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Fatture soggettivamente inesistenti: onere prova

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20710/2024, ha stabilito che in caso di fatture soggettivamente inesistenti, spetta al contribuente l’onere di provare la reale effettività e inerenza dei costi per poterli dedurre. La Corte ha inoltre confermato che per la detrazione dell’IVA, il contribuente deve dimostrare la propria buona fede, superando la presunzione contraria derivante dall’uso di tali fatture.

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Pubblicato il 7 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Fatture Soggettivamente Inesistenti: la Cassazione sull’Onere della Prova

La gestione delle fatture soggettivamente inesistenti rappresenta una delle aree più complesse e rischiose del diritto tributario. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 20710 del 25 luglio 2024, offre chiarimenti cruciali sull’onere della prova che grava sul contribuente sia per la deducibilità dei costi sia per la detrazione dell’IVA. Questa decisione ribadisce principi fondamentali e fornisce una guida preziosa per le imprese che si trovano a fronteggiare contestazioni da parte dell’Amministrazione Finanziaria.

Il Fatto: la Contestazione per Fatture False

Una società operante nel settore della plastica si è vista notificare diversi avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione IRES, IRAP e IVA per tre anni d’imposta. La contestazione si basava sull’utilizzo di fatture per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. In pratica, l’Agenzia sosteneva che, sebbene le operazioni commerciali potessero essere state effettivamente eseguite, i fornitori indicati nelle fatture erano fittizi (le cosiddette “cartiere”), interposti per finalità elusive o fraudolente.

L’Iter Giudiziario nei Gradi di Merito

In primo grado, la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva parzialmente il ricorso della società, ritenendo deducibili i costi ma confermando l’indetraibilità dell’IVA. Entrambe le parti, insoddisfatte, proponevano appello.

La Commissione Tributaria Regionale, con una mossa inusuale, decideva i due appelli separatamente ma nella stessa data, pronunciando due sentenze distinte: con la prima, accoglieva l’appello dell’Agenzia, negando la deducibilità dei costi; con la seconda, rigettava l’appello della società, confermando l’indetraibilità dell’IVA. Secondo i giudici d’appello, il contribuente non aveva fornito la prova necessaria a superare la presunzione di indeducibilità dei costi derivanti da tali fatture.

L’Onere della Prova sulle Fatture Soggettivamente Inesistenti

La società, ormai dichiarata fallita, ha portato il caso dinanzi alla Corte di Cassazione, sollevando diverse questioni procedurali e di merito. La Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire i principi che regolano la materia delle fatture soggettivamente inesistenti.

Il punto centrale della controversia riguardava la ripartizione dell’onere della prova. La legge (art. 14, comma 4-bis, della L. 537/1993) ammette la deducibilità dei costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti, a condizione che tali costi siano stati effettivamente sostenuti. Tuttavia, la Cassazione chiarisce che questa norma non concede un’automatica deducibilità. L’Amministrazione Finanziaria, contestando l’uso di fatture emesse da “cartiere”, implicitamente contesta anche l’inerenza di tali costi all’attività d’impresa, poiché potrebbero celare “finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’impresa”.

Di conseguenza, l’onere di provare che i costi sono stati realmente sostenuti, che sono certi e, soprattutto, che sono inerenti all’attività aziendale, ricade interamente sul contribuente. Non è sufficiente dimostrare di aver pagato la fattura; è necessario provare che l’operazione sottostante è reale e funzionale al business.

La Questione della Detrazione IVA e della Buona Fede

Per quanto riguarda la detrazione dell’IVA, il discorso è diverso e si incentra sulla buona fede del cessionario (l’acquirente). Il fallimento sosteneva che spettasse all’Agenzia delle Entrate provare, anche tramite indizi, l’assenza di buona fede del contribuente. Solo dopo tale prova, l’onere si sarebbe spostato sulla società per dimostrare il contrario.

La Cassazione ha giudicato inammissibile questo motivo, non per un errore nel principio, ma perché la censura mirava a una rivalutazione dei fatti già accertati dal giudice di merito. La Corte Regionale aveva infatti già concluso che, nel caso di specie, non si potesse “nemmeno fare accenno” alla buona fede del contribuente, chiudendo di fatto la questione. La Suprema Corte ha quindi confermato che, una volta che il giudice di merito ha accertato l’assenza di buona fede sulla base delle prove, tale valutazione non può essere rimessa in discussione in sede di legittimità.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi della società fallita basandosi su argomentazioni solide. In primo luogo, ha respinto le eccezioni procedurali relative alla mancata riunione degli appelli, considerandola irrilevante dato che le cause sono state trattate congiuntamente dallo stesso collegio. In secondo luogo, ha chiarito in modo definitivo la ripartizione dell’onere probatorio. Se l’Amministrazione Finanziaria fornisce elementi che indicano l’uso di fatture soggettivamente inesistenti emesse da società fittizie, la presunzione di non inerenza dei costi si attiva. Spetta al contribuente, e non all’Agenzia, fornire una prova rigorosa della realtà, effettività e inerenza dei costi sostenuti. Infine, per l’IVA, la Corte ha sottolineato che la valutazione sulla buona fede del contribuente è una questione di fatto, la cui decisione spetta al giudice di merito e non è sindacabile in Cassazione se adeguatamente motivata.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso: di fronte a contestazioni per fatture soggettivamente inesistenti, il contribuente non può adottare una difesa passiva. Per dedurre i costi, deve assumere un ruolo attivo, dimostrando con prove concrete che le operazioni sono reali e strettamente collegate alla propria attività. Per detrarre l’IVA, deve essere in grado di provare di aver agito con la massima diligenza e in totale buona fede, un compito che diventa arduo quando emergono indizi di frode nella catena di fornitura. La decisione serve da monito per tutte le imprese sull’importanza di verificare l’affidabilità dei propri partner commerciali.

I costi derivanti da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili?
Sì, i costi sono potenzialmente deducibili, ma a condizione che il contribuente fornisca la prova rigorosa che siano stati effettivamente sostenuti e che siano inerenti all’attività d’impresa, superando la presunzione contraria sollevata dall’Amministrazione Finanziaria.

Su chi ricade l’onere della prova per la deducibilità dei costi in questi casi?
L’onere della prova ricade interamente sul contribuente. Una volta che l’Agenzia delle Entrate contesta l’operazione come soggettivamente inesistente, spetta al contribuente dimostrare la realtà, la certezza e l’inerenza dei costi.

Cosa deve dimostrare il contribuente per poter detrarre l’IVA relativa a fatture soggettivamente inesistenti?
Per detrarre l’IVA, il contribuente deve dimostrare la propria buona fede, ossia di non essere stato a conoscenza, o di non aver potuto essere a conoscenza usando l’ordinaria diligenza, del carattere fraudolento dell’operazione e del fatto che il fornitore indicato in fattura era fittizio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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