Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 26761 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 26761 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 05/10/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 23286-2016, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, cf CODICE_FISCALE, in persona del Direttore p.t. domiciliata in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO, presso l’Avvocatura RAGIONE_SOCIALEe dello Stato, che la rappresenta e difende –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE P_IVA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 3318/67/2016 della Commissione tributaria provinciale della Lombardia, sez. staccata di Brescia, depositata il 6 giugno 2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29 aprile 2025 dal AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
Iva -Op. sogg. inesistenti -Società interposte e meccanismi di evasione iva – Prova
Dalla sentenza impugnata si evince che a seguito di controlli eseguiti da militari della GdF sulle dichiarazioni Iva della RAGIONE_SOCIALE, relative agli anni d’imposta 2007/2011, l’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE emise gli avvisi d’accertamento, con cui contestò l’emissione di fatture e x art. 8, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 , per la ricezione di dichiarazioni d’intento , rilasciate da esportatori abituali, ritenute false per essere società cartiere; contestò inoltre l’annotazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, per afferire a società fittizie, anche queste cartiere.
Con gli atti impositivi l’ufficio pretese il recupero di iva non versata, o illegittimamente detratta, pari rispettivamente a € 6.257.208,60 (per la prima contestazione) e a € 11.989.910,00, oltre sanzioni (per il complessivo importo di € 28.043.998,00 ).
La società, in liquidazione, in data 14 agosto 2014 presentò istanza di accertamento con adesione, ai sensi dell’art. 6, comma 3, d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218. In pari data presentò anche un primo ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Brescia, il cui contenuto era finalizzato all’accoglimento dell’istanza cautelare di sospensione dell’efficacia esecutiva degli atti impugnati (iscritto nel RGR con n. 933/2014). In data 25 novembre 2014 presentò presso la medesima Commissione un secondo ricorso avverso gli avvisi d’accertamento , con cui contestò le ragioni RAGIONE_SOCIALE pretese erariali, chiedendo l’annullamento degli atti impugnati.
Con sentenza n. 219/06/2015 la Commissione tributaria provinciale adita accolse i ricorsi riuniti, annullando gli avvisi d’accertamento. L’appello erariale avverso la pronuncia fu respinto dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. staccata di Brescia, con sentenza n. 3318/67/2016, ora al vaglio di questa Corte.
Il giudice regionale ha innanzitutto rigettato le eccezioni preliminari sollevate dall’ufficio in merito alla tardività del secondo ricorso, proposto il 25 novembre 2014. Nel merito, ha ritenuto che gli elementi indiziari allegati dall’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE , a sostegno della condotta fraudolenta o comunque illegittima della società, non fossero sufficienti al raggiungimento della prova presuntiva a carico dell’erario . Di contro gli esiti RAGIONE_SOCIALE indagini penali, dalle quali erano state escluse responsabilità dell’amministratore della società (NOME COGNOME, pur indicato dall’ufficio come la mente di tutte le operazioni tese alla sottrazione di iva all’erario), nonché la documentazione allegata al
giudizio dalla società, avevano escluso il coinvolgimento della contribuente in operazioni inesistenti o in responsabilità per il rilascio di false lettere d’intenti da parte di società cartiere.
L’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi, per la cassazione della sentenza, cui ha resistito la società con controricorso, illustrato ulteriormente con memoria.
All’esito dell’adunanza camerale del 29 aprile 2025, la causa è stata riservata e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo l’RAGIONE_SOCIALE ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 21, comma 1, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e 6, d.lgs. n. 218 del 1997 , n relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
Secondo l’erario, a seguito del deposito di un primo ricorso avverso gli atti impositivi (proposto il 14 agosto 2014), doveva dedursi la rinuncia all’istanza di definizione con adesione (depositata in pari giorno) . Il secondo ricorso, pertanto, proposto dalla contribuente il 25 novembre 2014, era da considerarsi tardivo. Ciò perché, rileva la difesa erariale, a fronte della rinuncia al procedimento di adesione (ossia dal 14 agosto 2014), il termine di legge per impugnare gli atti impositivi poteva dirsi rispettato solo con il primo ricorso. Questo però era irrituale o inammissibile, limitandosi ad invocare la sospensione cautelare della esecutività degli avvisi d’accertamento , in ragione della possibile esecuzione frazionata del credito erariale «ex art. 15, dpr 602/73», ma senza impugnare nel merito quegli avvisi. Anche qualora si fosse ritenuto che il secondo ricorso integrava le ragioni d’impugnazione, esso non poteva ritenersi tempestivo, risultando notificato solo il 25 novembre 2014, quando la contribuente era ormai decaduta dal potere d’impugnazione , ossia dall’1 ottobre o dal 2 ottobre 2014. Le conclusioni non mutano, secondo la difesa erariale, qualora voglia riconoscersi che, a seguito dell ‘ istanza di definizione per adesione, il termine di impugnazione fosse stato sospeso sino alla proposizione del primo ricorso. In questa seconda ipotesi la decadenza dal potere impugnatorio degli avvisi d’accertamento era comunque intervenuta il 12 novembre 2014, data rispetto alla quale il secondo ricorso risultava parimenti tardivo.
Il motivo è infondato nei termini appresso chiariti.
Intanto non rileva quanto a sua volta eccepito dalla difesa della contribuente, secondo la quale l’eccezione non fu sollevata in primo grado. Quella del ricorso proposto tardivamente, a pena di inammissibilità, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 21, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, costituisce questione oggetto di eccezione sollevabile in ogni stato e grado del giudizio , nonché rilevabile anche d’ufficio (vedi, da ultimo, Cass., Sez. Un., 29 agosto 2025, n. 24172, pag. 31, lett. e).
Tuttavia, nel merito, le ragioni esplicate dalla ricorrente con il primo motivo non colgono nel segno.
La difesa erariale sostiene che il potere impugnatorio, al momento della proposizione del ricorso notificato il 25 novembre 2014, si era ormai consumato. A tal fine attribuisce al ricorso depositato il 14 agosto 2014, con il quale la società si limitava a chiedere in via cautelare la sospensione dell’efficacia esecutiva degli avvisi d’accertamento, l’effetto della rinuncia alla definizione con adesione, con conseguente venir meno della sospensione dei termini di impugnazione del ricorso.
Co rrettamente il giudice d’appello ha rimarcato l”irritualità’ del primo ricorso, ‘senza alcun collegamento con un ricorso impugnatorio degli avvisi di accertamento di cui trattasi’. E, in effetti, nel sistema processuale tributario, è previsto l’accesso de l contribuente alla tutela cautelare solo a giudizio incardinato, previa domanda inserita nel ricorso o formulata successivamente e notificata alla controparte (cfr. l’art. 47 del d.lgs. n. 546/92, che conferisce al ‘ricorrente’ la facoltà di chiedere la s ospensione dell’esecuzione dell”atto impugnato’; la tutela cautelare anticipata è invece riconosciuta a favore dell’Amministrazione, che, giusta l’art. 22 del d.lgs. n. 472/97, nel testo all’epoca vigente, dopo la notifica dell’avviso di accertamento, di atti sanzionatori o del processo verbale di constatazione, se ha fondato timore di perdere la garanzia del credito, può chiedere al presidente della Corte di Giustizia tributaria di I grado – allora Commissione tributaria provinciale l’iscrizione di ipoteca e l’autorizzazione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei beni).
Quanto poi alla forma con cui la tutela cautelare era stata attivata, va evidenziato che, secondo la disciplina vigente ratione temporis , l’art. 6, commi 2 e 3 del d.lgs. n. 218 cit. così recitava «2. Il contribuente nei cui confronti sia stato notificato avviso di accertamento o di rettifica, non
RGN 23286/2016
preceduto dall’invito di cui all’art. 5 può formulare anteriormente all’impugnazione dell’atto innanzi alla commissione tributaria provinciale, istanza in carta libera di accertamento con adesione, indicando il proprio recapito, anche telefonico. 3. Il termine per l’impugnazione indicata al comma 2 e quello per il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto accertata, indicato nell’art. 60, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 sono sospesi per un periodo di novanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza del contribuente; l’iscrizione a titolo provvisorio nei ruoli RAGIONE_SOCIALE imposte accertate dall’ufficio, ai sensi dell’art. 15, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, è effettuata, qualora ne ricorrano i presupposti, successivamente alla scadenza del termine di sospensione. L’impugnazione dell’atto comporta rinuncia all’istanza» .
La norma, pur facendo espressa previsione degli effetti della rinuncia all’istanza di adesione, va letta alla luce della sua ratio. Con essa, una volta avviata la procedura, i termini processuali per la proposizione del ricorso sono sospesi (per 90 giorni). L’art. 6 del d.lgs. n. 218 del 1997 prevede che il contribuente decada dalla sospensione solo nelle ipotesi di rinuncia univoca al procedimento per adesione o di proposizione del ricorso stesso.
Questa Corte ha peraltro opportunamente avvertito come la sospensione del termine di impugnazione dell’atto impositivo per 90 giorni, a seguito di presentazione dell’istanza di definizione ai sensi dell’art. 6, o 12, del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, non è interrotta dal verbale di constatazione del mancato accordo tra questi e l’Amministrazione finanziaria, poiché, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, diretta a favorire il più possibile la composizione amministrativa della controversia, deve ritenersi che solo l’univoca manifestazione di volontà del contribuente possa escludere irrimediabilmente tale soluzione compositiva, attraverso la proposizione di ricorso avverso l’atto di accertamento, oppure di formale ed irrevocabile rinuncia all’istanza di definizione con adesione, facendo perciò venir meno la sospensione del temine di impugnazione (Cass., 24 febbraio 2012, n. 2857; 9 marzo 2012, n. 3762; 14 aprile 2017, n. 9659; 12 ottobre 2018, n. 25510). Si è infatti affermato che la redazione del verbale, dal quale risulti l’ esito negativo del procedimento, non può essere equiparata all’impugnativa dell’atto di accertamento, né assumere il significato di una
definitiva rinuncia del contribuente all’istanza di accertamento con adesione. Ciò, infatti non impedisce che l’accordo possa essere parimenti raggiunto prima dell’instaurazione del contenzioso, non esprimendo l’univoca volontà del contribuente di escludere, anche per il futuro, la composizione amministrativa della controversia (Cass., 30 dicembre 2009, n. 28051).
L’interpretazione della norma porta a ritenere che l a manifestazione non deve essere equivoca, ma deve esprimere una volontà di irrimediabile abbandono del procedimento già attivato.
Venendo ora al caso di specie, e volendo attribuire alla norma un significato coerente con i precedenti giurisprudenziali, il ricorso presentato dalla contribuente il medesimo giorno della proposizione dell’istanza di definizione ex art. 6 del d.lgs. n. 218 cit. (entrambi cioè il 14 agosto 2014), aveva quale unica finalità la richiesta, in via cautelare, di sospensione dell ‘ esecuzione degli atti impositivi durante il procedimento di definizione della lite con adesione.
È pur vero che l’istanza è stata presentata con ricorso, il che sul piano formale dalla stessa norma è individuato quale fatto interruttivo della volontà di rinunciare alla definizione per adesione, ma è altrettanto vero che quel ricorso – a prescindere dalla eventuale equivocità della forma -, prima ancora che introduttivo della lite, rivelava il solo intento di ‘paralizzare’ l’eventuale messa in esecuzione degli avvisi d’accertamento durante il procedimento per la definizione alternativa della lite (cfr. Cass., 23 maggio 2024, n. 14373).
Sul piano processuale si traduceva dunque nell’esatto contrario della volontà di introduzione del contenzioso con rinuncia alla procedura ex art. 6, d.lgs. n. 218 del 1997.
Interpretando diversamente la sequenza degli atti proposti dalla contribuente, ci si troverebbe dinanzi ad una condotta manifestamente contraddittoria, avendo la società promosso lo stesso giorno un procedimento per adesione e un ricorso per l’instaurazione del contenzioso, rinunciando al procedimento per adesione.
Si è trattato, in altri termini, di una condotta per tempi e contenuti meno significativa di quanto possa evincersi dal verbale di constatazione del mancato accordo, cui pur la giurisprudenza, e la dottrina, negano che possa equipararsi l’impugnativa dell’atto di accertamento, né che possa assumere
il significato di una definitiva rinuncia del contribuente all’istanza di accertamento con adesione.
Ciò trova conferma anche nella incontestata circostanza che nei mesi successivi al ricorso l’ufficio e la contribuente intrapresero il procedimento attivato con l’istanza di definizione ex art. 6 cit.
Venendo ora ai motivi di merito, è logicamente prioritario l’esame del quarto motivo, con cui l’ufficio lamenta la violazione dell’art. 36, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. La sentenza sarebbe nulla per omessa motivazione, sotto il profilo dell’apparenza. Il giudice regionale, nel confermare le statuizioni di prim o grado, avrebbe mancato di esaminare il quadro degli elementi allegati dalla RAGIONE_SOCIALE.
Il motivo, che se fondato assorbirebbe gli altri, va rigettato.
S ussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, la decisione può essere legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto RAGIONE_SOCIALE argomentazioni RAGIONE_SOCIALE parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta RAGIONE_SOCIALE norme che
regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione del quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819).
Nel caso di specie la Commissione regionale, dopo aver riportato gli esiti del giudizio dinanzi alla Commissione provinciale, e dopo aver elencato le ragioni dell’appello erariale, ha rigettato l’eccepita inammissibilità del ricorso introduttivo per tardività e, nel merito, ha riferito RAGIONE_SOCIALE allegazioni di elementi indiziari da parte dell’ufficio, e RAGIONE_SOCIALE allegazioni della contribuente, fina lizzate a dimostrare l’assenza dei requisiti RAGIONE_SOCIALE prove presuntive; ha ritenuto che dagli esiti dei processi penali, che non avevano coinvolto l’amministratore della RAGIONE_SOCIALE , potesse desumersi la carenza di elementi capaci di dimostrare il ‘coinvolgimento fattivo’ nella frode carosello.
La motivazione, a prescindere dalla condivisione o erroneità RAGIONE_SOCIALE argomentazioni sviluppate, sulle quali ci si soffermerà appresso con la valutazione degli altri motivi, non può dirsi apparente.
Con il secondo motivo l’ufficio si è doluto della violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., degli artt. 8, comma 1, lett. c), e 19 comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La sentenza avrebbe erroneamente escluso l’esistenza di una frode carosello imperniata sui rapporti con società, che, nella veste di fornitrici o di cessionarie, erano in realtà RAGIONE_SOCIALE mere cartiere; avrebbe inoltre errato nel ritenere non provata la mala fede della controricorrente nei rapporti con società, che falsamente avevano rilasciato dichiarazioni d’intento, così da non assoggettare ad imponibile le cessioni loro fatturate. Per tutti questi rapporti la Commissione regionale avrebbe ritenuto assente un coinvolgimento fattivo della contribuente, con ciò violando le regole giuridiche invocate.
Con il terzo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., dell’art. 8 comma 1, lett. c) e dell’art. 19 comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La Commissione regionale, ignorando i principi di buona fede e di diligenza esigibile da un operatore economico del settore, avrebbe erroneamente attribuito valenza probatoria prevalente, rispetto alle numerose prove indiziarie allegate dall’Ufficio, agli esiti di una CTU disposta in sede di procedimento di omologazione del concordato preventivo della società, con la quale era stato richiesto un parere di un esperto sulle eventuali responsabilità attribuibili alla RAGIONE_SOCIALE in relazione alle contestazioni elevate dalla Amministrazione finanziaria, nonché alla condanna comminata nei confronti di altra società, per truffa ai danni della contribuente.
I due motivi vanno trattati congiuntamente, per essere tra loro connessi, e sono fondati.
Va chiarito che, sul riparto degli oneri probatori in tema di operazioni soggettivamente inesistenti e ai fini Iva, questa Corte, tenendo conto degli approdi della giurisprudenza unionale sui requisiti necessari alla individuazione RAGIONE_SOCIALE ipotesi nelle quali al contribuente possa negarsi il diritto alla detrazione dell’iva versata a colui che abbia formalmente emesso la fattura, ma non sia l ‘effettivo cedente, ha ritenuto che, quando l’Amministrazione finanziaria contesta che la fatturazione attenga a tale tipo di operazioni, incombe sulla stessa l’onere di provare, con rigore, non solo che il fornitore sia un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, ma anche la consapevolezza nel destinatario che l’operazione si sia inserita in una evasione d’imposta (cfr. CGUE in causa C277/14, richiamata da Cass., 2 dicembre 2015, n. 24490) . L’ufficio , cioè, deve dimostrare, anche in via presuntiva ed in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza, in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente. Ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del
caso concreto (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 20 luglio 2020, n. 15369).
Per le ipotesi di fatturazione afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti che si risolvano nella diretta acquisizione della prestazione da soggetto diverso da quello che ha emesso fattura e percepito l’IVA in rivalsa, la prova che la prestazione non sia stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito di dotazione strumentale e di personale adeguato alla sua esecuzione, non costituisce di per sé un indice dirimente dell’assenza di ‘buona fede’ del contribuente, ma certo un significativo indice presuntivo, un idoneo elemento sintomatico, poiché l’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore – fatturante/cessionario o committente), unitamente agli obblighi informativi che pur gravano sull’operatore economico quando si interfaccia con altro operatore, anche in considerazione dell’oggetto e del valore RAGIONE_SOCIALE operazioni, induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta.
In tal caso sarà il contribuente a dover provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione non era il fatturante, ma altri, altrimenti dovendosi negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata (cfr. Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., 19 maggio 2025, n. 13324).
Costituendo infatti la neutralità dell’imposta, e con essa il diritto alla detrazione dell’imposta corrisposta in rivalsa, principio cardine del sistema comune europeo – come ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia UE (sentenze 6 luglio 2006, in C-439/04 e C-440/04, 6 dicembre 2012, in C285/11, 31 gennaio 2013, in C-642/11) -, non suscettibile di limitazioni in linea di principio, l’Amministrazione finanziaria, quando ritenga che il diritto debba essere negato, attenendo la fatturazione ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche avvalendosi di presunzioni semplici, che le operazioni non sono state effettuate o, nella seconda ipotesi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore.
Tale onere può dunque consistere in riscontri più semplici nelle operazioni soggettivamente inesistenti di tipo triangolare, od anche in relazione alla natura dell’oggetto RAGIONE_SOCIALE operazioni , oppure può esigere oneri maggiori per complesse operazioni di cd. “frode carosello” (contraddistinte da una catena di passaggi, in cui sono riscontrabili fatturazioni per operazioni inesistenti, con strumentali interposizioni anche di società “filtro”), per le quali l’ Ufficio è tenuto all’allegazione degli elementi di fatto caratterizzanti la frode ed i profili di responsabilità attribuibili al contribuente (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 27 febbraio 2020, n. 5339; 20 luglio 2020, n. 15369).
Solo ove questa prova sia fornita dall’ufficio, spetta al contribuente, che ha portato in detrazione l’iva, la prova contraria di aver concluso realmente l’operazione con il cedente o di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l’impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato d’ignoranza sul carattere fraudolento RAGIONE_SOCIALE operazioni.
Come rilevato dalla giurisprudenza unionale, il contribuente, ancorché non coscientemente partecipe di una frode, è tenuto ad adottare comunque tutte le misure ragionevoli in suo potere al fine di assicurare la propria estraneità ad operazioni fraudolente, e ciò richiede non solo l’assenza di una sua consapevole partecipazione, ma anche l’incolpevole ignoranza dell’operazione inesistente (cfr. anche CGCE, causa C -409/04 –RAGIONE_SOCIALE; da ultimo, con un esame approfondito che ricostruisce anche i precedenti della giurisprudenza euro-unitaria, cfr. CGUE, 1 dicembre 2022, in causa C512/21, nei § da 26 a 33).
A tal fine, dunque, non si considera sufficiente che il contribuente rappresenti la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti (Cass., 9 settembre 2016, n. 17818), anzi frequentemente utilizzate proprio a mascheramento dell’attività illecita posta in essere.
In ogni caso, salva la pretesa di un maggior rigore probatorio, è certo che a seconda del livello di complessità dell’organizzazione della frode -in base al riscontro di una catena più corta o più lunga rappresentativa del numero di società partecipanti all’illecito -l’accertamento giudiziale del concreto atteggiarsi RAGIONE_SOCIALE varie fattispecie è generalmente affidato
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all’allegazione di prove indiziarie, che il giudice è tenuto a vagliare secondo i principi posti a presidio del governo RAGIONE_SOCIALE prove presuntive.
Ed in questa attività di scernimento l’organo giudicante deve correttamente osservare le regole di riparto della prova.
Quanto poi alla seconda contestazione elevata con l’atto impositivo per cui è causa, relativa all’impiego di dichiarazioni d’intento rilasciate da esportatori abituali e ritenute ideologicamente false, altrettanto chiaramente la giurisprudenza di questa Corte ha inteso evidenziare come in tema di Iva, nelle cessioni all’esportazione in regime di sospensione d’imposta ex art. 8 d.P.R. n. 633 del 1972, se la dichiarazione d’intenti si riveli ideologicamente falsa, perché emessa da soggetto privo del requisito di esportatore abituale, al cedente non è consentito l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite di esecutività correlato alla suddetta qualità di esportatore abituale qualora, anche in base ad elementi presuntivi, disponga di elementi tali da sospettare l’esistenza di irregolarità, gravando sul medesimo un onere di diligenza mediante l’adozione di tutte le ragionevoli misure in proprio potere (cfr. Cass., 15 luglio 2020, n. 14979).
Quello che emerge però in modo inequivoco, in entrambe le ipotesi, è che non è affatto necessario, anzi va escluso, che il contribuente debba rispondere solo a condizione che sia data prova della assunzione di un ruolo fattivo nella realizzazione RAGIONE_SOCIALE condotte fraudolente.
Ebbene, i l giudice d’appello non si è adeguato ai principi enunciati.
Sulle operazioni soggettivamente inesistenti, sotto il profilo della esistenza dell’elemento psicologico, ha del tutto trascurato che i principi giurisprudenziali, anche euro-unitari, non richiedono come chiarito un consapevole coinvolgimento nella frode, ossia un ruolo ‘fattivo’, ma una mera colpevole inconsapevolezza della condotta illecita, secondo i canoni della responsabilità soggettiva dell’operatore professionale.
Le conclusioni non mutano quando si considerino le contestazioni relative alle cessioni di beni ad esportatori dichiaratisi abituali con false lettere d’intento, su cui peraltro la Commissione tributaria si è soffermata ben poco.
Nel caso di specie, peraltro, dal ricorso emerge come la frode è stata attuata nell’ambito di rapporti diretti, tenuti dalla RAGIONE_SOCIALE con la generalità RAGIONE_SOCIALE società, rivelatesi prive di organizzazione (locali, personale
e strumenti), così che la diligenza richiesta ad un operatore del settore imponeva quanto meno una verifica dei soggetti con cui trattava, in un caso, come quello in esame, in cui, riferisce il giudice d’appello, ‘in relazione agli anni d’imposta 2007 e 2008 vengono evidenziate le caratteristiche di cartiera della RAGIONE_SOCIALE e la circostanza ‘anomala’ RAGIONE_SOCIALE vendite di materiale plastico sostanzialmente ad un unico cliente ovvero ‘oltre 22 milioni di euro da RAGIONE_SOCIALE ad RAGIONE_SOCIALE e da quest’ultima a NOME” .
Né, rispetto ai riscontri della natura di società cartiere, che accomunavano peraltro i vari emittenti formali RAGIONE_SOCIALE fatture – altro elemento non trascurabile -, poteva assumere valore la circostanza che il legale rappresentante della società non fosse stato coinvolto nei processi penali che pur hanno attinto alcune RAGIONE_SOCIALE società cartiere.
Ancor meno significativa è poi la circostanza che per la società in concordato fosse stata disposta, per quanto è dato comprendere, una consulenza per un ‘parere’ giuridico sulla ipotesi di coinvolgimento del COGNOME, legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, nelle operazioni illecite per cui è ora causa, e ciò ai fini di una valutazione di probabilità dell’esito della controversia con l’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE; oppure che una RAGIONE_SOCIALE società, con cui la contribuente era stata in affari, fosse stata condannata per truffa ai danni della contribuente medesima, atteso che ciò non esimeva certo la società da quelle responsabilità, identificate dalla giurisprudenza unionale e da quella di legittimità, riconducibili alla ‘colpevole ignoranza’.
Infine, è appena il caso di chiarire che alla fattispecie qui al vaglio della Corte è estranea l’eventuale efficacia dell’art. 21 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, in tema di incidenza della sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, e ciò ai fini dell’efficacia di giudicato quanto ai fatti medesimi. Infatti, qualunque sia lo spettro applicativo del giudicato penale sui fatti materiali oggetto RAGIONE_SOCIALE contestazioni tributarie, nel caso di specie la posizione del COGNOME risulta scagionata da contestazioni penali sulla base di un provvedimento di archiviazione del procedimento avviato nei suoi confronti, non già in forza di una sentenza penale irrevocabile, come previsto dalla disciplina, e che qui in ogni caso non è mai stata prodotta.
I motivi vanno dunque accolti, e per l’effetto la sentenza va cassata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Lombardia, sez. staccata di Brescia, che in diversa composizione, oltre alla liquidazione RAGIONE_SOCIALE spese del giudizio di legittimità, provvederà ad esaminare le ragioni d’appello, tenendo conto dei principi enunciati in sentenza.
P.Q.M.
Accoglie il secondo ed il terzo motivo, rigetta il primo ed il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Lombardia, sez. staccata di Brescia, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione RAGIONE_SOCIALE spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il giorno 29 aprile 2025.
La Presidente NOME COGNOME