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Fatture inesistenti: onere della prova e buona fede

Una società concessionaria di auto si è vista contestare la detrazione IVA per l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, nell’ambito di una frode carosello. La Corte di Cassazione ha annullato la decisione di secondo grado, ribadendo che l’Amministrazione Finanziaria può utilizzare elementi indiziari per dimostrare la consapevolezza della frode da parte del contribuente. Una volta fornita tale prova, spetta all’impresa dimostrare di aver agito con la massima diligenza, prova che non può essere soddisfatta dalla sola dimostrazione della congruità dei prezzi di acquisto.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Fatture Inesistenti: la Cassazione definisce l’Onere della Prova

L’ordinanza in esame della Corte di Cassazione affronta un tema cruciale in materia di IVA: le fatture inesistenti per operazioni soggettivamente inesistenti. La Corte interviene per chiarire la ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, specificando quali elementi siano necessari per dimostrare la buona fede dell’acquirente e quali invece non siano sufficienti a escludere il coinvolgimento, anche solo colposo, in una frode fiscale.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda una società operante nel settore del commercio di autoveicoli, alla quale l’Agenzia delle Entrate aveva notificato un avviso di accertamento per l’indebita detrazione dell’IVA relativa all’anno d’imposta 2014. Secondo l’Amministrazione, la società aveva acquistato autoveicoli da un fornitore che fungeva da ‘società filtro’ in una complessa frode carosello. Tale fornitore, a sua volta, acquistava i veicoli da società fittizie interposte, al solo scopo di rivenderli a prezzi inferiori a quelli di mercato, evadendo l’IVA.

La Commissione Tributaria di primo grado aveva respinto il ricorso della società. Tuttavia, la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado aveva accolto l’appello del contribuente, annullando l’accertamento. I giudici di appello avevano ritenuto fondata sia la violazione del principio del contraddittorio preventivo, sia la prova della buona fede della società, la quale aveva dimostrato la congruità dei prezzi di acquisto rispetto ai listini ufficiali e l’assenza di indizi di partecipazione alla frode.

Le contestazioni sulle fatture inesistenti in Cassazione

L’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di Cassazione, basando il proprio ricorso su due motivi principali:

1. Violazione delle norme sul contraddittorio preventivo: L’Agenzia sosteneva che il contraddittorio fosse stato regolarmente esperito, poiché il contribuente aveva presentato le proprie osservazioni dopo la notifica del processo verbale di constatazione (PVC) e l’avviso era stato emesso nel rispetto del termine dilatorio di 60 giorni. Inoltre, la società non aveva fornito la cosiddetta ‘prova di resistenza’, ovvero non aveva dimostrato come un contraddittorio più esteso avrebbe potuto cambiare l’esito dell’accertamento.
2. Violazione delle norme sulla prova presuntiva: L’Agenzia lamentava che i giudici di appello avessero ignorato numerosi e gravi elementi indiziari da essa forniti (falsità di documenti, contatti diretti tra il contribuente e il fornitore estero a monte della catena, ecc.), ritenendo erroneamente raggiunta la prova della buona fede del contribuente sulla sola base della produzione di listini di mercato per un numero limitato di veicoli.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto entrambi i motivi di ricorso dell’Agenzia delle Entrate, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa ad un’altra sezione della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado.

Sull’onere probatorio per le fatture inesistenti

Il cuore della decisione risiede nella riaffermazione dei principi consolidati in materia di fatture inesistenti. La Corte ha ribadito che, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’onere della prova è così ripartito:

Spetta all’Amministrazione Finanziaria provare, anche tramite presunzioni semplici, gravi, precise e concordanti, non solo che il fornitore indicato in fattura non è il reale venditore del bene, ma anche che il cessionario (l’acquirente) era consapevole della frode o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza. Tra gli indizi valorizzabili vi sono la mancanza di una reale struttura operativa del fornitore, l’inidoneità a svolgere l’attività economica, e le anomalie nelle condizioni commerciali.
Spetta al contribuente, una volta che l’Amministrazione ha fornito questi elementi indiziari, fornire la prova contraria. Tale prova consiste nel dimostrare la propria buona fede, ovvero di aver agito con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto per non essere coinvolto nella frode. La semplice regolarità formale della contabilità o dei pagamenti non è sufficiente.

La Corte ha specificato che il giudice di secondo grado ha errato nell’invertire questo onere, non considerando il valore sintomatico dei numerosi elementi portati dall’Amministrazione e ritenendo sufficiente, per provare la buona fede, la mera allegazione di congruità dei prezzi. Un operatore diligente, in presenza di indizi di anomalia, ha un obbligo di verifica che va oltre la semplice analisi del prezzo.

Le conclusioni

Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso in materia di frodi IVA. La decisione sottolinea che la lotta all’evasione fiscale richiede un elevato standard di diligenza da parte degli operatori economici. Non basta fermarsi alle apparenze formali (una fattura regolare, un pagamento tracciabile), ma è necessario, soprattutto in presenza di ‘campanelli d’allarme’, approfondire la reale natura e affidabilità della controparte commerciale. La prova della buona fede, per essere efficace, deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele ragionevolmente esigibili per accertare che l’operazione non si inserisse in un meccanismo fraudolento. La semplice convenienza economica di un’operazione non può mai giustificare un abbassamento del livello di attenzione richiesto.

Quando l’IVA non è detraibile in caso di operazioni soggettivamente inesistenti?
L’IVA non è detraibile, in linea di principio, perché è stata versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa e non obbligato al pagamento dell’imposta. La detrazione è negata quando l’Amministrazione finanziaria prova che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione si inseriva in un’evasione d’imposta.

Come è ripartito l’onere della prova nei casi di fatture inesistenti?
Spetta all’Amministrazione finanziaria provare, anche con presunzioni, che l’operazione è soggettivamente inesistente e che l’acquirente era consapevole o avrebbe dovuto essere consapevole della frode. Una volta fornita questa prova, l’onere si sposta sul contribuente, che deve dimostrare di aver agito in buona fede e con la massima diligenza esigibile per non essere coinvolto.

È sufficiente dimostrare la congruità dei prezzi d’acquisto per provare la propria buona fede?
No. Secondo la Corte, la sola dimostrazione che i prezzi di acquisto erano in linea con quelli di mercato (ad esempio, tramite listini ufficiali) non è sufficiente a provare la buona fede del contribuente, specialmente a fronte di numerosi e gravi indizi di frode forniti dall’Amministrazione finanziaria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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