Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 23247 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 23247 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 977/2021 R.G. proposto da : COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOMECODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE ANCONA, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE delle MARCHE n. 431/2020 depositata il 20/07/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11/07/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Commissione tributaria regionale delle Marche ( hinc: CTR), con la sentenza n. 431/2020 depositata in data 20/07/2020, ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la sentenza n. 133/2013, con cui la Commissione tributaria provinciale di Ancona aveva, a sua volta, accolto il ricorso proposto dal contribuente contro un avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 200 3, con il quale era stata contestata la deducibilità di una quota delle spese di sponsorizzazione sostenute dall’impresa individuale del sig. NOME COGNOME ( hinc: contribuente), in quanto riconducibili a fatture relative a operazioni parzialmente inesistenti nell’ambito di un meccanismo fraudolento riconducibile al sig. COGNOME In particolare, era emerso che la società RAGIONE_SOCIALE avesse emesso fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti per un ammontare pari al 75-85%.
La CTR ha ritenuto che:
-in merito all’accezione relativa alla mancata applicazione del favor rei, l’Agenzia delle Entrate aveva applicato, in realtà, la sanzione seguendo tale principio, secondo quanto previsto all’art. 12, commi 1 e 2, d.lgs. n. 472 del 1997;
-l’eccezione di carenza di motivazione era destituita di fondamento, come dimostrato dalle difese articolate dal contribuente e dal fatto che l’avviso di accertamento contenesse, comunque, tutti gli elementi per individuare quale criterio avesse seguito
l’amministrazione nell’adottare un determinato tipo di provvedimento;
-con riferimento all’onere della prova risultava che le operazioni erano state compiute da una società RAGIONE_SOCIALE (RAGIONE_SOCIALE con il contribuente, senza che avesse rilievo la corretta tenuta della contabilità da parte del contribuente;
era applicabile al caso di specie la disciplina del raddoppio dei termini ex art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972, inseriti dal d.l. n. 223 del 2006, in relazione alle violazioni che comportassero l’obbligo di de nuncia ex art. 331 c.p.p. Tale disciplina era, peraltro, esente da vizi di illegittimità costituzionale, secondo quanto evidenziato da C. cost. n. 247 del 2011 (che pure aveva sottolineato la necessità di valutare l’eventuale uso strumentale dell’istituto) . In ogni caso, il sindacato del giudice tributario si limita alla verifica se i fatti oggetto di contestazione rientrino o meno tra quelli di rilevanza penale. Tale verifica nel caso concreto ha avuto esito positivo, trattandosi di ipotesi di reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000. Di conseguenza, è infondata l’eccezione di decadenza, considerato anche che per il raddoppio dei termini è sufficiente l’obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p., indipendentemente dal momento in cui sorge e dal suo adempimento. Ha richiamato, quindi, i contenuti di C. cost. n. 247 del 2011, al fine di evidenziare che non è necessario un accertamento penale definitivo, trattandosi di interpretazione che contrasta con il regime del cd. doppio binario tra giudizio penale e pro cesso tributario di cui all’art. 20 d.lgs. n. 74 del 2000. È pertanto il giudice tributario a valutare -se richiesto con i motivi di impugnazione -la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo una valutazione « ora per allora » (cd. prognosi postuma), accertando se l’amministrazione abbia agito con
imparzialità o abbia fatto un uso strumentale delle disposizioni che consentono il raddoppio dei termini per la notificazione dell’avviso di accertamento. È poi onere dell’amministrazione finanziaria, in caso di contestazioni da parte del contribuente giustificare il più ampio potere accertativo attribuito dall’art. 57, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972, fermo restando che il riscontro da parte del giudice tributario è limitato alla verifica dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale. La CTR ha, infine, evidenziato che, nel caso di specie, non trova applicazione la diversa disciplina del raddoppio dei termini ad opera del d.lgs. n. 128 del 2015, così come non può trovare applicazione, in via irretroattiva, l’art. 1, comma 132, legge n. 208 del 2015. A tal fine la CTR richiama il principio cd. tempus regit actum , evidenziando che l’ordinamento non conosce ipotesi di nullità sopravvenuta.
Contro la sentenza della CTR il contribuente ha proposto ricorso in cassazione con quattro motivi.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
…
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è stata denunciata, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. , l’errata applicazione da parte dell’Ufficio della sanzione prevista dall’art. 9, comma 1, d.lgs. 18/12/1997, n. 471 per tenuta della contabilità non conforme alle prescrizioni di legge.
1.1. Con tale motivo il ricorrente rileva che l’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 sanziona in maniera specifica solo chi non tiene o non conserva, secondo le prescrizioni di legge le scritture contabili. Evidenzia che tale disposizione non può trovare applicazione nel caso in esame, dove non è stata fatta alcuna censura in ordine alla corretta tenuta della contabilità.
Ha poi invocato l’applicazione del primo periodo del terzo comma dell’art. 9 cit. , rilevando che quando si parla di «ostacolo all’accertamento delle imposte» si tratta di ostacoli concretamente esistenti: le irregolarità riscontrate nei libri e nei registri o ai documenti mancanti non devono aver causato ostacolo all’accertamento delle imposte dovute, per come si è concretamente sviluppato. Diversamente, non è sanzionabile il teorico e astratto ostacolo all’accertamento.
1.2. Il motivo è infondato. L’art. 9 d.lgs. n. 471 del 1997 sanziona, infatti, la condotta di chi non tiene o non conserva secondo le prescrizioni le scritture contabili, i documenti e i registri previsti dalle leggi in materia di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto ovvero i libri, i documenti e i registri, la tenuta e la conservazione dei quali è imposta da altre disposizioni della legge tributaria. La disposizione sanziona, quindi, non solo la condotta omissiva di chi non tiene affatto le scritture contabili, ma anche quella di chi non le tiene e le conserva secondo le prescrizioni di legge . Deve, quindi, ritenersi che rientri nell’ambito di applicazione della norma la registrazione nella contabilità di fatture emesse per operazioni oggettivamente inesistenti.
1.3. Non può, inoltre, ritenersi che tale condotta integri un’irregolarità di scarsa irrilevanza, ai fini della riduzione della sanzione fino alla metà, ai sensi dell’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 471 del 1997, dal momento che rappresentare come effettivamente avvenuta un’operazione, in tutto o in parte, inesistente è condotta idonea ad ostacolare l’accertamento di quanto dovuto. Difatti, la fittizietà dell’operazione viene occultata dall’apparenza di una fattura contabilizzata e da pagamenti tracciabili.
Con il secondo motivo è stata denunciata, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione delle disposizioni di cui
all’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 e art. 56 d.P.R. n. 633 del 1972 e degli artt. 7, comma 1, e 10, commi 1, 12, comma 7, legge 27/07/2000, n. 212.
2.1. Con tale motivo di ricorso il contribuente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che: « l’eccezione relativa alla carenza di motivazione è destituita del benché minimo fondamento» in quanto « il requisito motivazionale dell’accertamento esige oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi e oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa …»
Rileva come l’atto impositivo si limiti a rinviare all’attività accertativa della Guardia di Finanza relativa ad altre due società presuntivamente coinvolte in un meccanismo di fatturazione inesistente, operando sostanzialmente per analogia, senza addure alcuna prova della partecipazione del contribuente. Tali eccezioni non solo sono state recepite dal giudice di primo grado, ma anche dal giudice penale, che ha acclarato la totale estraneità del contribuente alla fattispecie criminosa che gli è stata addebitata.
2.2. Ulteriori perplessità sono, poi, suscitate dall’affermazione secondo cui il ricorrente ha dimostrato di conoscere le richieste avanzate dall’Agenzia delle Entrate, argomentando in maniera approfondita il ricorso introduttivo.
2.3. Nel caso di specie gli organi istruttori hanno formulato l’ipotesi di un meccanismo di fatturazione inesistente messo in atto da altri soggetti giuridici che nella molteplicità delle operazioni e dei rapporti perfezionati annoverano anche la ditta del contribuente. Tale elemento, in assenza di ulteriori prove dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, non può integrare le contestazioni di una maggior pretesa impositiva. Tanto più che lo stesso legale rappresentante di una delle società indiziate del meccanismo
fraudolento ha affermato che soltanto alcuni dei soggetti fornitori erano coinvolti nel meccanismo criminoso e che solo alcune fatture erano sovradimensionate, al fine di garantire il successivo rimborso in contanti. La correttezza della fatturazione è corroborata dal pagamento mediante bonifico e da molteplici prove documentali. Per chi opera a distanza pagamenti tramite bonifico bancario non può quindi trovare attuazione il meccanismo fraudolento di falsa fatturazione seguita dalla restituzione in contanti. Il Nucleo di Polizia Tributaria di Forlì aveva, infatti, evidenziato come dagli estratti conto di RAGIONE_SOCIALE emergesse un sistematico prelievo in denaro in prossimità delle date immediatamente successive o antecedenti al versamento degli assegni e che tali prelievi fossero da ricondurre alla probabile restituzione del denaro in contanti a chi aveva emesso l’assegno circolare. Nella motivazione dell’avviso di accertamento si legge che le ditte sponsorizzatrici avrebbero ricevuto dei ristorni in contanti dal sig. COGNOME a fronte delle presunte sovrafatturazioni relative alla cessione di spazi pubblicitari concessi per importi esorbitanti rispetto ai valori reali. In realtà, non c’è una regola fissa per vendere gli spazi di pubblicità sulle auto o sulle moto da corsa. La regola per il mondo delle sponsorizzazioni sportive è una sola ed è quella della domanda e dell’offerta. Non è, quindi, possibile fissare parametri precisi o prezzari di riferimento. A tal fine il ricorrente, a pag. 16-17 del ricorso in cassazione, fa una serie di considerazioni sulle sponsorizzazioni sportive e sulle modalità di determinazione dei relativi costi.
2.4. Il motivo di ricorso è inammissibile, in quanto la parte ricorrente -nel censurare la violazione dell’obbligo di motivazione dell’atto impositivo impugnato – confonde, impropriamente, il piano dell’allegazione con quello della prova.
Sotto il primo profilo occorre evidenziare che l’amministrazione finanziaria, attraverso la motivazione dell’avviso di accertamento, soddisfa l’onere di allegazione circa gli elementi costitutivi della pretesa tributaria, mettendo il contribuente in grado di conoscerne gli elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l’ an e il quantum debeatur (Cass., 04/02/2000, n. 1209). La sentenza impugnata (v. punto 2) è conforme, quindi, alla giurisprudenza di questa Corte, in ordine ai requisiti motivazionali che caratterizzano l’avviso di accertamento.
In merito al secondo profilo la CTR distingue, poi, correttamente -rispetto all’obbligo di motivazione -l’onere della prova, rilevando (v. punto 3) che: « le operazioni poste in essere si sono tradotte in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale è fuori di dubbio ed è stata provata dall’Erario in presenza di una società cartiera (RAGIONE_SOCIALE, con sede a Rimini, risultata chiusa e con insegna diversa (Matis); che non esistono utenze telefoniche od altro. Avendo appurato che la RAGIONE_SOCIALE è una società cartiera, è assai strano che il RAGIONE_SOCIALE non fosse a conoscenza dei fatti contestati.» Ha poi rilevato (punto 4) che non ci sono dubbi circa l’esistenza di rapporti commerciali del contribuente con una società inesistente e che: « anche la eventuale correttezza formale della contabilità, non può rappresentare un alibi per intrecciare rapporti al fine di violare le leggi fiscali, con l’utilizzo di fatture fittizie o parzialmente fittizie, come deliberatamente dichiarato da una delle parti.»
La sentenza impugnata ha, quindi, distinto correttamente tra la motivazione del provvedimento impositivo e l’onere della prova assolto dall’amministrazione finanziaria. Diversamente, il contribuente pretende di riferire censure inerenti alla valutazione del materiale probatorio -peraltro inammissibili davanti al giudice di
legittimità (Cass., 23/09/2024, n. 25458) -ad asserite lacune motivazionali dell’atto impositivo impugnato, che, invece, secondo l’apprezzamento del giudice di merito esprimeva compiutamente la pretesa impositiva, consentendo al contribuente di articolare le proprie difese.
Con il terzo motivo è stata denunciata, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione del previgente art. 43, terzo comma, d.P.R. n. 29/09/1973, n. 600, e 57, terzo comma, d.P.R. 26/10/1972, n. 633.
3.1. Con tale motivo la sentenza impugnata è stata censurata nella parte in cui ritiene corretta l’applicazione della disciplina sul raddoppio dei termini. Nel caso di specie la totale estraneità del contribuente al presunto evento criminoso risulta confermata dall’accertamento compiuto in ambito penale. Richiama, poi, C. cost. n. 247 del 2011, per evidenziare la strumentalità dell’azione amministrativa, considerato che non è mai stata oggettivamente provata la falsità delle operazioni commerciali sottesa alla falsa fatturazione, dovendosi considerare, a tal fine, anche le molteplici prove, testimonianze e documenti forniti dal contribuente, con particolare riferimento:
-all’uso esclusivo del bonifico bancario a titolo di pagamento e l’assenza di prova circa eventuali restituzioni;
alla cadenze temporali dei prelievi operati da RAGIONE_SOCIALE;
alla mancanza di conoscenza tra le parti (indispensabile per attuare il meccanismo fraudolento);
-alla presenza di un rapporto esclusivamente commerciale, perfezionato via mail;
-alle testimonianze rilasciate dall’amministra tore di RAGIONE_SOCIALE in ordine al fatto che non tutto il fatturato riguardava operazioni
oggettivamente inesistenti e che solo ai clienti che pagavano tramite assegno veniva operata una sovrafatturazione;
alle dichiarazioni del sig. COGNOME NOME della Scuderia Città di Fabriano, quale esclusivo intermediario tra RAGIONE_SOCIALE e il contribuente;
al l’assenza di clausole cautelative nelle modalità di pagamento che avrebbero escluso il pagamento in unica soluzione tramite bonifico bancario, richiedendo, piuttosto, versamenti frazionati;
alle prove concrete circa la sponsorizzazione, concretizzatasi nell’apposizione del logo della ditta del contribuente sulla stampa specializzata, sui canali televisivi preposti, secondo quanto documentato da supporti DVD e da materiale fotografico.
3.2. Il motivo è infondato: con riferimento alla disciplina del raddoppio dei termini contenuta negli artt. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973 e nell’art. 57, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972 (nella formulazione applicabile, ratione temporis al caso di specie) è necessario unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., 30/05/2016, n. 11171). Proprio con riferimento alla pronuncia del giudice costituzionale occorre richiamare la parte in cui viene precisato che: « Quanto all’asserita arbitrarietà, infatti, il raddoppio non consegue da una valutazione discrezionale e meramente soggettiva degli uffici tributari, ma opera soltanto nel caso in cui siano obiettivamente riscontrabili, da parte di un pubblico ufficiale, gli elementi richiesti dall’art. 331 cod. proc. pen. per l’insorgenza dell’obbligo di denuncia penale. Per costante giurisprudenza della Corte di cassazione, tale obbligo sussiste quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause
di estinzione o di non punibilità, che possono essere valutate solo dall’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita (ex plurimis, sentenze della Cassazione penale n. 27508 del 2009; n. 26081 e n. 15400 del 2008; n. 1244 del 1985; n. 6876 del 1980; n. 14195 del 1978). Va, inoltre, sottolineato al riguardo che il pubblico ufficiale -allorché abbia acquisito la notitia criminis nell’esercizio od a causa delle sue funzioni -non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, ma deve inoltrarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 cod. pen. per il caso di omissione o ritardo nella denuncia.
Quanto all’asserita incontrollabilità dell’apprezzamento degli uffici tributari circa la sussistenza del reato, va obiettato che -contrariamente a quanto affermato dal rimettente -il sistema processuale tributario consente, invece, il controllo giudiziario della legittimità di tale apprezzamento. Il giudice tributario, infatti, dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosidde tta ‘prognosi postuma’) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un piú ampio termine di accertamento. È opportuno precisare che: a) in presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare detti presupposti è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo attribuitole dal censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972; b) il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei
presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato; c) gli eventuali limiti probatori propri del processo tributario hanno, pertanto, una ridotta incidenza nella specie e, comunque, non costituiscono oggetto delle sollevate questioni. » (C. cost. n. 247 del 2011, cit. , considerato 5.3).
L’ufficio finanziario non può, quindi, compiere valutazioni inerenti alla rilevanza penale della condotta tenuta dal contribuente, poiché obbligato a trasmettere la notitia criminis, in presenza degli elementi del reato da denunciare. Tale conclusione non può essere scalfita neppure da quanto riportato dal ricorrente (v. pag. 4 e 9 del ricorso in cassazione) in merito alla sentenza assolutoria emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Ancona- Sezione GIP (per la quale non viene fatto alcun cenno in ordine al passaggio in giudicato).
Di conseguenza, anche gli elementi indicati dalla parte ricorrente (a pag. 20-21) come idonei a escludere una sua responsabilità penale non dovevano essere oggetto di valutazione da parte del giudice tributario (quasi a duplicare l’accertamento svolto in sede penale) . Quest’ultimo, infatti, alla luce di quanto precisato da C. cost. n. 247 del 2011, è tenuto solamente al riscontro formale ed estrinseco de ll’obbligo di denuncia ex art. 331 cod. proc. pen. e de ll’assenza di arbitrarietà della condotta dell’amministrazione finanziaria. Il che è puntualmente avvenuto nel caso in esame, posto che il giudice d’appello ha riscontrat o non solo la sussistenza del fumus, ma anche ‘la fondatezza nel merito dell’addebito tributario, integrante anche illecito penale’.
3.3 . Deve, infine, darsi atto dell’inammissibilità della questione sollevata a pag. 22 del ricorso in cassazione (nella parte finale relativa all’illustrazione del terzo motivo di ricorso) relativa alla nullità dell’avviso di accertamento impugnato per violazione dell’art. 33, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, in ragione del fatto che il
rilascio del l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria idonea a legittimare l’uso in sede tributaria dei documenti, risulta solamente menzionato con un generico richiamo a un non meglio allegato al Processo Verbale di Constatazione.
Sul punto occorre rilevare che non solo la parte ricorrente non indica se e quando abbia sollevato tale questione nei precedenti gradi di giudizio, ma la pretesa nullità dell’avviso di accertamento per violazione dell’art. 33, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973 non risulta neppure riscontrabile tra le censure proposte davanti al giudice di prime cure, menzionate a pag. 4 del ricorso in cassazione, né tra le argomentazioni prospettate alla CTR nelle controdeduzioni presentate davanti a quest’ultima (v. pag. 6 ss. ricorso in cassazione). E comunque la questione è infondata, posto che, in tema di accertamento delle imposte, l’utilizzazione della documentazione acquisita nel corso delle attività di polizia tributaria non è subordinata all’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, in quanto tale atto è posto esclusivamente a tutela del segreto istruttorio, con la conseguenza che, non essendovi, peraltro, alcuna esigenza di tutela dei terzi, la sua mancanza non inficia l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi (v., tra varie, Cass. 14/06/2019, n. 15994).
Con il quarto motivo è stata denunciata, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2697 e 2727 c.c., dell’art. 39, primo comma, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973.
4.1. Con tale motivo di ricorso la sentenza impugnata è stata censurata nella parte in cui afferma che: « le operazioni poste in essere si sono tradotte in operazioni compiute essenzialmente per il
conseguimento di un vantaggio fiscale è fuori dubbio ed è stato provato dall’Erario …».
Tale affermazione non è comprensibile, ad avviso di parte ricorrente, considerata la totale assenza di materiale probatorio credibile e concordante che potesse far presumer il coinvolgimento del contribuente. Le regole che disciplinano la ripartizione dell ‘onere della prova -secondo le quali è l’amministrazione a dover provare i fatti costitutivi della pretesa erariale -non subiscono deroghe nell’ipotesi in cui si controverta in tema di indebita deduzione di costi e di detrazione dell’IVA, in relazione a operazioni ritenute dall’amministrazione finanziaria come oggettivamente inesistenti. La fattura, purché redatta in conformità all’art. 21 d.P.R. n. 633 del 1972, costituisce documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa.
4.2. Il ricorrente, richiamata la disciplina delle presunzioni (che trovano applicazione anche nel processo tributario, v. art. 2727 c.c. e art. 39, primo comma, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973), ha rilevato che nel caso di specie l’avviso di accertamento non è fondato su riscontri oggettivi sufficienti a giustificarlo, non essendo stata prodotta dall’ufficio alcuna documentazione idonea a dimostrare la rettifica operata. Difatti, l’amministrazione finanziaria sostiene che le fatture di sponsorizzazione ricevute dal ricorrente sarebbero sovradimensionate in parte, senza spiegare alcunché. Tanto più che le indagini della Guardia di Finanza di Forlì non solo non hanno individuato né l’ an né il quantum della sovrafatturazione nei confronti del contribuente, ma non hanno neppure individuato i propri clienti.
La carenza argomentativa dell’avviso di accertamento consiste nell’aver sostenuto la parziale inesisten za oggettiva delle operazioni intercorse con la Procom, nonostante l’effettività delle
movimentazioni economiche. Il contribuente non ha usato fatture ricevute per operazioni commerciali totalmente o parzialmente inesistenti e non ha presentato la dichiarazione annuale dei redditi con dati inesatti, avendo, al contrario, indicato correttamente i costi deducibili, tra i quali anche l’importo delle fatture emesse da RAGIONE_SOCIALE in quanto relative a prestazioni effettivamente ricevute e regolari.
4.3. Il motivo è inammissibile, in quanto il vizio relativo alla violazione di legge sottende una richiesta di rivalutazione dei fatti sottratta al sindacato di legittimità. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, precisato che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. U, 27/12/2019, n. 34419).
Alla luce di quanto sin qui evidenziato il ricorso è infondato e deve essere rigettato, con la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.
…
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.400,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 11/07/2025.