ruoli straordinari dell’intero importo delle imposte, degli interessi e delle sanzioni, risultante dall’avviso di accertamento non definitivo, prevista, in caso di fondato pericolo per la riscossione, dagli artt. 11 e 15 bis del d.P.R. n. 602 del 1973, costituisce misura cautelare posta a garanzia del credito erariale, la cui legittimità dipende da quella dell’atto impositivo presupposto, che ne è il titolo fondante, sicché, qualora intervenga una sentenza del giudice tributario, anche non passata in giudicato, che annulla in tutto o in parte tale atto, l’ente impositore, così come il giudice dinanzi al quale sia stata impugnata la relativa cartella di pagamento, ha l’obbligo di agire in conformità della statuizione giudiziale, sia ove l’iscrizione non sia stata ancora effettuata, sia, se già effettuata, adottando conseguenziali provvedimenti di sgravio, o eventualmente di rimborso dell’eccedenza versata (Cass., 6 maggio 2022, n. 14384), ma, nel caso in esame, sia il giudizio di primo grado, che quello di secondo grado sono stati definiti in senso sfavorevole alla società contribuente.
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 23.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 21 novembre 2023.