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Fatture inesistenti: onere prova e buona fede

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24496/2025, ha chiarito la ripartizione dell’onere della prova in materia di IVA per operazioni soggettivamente inesistenti. Se l’Amministrazione Finanziaria fornisce indizi di frode, spetta al contribuente dimostrare di aver agito con la massima diligenza e in buona fede, non essendo sufficiente la sola regolarità formale delle fatture e dei pagamenti. La Corte ha cassato la sentenza di secondo grado per aver errato nell’applicazione di tale principio.

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Pubblicato il 1 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Onere della Prova e Fatture False: La Cassazione Chiarisce le Regole

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 24496/2025) è tornata a fare luce su un tema cruciale del diritto tributario: la detrazione dell’IVA in presenza di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. La decisione è fondamentale perché chiarisce come si distribuisce l’onere della prova tra l’Amministrazione Finanziaria e il contribuente. In sostanza, quando l’imprenditore deve dimostrare la sua buona fede per non perdere il diritto a detrarre l’imposta?

Il Contesto: Fatture per Operazioni Soggettivamente Inesistenti

Il caso ha origine da un avviso di accertamento notificato a una società cooperativa attiva nel settore delle pulizie. L’Agenzia delle Entrate contestava l’indebita detrazione dell’IVA relativa a fatture emesse da due imprese individuali, ritenute mere ‘cartiere’ o società interposte. Si trattava, secondo il Fisco, di operazioni ‘soggettivamente inesistenti’: le prestazioni erano state forse eseguite, ma non dai soggetti che avevano emesso le fatture.

La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado aveva dato ragione alla società, sostenendo che l’Amministrazione Finanziaria non avesse fornito prove sufficienti sulla consapevolezza del contribuente di partecipare a una frode. La Cassazione, tuttavia, ha ribaltato questa decisione, ritenendola viziata da un’errata applicazione dei principi che regolano l’onere della prova.

L’Onere della Prova secondo la Cassazione

La Suprema Corte ha riaffermato un principio consolidato: in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, la ripartizione dell’onere della prova segue un percorso ben preciso.

Il Ruolo dell’Amministrazione Finanziaria

Inizialmente, spetta all’Amministrazione Finanziaria provare, anche attraverso presunzioni semplici, gravi, precise e concordanti, due elementi fondamentali:

1. L’alterità soggettiva: che il soggetto che ha emesso la fattura non è il reale esecutore della prestazione.
2. La consapevolezza del cessionario: che il contribuente che ha ricevuto la fattura sapeva, o avrebbe dovuto sapere usando l’ordinaria diligenza, di essere parte di un’operazione evasiva.

Per dimostrare questo secondo punto, l’Ufficio può basarsi su ‘elementi sintomatici’ o ‘indizi’, come l’inadeguatezza della struttura del fornitore, la genericità delle descrizioni in fattura o altre anomalie operative.

Il Dovere di Diligenza del Contribuente

Una volta che l’Amministrazione Finanziaria ha fornito questi elementi presuntivi, la palla passa al contribuente. A questo punto, l’onere della prova si inverte: è il contribuente a dover dimostrare la propria buona fede e di aver agito con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto. Non è sufficiente limitarsi a dimostrare la regolarità formale della contabilità o dei pagamenti. È necessario provare di aver adottato tutte le cautele ragionevoli per verificare l’affidabilità e l’effettiva operatività del fornitore.

L’Errore del Giudice di Appello nell’Applicazione dell’Onere della Prova

La Corte di Cassazione ha censurato la sentenza di secondo grado proprio perché non ha seguito questo schema. Il giudice di merito si è limitato ad affermare che le prove dell’Ufficio non erano sufficienti, senza però analizzare concretamente gli indizi forniti e senza valutare se questi fossero tali da far scattare l’obbligo di prova contraria a carico della società.

Gli Indizi Ignorati

Nel caso specifico, l’Amministrazione aveva evidenziato numerosi campanelli d’allarme:
– Descrizioni generiche nelle fatture (‘lavori di facchinaggio’ senza dettagli su personale, orari, ecc.).
– Mancanza di dipendenti e beni strumentali da parte delle imprese fornitrici.
– Mancata indicazione di contatti basilari come email o fax sulle fatture.
– Uno dei fornitori era un evasore totale.

Questi elementi, secondo la Cassazione, avrebbero dovuto essere attentamente valutati dal giudice come indizi della potenziale anomalia dell’operazione, attivando così l’onere della prova in capo al contribuente per dimostrare la sua incolpevolezza.

le motivazioni

La motivazione della Cassazione si fonda sul principio di neutralità dell’IVA e sul dovere di collaborazione del contribuente per prevenire le frodi. Il diritto alla detrazione non è assoluto, ma è condizionato alla regolarità, non solo formale ma anche sostanziale, dell’operazione. Il giudice di appello, non analizzando gli elementi indiziari forniti dall’Amministrazione e non confrontandoli con le prove offerte dal contribuente, ha di fatto alterato le regole di ripartizione dell’onere probatorio. Ha posto a carico del Fisco una prova ‘diabolica’ della consapevolezza del contribuente, ignorando il dovere di quest’ultimo di operare con diligenza professionale. In presenza di indizi che suggeriscono un’irregolarità, l’imprenditore non può rimanere passivo ma deve attivarsi per verificare la controparte, altrimenti rischia di essere considerato complice, anche solo per negligenza, della frode.

le conclusioni

La sentenza rappresenta un importante monito per tutti gli operatori economici. La lotta all’evasione IVA, specialmente quella attuata tramite frodi complesse, richiede un ruolo attivo non solo da parte dello Stato, ma anche degli stessi imprenditori. La buona fede non può essere presunta acriticamente ma va dimostrata con fatti concreti qualora sorgano dubbi legittimi sulla natura di un’operazione commerciale. La scelta dei partner commerciali deve essere oculata e, in presenza di anomalie, è necessario approfondire le verifiche per non incorrere nella perdita del diritto alla detrazione dell’IVA e in sanzioni potenzialmente molto pesanti. La Corte ha quindi cassato la sentenza e rinviato la causa alla Corte di Giustizia Tributaria per un nuovo esame che tenga conto dei principi enunciati.

In caso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, chi deve provare la frode?
Inizialmente, l’onere della prova spetta all’Amministrazione Finanziaria, che deve fornire elementi, anche presuntivi, per dimostrare sia che il fornitore era fittizio, sia che il cliente sapeva o avrebbe dovuto sapere della frode usando l’ordinaria diligenza.

Cosa deve fare il contribuente se l’Amministrazione Finanziaria fornisce indizi di frode?
Se l’Amministrazione fornisce indizi sufficienti, l’onere della prova si sposta sul contribuente. Quest’ultimo deve dimostrare di aver agito in buona fede e con la massima diligenza possibile per un operatore accorto, provando di aver cercato di verificare l’effettiva esistenza e operatività del fornitore.

La regolarità formale delle fatture e dei pagamenti è sufficiente a dimostrare la buona fede?
No. Secondo la Corte, la regolarità contabile e la tracciabilità dei pagamenti non sono, da sole, sufficienti a provare la buona fede se sono presenti altri indizi significativi che suggeriscono un’anomalia nell’operazione. Il contribuente ha un dovere di diligenza che va oltre questi aspetti formali.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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