Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 1001 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 1001 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 3660/2015 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. BOLOGNA n. 76/2013 depositata il 12/12/2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30/11/2023 dal Co: COGNOME NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero in persona del sost. Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del primo e secondo motivo;
uditi per le parti l’Avvocato dello Stato NOME COGNOME e l’Avvocato prof. NOME COGNOME per la parte contribuente.
FATTI DI CAUSA
In data 2 Marzo 2007 i militari della Guardia di Finanza redigevano processo verbale di constatazione nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, corrente in Torino, in INDIRIZZO Nel particolare, emergeva che la società verificata avesse sottoscritto un contratto di cash pooling in data 10 maggio 1999, secondo la formula dello ‘ zero balance system ‘ con la RAGIONE_SOCIALE, società di diritto irlandese e sua controllante. Nelle intenzioni dichiarate il contratto si sostanzia nella gestione di una tesoreria accentrata fra tutte le società afferenti al medesimo gruppo, ove ciascuna si impegna a trasmettere nel conto corrente bancario comune -tenuto dalla capofila- tutte le somme attive e a ricevere il ripianamento delle somme passive ad ogni fine di giornata, in modo che il saldo contabile di ciascuna consorziata sia sempre pari a zero, come lascia intendere la stessa intitolazione. Lo scopo è quello di armonizzare i flussi finanziari delle società afferenti al medesimo gruppo, usando la liquidità in eccesso dell’una per soccorrere l’altra e ridurre così al minimo l’accesso al mercato del denaro. Tuttavia, dall’analisi della documentazione verificata emergeva che il contratto di tesoreria accentrata si era concretato nei seguenti
caratteri essenziali: 1) il tasso mensile degli interessi attivi e passivi è stato fissato sul tasso Euribor del primo giorno lavorativo del mese contabile con una variazione in più o meno di 50 punti base, rispettivamente ove si trattasse di importi a debito o di importi a credito; 2) il detentore della tesoreria accentrata, la società madre irlandese, non ha operato alcuna ritenuta alla fonte a titolo di imposta sugli interessi attivi corrisposti o da corrispondersi alla società verificata quale remunerazione delle somme ricevute e gestite sul conto centralizzato, né ha mai chiesto alcuna commissione specifica per il servizio di tesoreria così offerto; 3) altresì la società verificata, nel periodo compreso tra gennaio e 2000 settembre 2005, non ha mai fatto ricorso al credito intragruppo, ma sempre e solo trasmesso alla tesoreria centralizzata i propri saldi attivi; 4) va altresì evidenziato che tali trasferimenti non avevano cadenza giornaliera, secondo la clausola tipica dello ‘ zero balance system ‘, ma avvenivano con periodi più lunghi; 5) altresì è determinante la circostanza che nel periodo di vigenza del contratto di tesoreria centralizzato la società italiana abbia mantenuto sul proprio conto corrente una capienza di somme che le hanno consentito di operare in autonomia. Da tutte queste circostanze si rilevava la stipulazione di un contratto eccentrico rispetto a quanto formalmente dichiarato e che esula dalla semplice tesoreria centralizzata fra società afferenti al medesimo gruppo.
Sulla base del processo verbale di constatazione, l’Ufficio adottava atto impositivo notificato il 27 maggio 2008, con ripresa a tassazione del maggior reddito maturato in ragione degli interessi induttivamente determinati per il deposito di somme continuativamente implementato presso la tesoreria della società controllante. L’Amministrazione finanziaria disconosceva infatti il contratto di tesoreria, ritenendo semplicemente essersi verificato un trasferimento di ricchezza con disponibilità di liquidità a favore della controllante, cui avrebbe dovuto seguire una remunerazione a
favore della controllata, indice di maggior capacità contributiva, donde la ripresa a tassazione di Irpeg ed Irap per l’anno di imposta 2003.
La società contribuente avversava la ricostruzione così operata dall’Ufficio e impugnava l’atto impositivo, trovando apprezzamento presso il giudice di prossimità, donde interponeva appello l’Amministrazione finanziaria, trovando però esito nella conferma della sentenza di primo grado.
Ricorre quindi l’Agenzia delle entrate, per il tramite del proprio patrono ex lege , affidandosi a tre strumenti, cui replica con tempestivo controricorso la parte contribuente.
In prossimità dell’odierna udienza il Pubblico Ministero -in persona del sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME– ha depositato le proprie conclusioni, in forma di memoria, chiedendo il rigetto dei motivi primo e terzo e l’accoglimento del secondo.
In prossimità dell’udienza, la parte privata ha depositato memoria a sostegno delle proprie ragioni, chiedendo in subordine la rimodulazione delle sanzioni alla luce dello ius superveniens , ai sensi l’art. 1, comma 2 d.lgs. 16 dicembre 1997, n. 471 nel testo modificato dall’art. 15, comma 1 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Vengono proposti tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo si prospetta censura di cui all’articolo 360 n. 4 cpc, per violazione e falsa applicazione degli articoli 132, secondo comma, e 112 cpc, nonché dell’articolo 36 decreto legislativo numero 546/1992, nella sostanza lamentando la motivazione apparente laddove il collegio d’appello ha confermato la sentenza di primo grado, richiamando questioni cui la commissione tributaria provinciale non aveva neppur fatto cenno.
Con il secondo motivo si profila censura di cui all’articolo 360 n. 3 cpc per violazione o falsa applicazione dell’articolo 26 bis del d.P.R. n.600/1973 e dell’articolo 2697 del codice civile. In altri
termini, si contesta l’inquadramento della fattispecie operato dal secondo giudice che non ha ritenuto rilevanti gli elementi indicati dall’Ufficio, voi nell’atto impositivo ove erano stati valorizzati gli elementi fattuali per cui il contratto di tesoreria accentrata si era risolto in un diverso contratto dissimulato di sostanziale messa a disposizione di liquidità da parte della controllata italiana a favore della controllante irlandese a fronte del quale l’Ufficio ha individuato con modalità induttiva la redditività media facendo riferimento al tasso Rendistato cioè la media mensile dei rendimenti di un campione di titoli pubblici a tasso fisso pubblicato dalla Banca d’Italia, riprendendo la tassazione quanto non dichiarato dalla controllata italiana e parimenti non trattenuto dalla controllante irlandese.
Con il terzo motivo, erroneamente qualificato come secondo, si prospetta censura ex articolo 360 n. 4 c pc nuovamente per motivazione apparente, lamentandosi il carattere apodittico dell’argomentazione seguita dal collegio di seconde cure che risulterebbe incomprensibile.
I motivi primo e terzo possono essere trattati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione e sono infondati. Dalla lettura della gravata sentenza emerge, pur non sempre con limpidezza, il percorso argomentativo che sorregge la decisione del collegio di merito. Deve premettersi che è ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale (Cass. VI- 5, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. In tali casi la sentenza resta sprovvista in concreto del c.d. “minimo costituzionale” di cui alla nota pronuncia
delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U, n. 8053/2014, seguita da Cass. VI – 5, n. 5209/2018). In termini si veda anche quanto stabilito in altro caso (Cass. Sez. L, Sentenza n. 161 del 08/01/2009) nel quale questa Corte ha ritenuto che la sentenza è nulla ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., ove risulti del tutto priva dell’esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (cfr. Cass V, n. 24313/2018).
Peraltro, la motivazione per relationem “è legittima soltanto nel caso in cui a) si riferisca ad una sentenza che abbia già valore di giudicato tra le parti b) ovvero riproduca la motivazione di riferimento, autonomamente ed autosufficientemente recepita e vagliata nel contesto della motivazione condizionata” (Cass., S.U. n.14815/2008). Inoltre, si è affermato che, nel processo tributario, la motivazione di una sentenza può essere redatta “per relationem” rispetto ad altra sentenza non ancora passata in giudicato, purché resti “autosufficiente”, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa, anche se connessa, causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico – giuridica. La sentenza è, invece, nulla, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., qualora si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, pertanto, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. VI -5, n. 107/2015; n. 5209/2018; n. 17403/2018; n. 21978/2018). Deve, poi, considerarsi nulla la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli
elementi di prova e dei motivi di appello (Cass. VI -5, n. 22022/2017).
Giudice del fatto processuale, questa Corte ritiene che la sentenza in esame superi il minimo costituzionale cui fa riferimento la citata sentenza S.U. n. 8054/2014 e risultino autonomamente vagliate le ragioni della sentenza di primo grado cui rinvia.
Nello specifico, parte narrativa e parte motiva della sentenza si sorreggono vicendevolmente, costituendo un unicum che, nella sua interezza, dà conto delle ragioni che hanno condotto ad una determinata conclusione.
I motivi primo e terzo sono dunque infondati e non possono trovare accoglimento.
Con il secondo motivo si lamenta invece la violazione delle norme attinenti alla esenzione delle imposte sui redditi per i non residenti nonché al sistema delle presunzioni. Ed infatti, il contratto in esame non potrebbe essere considerato una forma di tesoreria accentrata, dovendosi considerare gli elementi precipui cioè la circostanza che i trasferimenti attivi e passivi non avvenivano a fine giornata, ma con cadenza più ampia, nonché la circostanza che solo le somme in eccedenza sono state versate dalla italiana alla irlandese, che mai l’italiana ha fatto ricorso al credito presso l’irlandese, che anzi ha sempre trattenuto presso di sé determinate somme liquide per poter operare in autonomia. Un tanto è incompatibile con la struttura della tesoreria unica centralizzata, tesa ad armonizzare i flussi finanziari infragruppo, e si sostanzia in un vero e proprio contratto di messa a disposizione della liquidità eccedente il fabbisogno di cassa della partecipata italiana a favore della controllante irlandese, a fronte del quale avrebbe dovuto essere fissato un onere di remunerazione che l’Ufficio ha calcolato induttivamente facendo riferimento alla redditività media dei titoli a tasso fisso pubblicato dalla Banca d’Italia.
Occorre muovere dal penultimo capoverso della motivazione della gravata sentenza ove si afferma non esserci stata contestazione da parte dell’Ufficio in ordine all’inattendibilità del riferimento al citato indice Rendistato. All’opposto, l’appello erariale è stato diretto avverso la sentenza nella sua integrità, involgendo ogni aspetto e, quindi, riproponendo in modo critico avverso i capi di sentenza le ragioni della parte pubblica, tra cui il procedimento di calcolo medio della redditività delle somme prestate dall’italiana all’irlandese, secondo il contratto dissimulato di vero e proprio finanziamento intragruppo, una volta riqualificatolo in luogo del simulato contratto di tesoreria unica, secondo gli elementi indiziari di cui all’art. 1362 del codice civile che danno prevalenza alla sostanza sulla forma, con particolare riguardo al comportamento delle parti successivamente alla stipula.
Sul punto è intervenuta questa Corte, con orientamento costante negli ultimi anni, da cui non si rinvengono qui ragioni per discostarsene. Ed infatti, la tenuta della cassa comune tra due o più imprese (cd.cash pooling ) -secondo la giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di trattare dell’argomento (v. Cass.14730 del 23 giugno 2009; conf., seppur in diverso contesto, Cass. n.7215/2015 e Cass.n.14759/2015)- « quali che siano le modalità di tenuta, adempie all’evidente funzione di escludere o limitare all’accesso al credito bancario, finanziando l’impresa partecipante alla cassa comune con gli attivi di cassa dell’altra o delle altre imprese».
L’istituto ha trovato riconoscimento anche nei principi contabili nazionali (0IC14) e, a certe rigorosissime condizioni, anche nella giurisprudenza penale (v. Cass.Pen. n.34457/2018) ed è ricondotto, dalla dottrina maggioritaria, alla figura del contratto atipico, ai sensi dell’art. 1322 c.c., a causa mista, differenziandosi, attraverso l’analisi delle prassi aziendali, il cd. “national cash pooling” (generante interessi attivi a carico della capogruppo/
tesoriere e a favore delle partecipate/gestite) dal cd.” zero balance cash pooling”(il quale azzera le partite di dare – avere e genera, in alcune ipotesi al massimo un aggio a favore della capogruppo e a carico delle partecipate per il servizio di tesoreria svolto) (cfr. Cass. V, n. 20332/2019).
Inquadrata così la fattispecie nei suoi tratti essenziali, occorre ricordare che nel caso che ci occupa, peraltro, non si controverte di esenzione o meno, quanto di un contratto che non è teso ad organizzare una tesoreria centralizzata intragruppo, bensì ad un contratto di finanziamento, con proventi esteri che, peraltro, sono stati regolarmente iscritti nel bilancio della società italiana, come si evince dallo stesso atto impositivo.
La censura di violazione dell’art. 2697 del codice civile non si sostanzia quindi in una richiesta di nuova valutazione del compendio probatorio offerto dalle parti per giungere ad una conclusione diversa da quella della CTR, doglianza inammissibile avanti questa suprema Corte di legittimità, quanto piuttosto la violazione del riparto dell’onere della prova, poiché gli indizi offerti dall’Ufficio in ordine alla simulazione contrattuale non si sono tradotti in inversione dell’onere con prova contraria a carico della parte contribuente.
Seppure l’esegesi del contratto, anche e soprattutto tenendo conto del comportamento successivo delle parti, propende per una qualificazione di finanziamento infragruppo, non di meno gli elementi offerti dalla parte pubblica si riducono ad una diversa sussunzione normativa, priva però del carattere elusivo e neppure regolata da un indice di redditività antieconomico che giustifichi il disattenderlo per sostituirlo con un altro indice -quello del RendiStato- che non è omogeneo, né comparabile con il tipo di contratto sostanziale ricostruito dalla stessa parte pubblica.
Il tema, dunque, è quello del ” trasfer pricing ‘ finanziario internazionale (articoli 9 e 110 TUIR, peraltro mai evocati in corso
di giudizio) ed in applicazione del criterio di riparto dell’onere della prova, in caso di finanziamento infragruppo è il fisco nazionale a dover fornire la prova della transazione ad un tasso d’interesse (apparentemente) inferiore a quello “normale”, quale presupposto della ripresa a tassazione degli interessi attivi sul finanziamento, quantificati però in base al tasso di interesse di mercato (osservabile in relazione a finanziamenti aventi caratteristiche sufficientemente comparabili, erogabili a soggetti aventi il medesimo “credit rating” dell’impresa debitrice associata), la cui determinazione è “quaestio facti” demandata al giudice di merito; dopodiché spetta alla società contribuente fornire la prova contraria, dimostrando l’aderenza del tasso di interesse applicato ai tassi del mercato di riferimento, nel senso che identica transazione tra imprese indipendenti operanti nel libero mercato sarebbe avvenuta alle stesse condizioni finanziarie, tenuto di anche di eventuali “ragioni commerciali” interne al gruppo (Cfr. Cass. V, n.13850/2021). Se così è, RAGIONE_SOCIALE non ha attinenza con finanziamenti aventi caratteristiche sufficientemente comparabili e la “quaestio facti’ sembra essere stata risolta dal giudice di merito, rispetto ad un parametro (EURIBOR +/0,50% di aggio) tutt’altro che inconsueto.
Ne consegue che gli elementi offerti dal Fisco non assurgono ad indizi gravi precisi e concordanti, tali da far scattare l’inversione dell’onere probatorio in capo alla parte privata, sicché non appare violato l’art. 2697 c.c. invocato dal mezzo qui in scrutinio.
Anche il secondo motivo è dunque infondato ed il ricorso dev’essere rigettato.
Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello
Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in €. cinquemila/00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in €. 200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 30/11/2023.