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Fatture inesistenti: l’onere della prova per l’IVA

In un caso di contestazione per l’uso di fatture inesistenti, la Corte di Cassazione ha chiarito la ripartizione dell’onere della prova. L’Agenzia delle Entrate può dimostrare la frode anche tramite presunzioni. Spetta poi al contribuente provare di aver agito con la massima diligenza e in assenza di consapevolezza della frode, non essendo sufficiente la mera regolarità contabile.

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Pubblicato il 30 agosto 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Fatture Inesistenti: La Cassazione Chiarisce l’Onere della Prova per l’IVA

La detrazione dell’IVA basata su fatture inesistenti è una delle questioni più complesse e rischiose del diritto tributario. Un’impresa che, anche inconsapevolmente, utilizza fatture per operazioni soggettivamente inesistenti rischia pesanti sanzioni. Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione è tornata sul tema cruciale dell’onere probatorio, delineando con precisione i compiti dell’Amministrazione Finanziaria e del contribuente. Vediamo insieme cosa è stato deciso.

I Fatti di Causa

Una società si vedeva notificare due avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate contestava, per due annualità d’imposta, l’indebita detrazione dell’IVA su fatture per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. In aggiunta, veniva contestata l’emissione di fatture per vendite di autovetture in ambito UE di cui non era stata dimostrata l’effettiva esportazione.

La società impugnava gli atti dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, che accoglieva il ricorso annullando gli accertamenti. La decisione veniva confermata anche in appello dalla Commissione Tributaria Regionale. L’Agenzia delle Entrate, non soddisfatta, proponeva ricorso per cassazione, lamentando principalmente due vizi della sentenza di secondo grado: una motivazione solo apparente e, soprattutto, un’errata applicazione dei principi sull’onere della prova in materia di operazioni inesistenti.

La Ripartizione dell’Onere della Prova nelle Fatture Inesistenti

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il primo motivo, relativo alla presunta motivazione apparente, ma ha accolto pienamente il secondo, centrato sulla violazione delle norme in tema di onere probatorio. Secondo la Suprema Corte, il giudice d’appello ha completamente ignorato gli elementi di natura presuntiva forniti dall’Amministrazione Finanziaria, ponendosi in contrasto con i principi consolidati dalla giurisprudenza.

Il principio cardine ribadito è il seguente: in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione Finanziaria ha l’onere di provare, anche tramite presunzioni semplici, gravi, precise e concordanti, non solo la fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario della fattura di essere parte di un’evasione fiscale. Una volta che l’Ufficio ha fornito tali indizi, la palla passa al contribuente.

Il Ruolo del Contribuente

Al contribuente spetta la cosiddetta prova contraria. Egli deve dimostrare di aver agito in totale assenza di consapevolezza di partecipare alla frode e di aver adottato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto. Questa diligenza va valutata in base alle circostanze del caso concreto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha cassato la sentenza impugnata perché il giudice di merito non ha correttamente applicato questo schema probatorio. Invece di valutare gli indizi forniti dall’Agenzia, li ha del tutto obliterati, venendo meno al suo dovere di esaminare il quadro probatorio nel suo complesso. La Cassazione ha ricordato che elementi come la mancanza di una reale struttura operativa o logistica del fornitore sono profili sintomatici della fittizietà delle operazioni.

La decisione sottolinea con forza che la semplice regolarità formale della contabilità o l’avvenuto pagamento delle fatture non sono elementi sufficienti a dimostrare la buona fede del contribuente. L’imprenditore onesto e mediamente esperto, di fronte a indizi che possono far sorgere dubbi sulla genuinità del partner commerciale, ha il dovere di approfondire le verifiche per non essere coinvolto in schemi fraudolenti.

Le Conclusioni

In conclusione, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia, cassando la sentenza e rinviando la causa alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado per un nuovo esame. Questa pronuncia rappresenta un importante monito per tutte le imprese: la lotta all’evasione IVA richiede un ruolo attivo e diligente da parte di tutti gli operatori economici. Non basta registrare una fattura e pagarla; è necessario assicurarsi, con ragionevole diligenza, della reale esistenza e affidabilità dei propri fornitori. Ignorare segnali di anomalia può costare molto caro, trasformando un’operazione apparentemente lecita in una contestazione fiscale con gravi conseguenze economiche.

Chi deve provare che le fatture sono inesistenti in una contestazione fiscale?
L’onere iniziale spetta all’Amministrazione Finanziaria, la quale può adempiervi anche tramite presunzioni e indizi gravi, precisi e concordanti che dimostrino la fittizietà del fornitore e la consapevolezza del destinatario di partecipare a una frode fiscale.

Cosa deve fare un’impresa per difendersi dall’accusa di aver usato fatture inesistenti?
L’impresa deve fornire la prova contraria, dimostrando di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare all’evasione e di aver adoperato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità rispetto alle circostanze del caso.

La regolarità della contabilità e dei pagamenti è sufficiente a provare la buona fede?
No. Secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, la mera regolarità della contabilità e dei pagamenti non è, da sola, sufficiente a dimostrare la buona fede del contribuente o la sua estraneità alla frode.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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