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Fatture false: onere della prova per l’imprenditore

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1795/2025, ha rigettato il ricorso di un’imprenditrice contro un avviso di accertamento per recupero IVA. Il caso riguardava l’utilizzo di fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti. La Corte ha chiarito che, di fronte a solidi indizi di frode presentati dall’Agenzia delle Entrate, l’onere della prova si sposta sul contribuente, che deve dimostrare di aver agito con la massima diligenza per non essere coinvolto. Il ricorso è stato inoltre dichiarato inammissibile per violazione del principio di autosufficienza.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Fatture false: quando l’onere della prova passa all’imprenditore

L’utilizzo di fatture false è una delle pratiche più insidiose nel panorama fiscale, con gravi conseguenze per gli imprenditori che, consapevolmente o meno, ne vengono coinvolti. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 1795/2025) ha ribadito i principi fondamentali che regolano la detrazione dell’IVA in questi casi, ponendo l’accento sulla diligenza richiesta al contribuente e sulla ripartizione dell’onere della prova. Questa decisione offre spunti cruciali per comprendere come difendersi da accuse di frode fiscale e quali cautele adottare nella scelta dei propri partner commerciali.

I fatti di causa: l’accertamento per operazioni inesistenti

Il caso ha origine dal ricorso di un’imprenditrice individuale contro un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate. L’amministrazione finanziaria contestava il recupero dell’IVA per l’anno 2009, sostenendo che la contribuente avesse utilizzato fatture relative a operazioni soggettivamente inesistenti. In altre parole, le transazioni erano state effettuate con fornitori fittizi, interposti allo scopo di generare un credito IVA indebito.

Le indagini dell’Ufficio avevano rivelato gravi anomalie a carico dei fornitori: una ditta risultava cessata prima ancora di emettere le fatture contestate, mentre un’altra società era in liquidazione, con una sede legale fittizia e un amministratore irreperibile. Nonostante questi elementi, la Commissione Tributaria Regionale aveva parzialmente accolto l’appello della contribuente. Di qui il ricorso per cassazione da parte dell’imprenditrice per la riforma totale della sentenza.

I motivi del ricorso in Cassazione

La contribuente ha basato il suo ricorso su due motivi principali:
1. Violazione delle norme sulla motivazione degli atti: Si lamentava che l’avviso di accertamento fosse motivato per relationem, ovvero facendo riferimento a verbali di controllo effettuati presso terzi, senza però allegarli né riprodurne il contenuto essenziale. Ciò avrebbe leso il diritto di difesa.
2. Violazione delle regole sull’onere probatorio: Secondo la ricorrente, la Commissione Tributaria non avrebbe adeguatamente valutato l’elemento soggettivo, ossia la sua buona fede. Si sosteneva che la semplice presunta inesistenza dei fornitori non potesse automaticamente tradursi in una presunzione di malafede a carico del cliente.

L’onere della prova in caso di fatture false

Il cuore della controversia ruota attorno alla ripartizione dell’onere della prova nelle frodi IVA. La Corte di Cassazione ha colto l’occasione per riaffermare un principio consolidato. Spetta all’Amministrazione Finanziaria provare, anche tramite presunzioni, non solo che il fornitore era un soggetto fittizio, ma anche che il destinatario delle fatture era in grado di accorgersene.

Una volta fornita questa prova, la palla passa al contribuente. È quest’ultimo che deve dimostrare di aver agito con la massima diligenza possibile, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, per non essere coinvolto nella frode. La semplice regolarità formale della contabilità o dei pagamenti non è sufficiente a scagionarlo.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendolo in parte inammissibile e in parte infondato.

Sul primo motivo, relativo alla motivazione per relationem, i giudici hanno dichiarato l’inammissibilità per violazione del principio di autosufficienza. La ricorrente si era limitata a criticare l’operato dell’Agenzia senza riprodurre nel ricorso le parti essenziali dell’avviso di accertamento. Ciò ha impedito alla Corte di valutare la fondatezza della censura senza dover accedere ad atti esterni. Inoltre, è stato sottolineato che molti degli indizi (come la cessazione di un’attività) erano facilmente conoscibili tramite la consultazione di pubblici registri, come quello delle imprese.

Sul secondo motivo, la Corte ha ritenuto la decisione dei giudici di merito adeguatamente motivata, seppur sinteticamente. Gli elementi oggettivi emersi (cessazione di un fornitore, sede fittizia dell’altro) erano stati considerati non solo prove della frode, ma anche indizi idonei a mettere sull’avviso un imprenditore mediamente diligente. La motivazione della sentenza impugnata, pur concisa, raggiungeva il “minimo costituzionale” necessario per rendere comprensibile il percorso logico-giuridico seguito. Di conseguenza, la Corte ha stabilito che non spettava al giudice di legittimità riesaminare nel merito gli elementi di prova, ma solo verificare la coerenza logica della decisione.

Conclusioni: le implicazioni pratiche per le imprese

L’ordinanza in commento offre un importante monito per tutti gli operatori economici. La scelta dei fornitori non può essere superficiale. È fondamentale adottare procedure di verifica e controllo per accertare la reale operatività e affidabilità dei propri partner commerciali. La consultazione dei registri pubblici è un primo passo indispensabile, ma non sempre sufficiente. Di fronte a segnali di anomalia (prezzi inspiegabilmente bassi, modalità di pagamento inusuali, sedi legali dubbie), un imprenditore prudente deve attivarsi per approfondire i controlli.

In caso di contenzioso, questa sentenza conferma che non basta appellarsi alla propria buona fede in astratto. È necessario dimostrare concretamente di aver posto in essere tutte le cautele esigibili per evitare di partecipare a schemi fraudolenti. La diligenza non è solo un dovere morale, ma un presupposto essenziale per poter legittimamente esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA.

Cosa deve dimostrare l’Amministrazione Finanziaria in caso di operazioni soggettivamente inesistenti?
L’Amministrazione Finanziaria deve provare, anche tramite indizi, non solo che il fornitore era fittizio, ma anche che il destinatario della fattura era in grado di rendersi conto che l’operazione era finalizzata all’evasione dell’imposta, in presenza di elementi che avrebbero messo sull’avviso un imprenditore onesto e mediamente esperto.

Quale onere probatorio ricade sul contribuente che riceve fatture false?
Il contribuente ha l’onere di fornire la prova contraria, dimostrando di aver agito senza la consapevolezza di partecipare a un’evasione fiscale e di aver adoperato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto per non essere coinvolto in tale situazione. La regolarità formale di contabilità e pagamenti non è sufficiente.

Perché il principio di autosufficienza è fondamentale nel ricorso per cassazione?
È fondamentale perché il ricorso deve contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni della richiesta di cassazione e a permettere alla Corte di valutare la fondatezza di tali ragioni, senza dover consultare fonti esterne al ricorso stesso. La sua violazione comporta l’inammissibilità del motivo di ricorso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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