Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 187 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 187 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28763/2021 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME come da procura speciale allegata al ricorso (PEC: EMAIL; EMAIL;
-ricorrente –
Contro
Agenzia delle Entrate , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia n. 3180/10/2021, depositata l’8.0 4.2021.
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 7 novembre 2024.
RILEVATO CHE
Con la sentenza in epigrafe indicata la CTR della Sicilia accoglieva l’appello proposto da ll’Agenzia delle entrate contro la sentenza della CTP di Messina che aveva accolto il ricorso proposto dalla società
Oggetto:
Tributi
RAGIONE_SOCIALE operante nel settore della grande distribuzione, avverso l’avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 200 4, emesso a seguito di verifica fiscale, all’esito della quale veniva recuperata a tassazione una maggiore IVA, con contestuale disconoscimento di parte del credito IVA indicato in dichiarazione;
dalla sentenza impugnata si evince, per quanto ancora qui rileva, che:
il primo giudice aveva accolto il ricorso introduttivo, avendo rilevato che non era stato prodotto il PVC redatto dalla Guardia di Finanza, richiamato per relationem nell’avviso di accertamento, e che i poteri istruttori del giudice tributario non potevano sostituire l’onere probatorio gravante sull’Ufficio, avendo una mera funzione integrativa ; – il vizio di motivazione riconosciuto dal primo giudice era stato superato dalla produzione che l’Ufficio ha effettuato in appello della documentazione mancante, ammissibile ai sensi dell’art. 58, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992;
-era infondata l’eccezione riproposta in appello, riguardante il vizio di motivazione dell’atto impositivo, atteso che gli atti tributari possono essere motivati ‘per relationem’ , anche con rinvio ad un precedente atto istruttorio (nella specie al PVC), spettando al giudice valutare se ne sia derivata una motivazione insufficiente;
-nel merito, l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate era fondato ;
dalla verifica fiscale era emerso che la contribuente aveva emesso numerose fatture per operazioni non imponibili, a fronte della vendita di merce dietro presentazione, da parte di apparenti compratori, di dichiarazioni d’intent o ex art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, risultate poi false, in quanto la relativa merce non era stata esportata, bensì ceduta all’interno d el territorio nazionale, in totale evasione di imposta, in favore di tali NOME COGNOME e NOME COGNOME risultanti i promotori, unitamente ad altri soggetti, del meccanismo fiscale incriminato;
con riferimento alla valenza di dette dichiarazioni di intenti e all’onere della prova circa il coinvolgimento del cedente, andava richiamato l’orientamento giurisprudenziale in materia di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, ricadendo sul cedente l’ onere di dimostrare l’effettiva esportazione o cessione intracomunitaria della merce o, in alternativa, di fornire la prova della propria buona fede;
nella specie, si è erroneamente ritenuto che le dichiarazioni d’intento fossero veridiche e regolari, sulla base del solo dato formale della loro intestazione e della circostanza secondo cui la società aveva operato la vendita delle merci “franco magazzino’ , senza considerare che dalle risultanze della verifica fiscale era emerso che era stata la stessa contribuente ad emettere fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, dato che le merci venivano consegnate a soggetti diversi dagli apparenti intestatari delle fatture, tra i quali il RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME;
-le dichiarazioni d’intent o venivano emesse, quindi, al fine di consentire alla contribuente e agli altri effettivi acquirenti di evadere l’IVA, come risultava avvalorato dalla documentazione extracontabile acquisita, dalle dichiarazioni rese dai soggetti che avevano partecipato alle operazioni (che, in quanto dichiarazioni di terzi, dovevano essere considerate quale elemento indiziario, seppure da valutare unitamente ad altri elementi), nonché dalla non operatività e/o dal dissesto finanziario dei formali destinatari delle fatture, che andavano considerati vere e proprie ‘cartiere’, pur essendosi accreditati come esportatori abituali;
inoltre, dagli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza e dalle dichiarazioni rese da alcuni dipendenti della società contribuente era emerso che al trasporto delle merci uscite dai magazzini della contribuente provvedevano vettori con mezzi direttamente riconducibili a ll’Imbesi, allo Scali e al Famà ;
le ricevute bancarie, gli assegni, i manoscritti rinvenuti e le fatture recavano la firma per ricezione della merce di Famà NOME e di COGNOME NOME, soci amministratori della RAGIONE_SOCIALE;
-l’ interesse della contribuente a compiere operazioni fraudolente era ‘in re ipsa’ , essendo desumibile dalla stessa emissione di fatture ‘ senza dovere assolvere all’immediato obbligo di versamento dell’IVA e nell’incremento del volume d’affari ‘ ;
-i ‘ plurimi e imponenti elementi ‘ emersi dalla verifica fiscale inducevano a confermare l’atto impositivo impugnato, non essendo sufficiente per l’esenzione la semplice attivazione delle procedura di verifica, ma ricadendo sul cedente l’onere di dimostrare l’effettiva esportazione della merce o, in mancanza, di fornire, adeguata prova della sua buona fede, dimostrando che lo stesso non era stato in grado di rendersi conto della frode; a dimostrazione della buona fede non erano sufficienti le sole lettere d’intent o, rilasciate dagli apparenti cessionari al momento dell’acquisto dei beni destinati all’esportazione , tenuto conto del fatto ‘o ggettivo ed incontestabile ‘ che il trasporto delle merci uscite dai magazzini della contribuente veniva effettuato con mezzi direttamente riconducibili alle ditte simulate de ll’Imbesi, del Famà e dello Scali;
non solo la contribuente non aveva dato prova della sua estraneità rispetto al meccanismo fraudolento accertato, ‘ ma anzi gli elementi esposti costituiscono indizi gravi della esistenza della contestata compartecipazione’ ;
la contribuente impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a quattordici motivi;
-l’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del
d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto erroneamente che, in difetto di prova che le merci avessero effettivamente lasciato il territorio italiano, l’onere della prova gravante sulla contribuente, per avvalersi del regime di non imponibilità IVA, previsto per le cessioni intracomunitarie dall’art. 41 del d.l. n. 331 del 1993, convertito nella l. n. 427 del 1993, consisteva nella dimostrazione dell’impossibilità di essere venuto a conoscenza della frode, senza considerare che nel caso in esame erano i cessionari a provvedere al ritiro e al trasporto dei beni acquistati con propri vettori, sicchè era sufficiente che il cedenti dimostrasse la normale diligenza richiesta nelle transazioni commerciali, la buona fede e di avere adottato le misure ragionevoli in suo potere, consistenti nel controllo sulla operatività della società cessionaria, sulla sua natura di esportatore e sull’esistenza del codice identificativo comunitario ;
– con il secondo motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 co. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto erroneamente che la contribuente non avesse dimostrato di non essere stata in grado di venire a conoscenza della frode posta in essere dal Famà, dallo COGNOME e dall’COGNOME (che erano clienti abituali della contribuente e avevano sempre agito correttamente) e che, anzi, vi avesse partecipato, sebbene la Guardia di Finanza non fosse riuscita ad individuare gli effettivi destinatari delle merci in relazione agli acquirenti RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e per buona parte delle fatture emesse nei confronti dell’impresa RAGIONE_SOCIALE aggiunge che dalle dichiarazioni rese dai dipendenti della contribuente, dai trasportatori e dai presunti effettivi acquirenti non risultava che la contribuente fosse consapevole dell’effettiva destinazione della merce , in quanto non era compito della cedente assicurarsi quale fosse il luogo
di effettiva destinazione della merce, essendo stata prevista la clausola ‘franco magazzino’ e avendo la predetta agito correttamente nei limiti della buona fede e della normale diligenza;
con il terzo motivo, denuncia la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente e palesemente illogico nella parte in cui ha ritenuto che determinanti elementi comuni a tutte le ipotesi di cessione non imponibile, sebbene ogni cessionario avesse una propria evidente peculiarità, e non ha esaminato, quindi, le singole situazioni dei vari clienti – cessionari;
con il quarto motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., riproponendo sotto altro profilo la medesima censura mossa con il terzo motivo;
con il quinto motivo, deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., o in subordine la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 della l. n. 212 del 2000, 3 della l. n. 241 del 1990 e 56 del d.P.R. n. 633 del 1992, per avere la CTR omesso di esaminare l’eccezione proposta dalla contribuente e comunque ritenuto legittimo l’avviso di accertamento impugnato, nonostante la mancata allegazione degli atti relativi alla verifica effettuata nei confronti delle imprese e società cessionarie;
con il sesto motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto che la compartecipazione della contribuente alla frode e la sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emergesse dalla circostanza secondo cui le
ricevute bancarie e gli assegni relativi ai pagamenti della merce acquistata presso la contribuente recavano la firma del Famà o dell’Imbesi, sebbene tale elemento presuntivo (che riguardava, peraltro, solo alcune delle imprese coinvolte) non avesse alcun riscontro decisivo, atteso che all’epoca costituiva prassi commerciale consolidata quella di pagare mediante assegni circolari emessi o ricevuti, previa girata, da altri imprenditori, ed era difficile controllare e verificare chi fosse l ‘emittente dell’ass egno e ogni singola girata; – con il settimo motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto che la compartecipazione della contribuente alla frode e la sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emergesse dalla circostanza secondo cui alcuni dipendenti della società contribuente (COGNOME Antonio COGNOME, COGNOME Daniele, COGNOME NOME e COGNOME NOME) avevano concordemente affermato che la RAGIONE_SOCIALE e i suoi soci (promotori della frode) fossero gli effettivi cessionari dei beni al cui ritiro presso la contribuente provvedeva la predetta società con propri mezzi di trasporto, atteso che i predetti dipendenti non avevano concordemente affermato che la società RAGIONE_SOCIALE e i suoi soci erano gli effettivi cessionari, avendo dette dichiarazioni un contenuto ben diverso e più complesso, riguardando, peraltro, solo alcune delle imprese coinvolte; – con l ‘ ottavo motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 del d.l. n. 331 del 1993, 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697 e 2729 cod. civ., 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto erroneamente che la compartecipazione della contribuente alla frode e la sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni
soggettivamente inesistenti emergesse dalla non operatività e dal dissesto finanziario dei formali destinatari della merce, per fallimento e/o per cessazione di attività, senza considerare che l’impresa RAGIONE_SOCIALE era cessata in data 14.07.2004, dopo l’ultima operazione con la contribuente, e che detto elemento presuntivo non riguardava le altre società o imprese cessionarie;
con il nono motivo di ricorso, la contribuente deduce la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR violato le norme regolanti l’onere della prova e la valutazione delle presunzioni semplici in sede processuale, accogliendo il gravame erariale in base ad una serie di elementi presuntivi, nonostante la difesa della contribuente avesse evidenziato l ‘irrilevanza di alcuni di essi e la difformità del loro contenuto rispetto a quanto preteso dall’Ufficio appellante;
con il decimo motivo, denuncia la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR motivato in modo apparente e palesemente illogico nella parte in cui ha ritenuto che la dimostrazione della compartecipazione della contribuente alla frode e della sua consapevolezza di avere emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emergesse dalla circostanza secondo cui l’in teresse della società rispetto alle operazioni fraudolente risultava in re ipsa , essendo desumibile dalla stessa emissione di fatture senza l’immediato obbligo di versamento dell’IVA e dall’incremento del volume d’affari;
il quinto motivo, che per ragioni di priorità logica, va esaminato per primo, è infondato;
il motivo va disatteso in primo luogo nella parte in cui denuncia l’omessa pronuncia, posto che la CTR si è pronunciata sulla censura riguardante l’asserita violazione delle norme afferenti la motivazione
—· per relationem dell’avviso di accertamento, avendo affermato che ‘nel regime introdotto dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato… ‘ e che l’atto impositivo non era illegittimo, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi acquisiti in sede di verifica, ‘dal momento che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio ‘, sicchè l’avviso di accertamento ‘può essere motivato ‘per relationem’, anche con il rinvio pedissequo alle conclusioni contenute in un atto istruttorio (nella specie il p.v.c. della Guardia di finanza) senza che arrechi alcun pregiudizio al diritto del contribuente. La scelta in tal senso dell’ Amministrazione finanziaria non può essere di per sé censurata dal giudice di merito, al quale, invece, spetta il potere di valutare se, dal richiamo globale all’atto strumentale, sia derivata un’inadeguatezza o un’insufficienza della motivazione dell’atto finale. ‘;
la censura è infondata anche sotto il profilo della asserita violazione
e falsa applicazione di legge;
sul punto occorre ribadire il consolidato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, che riconosce la legittimità della c.d. motivazione per relationem e ne precisa i limiti;
già con riferimento alla disciplina anteriore all’art. 7 della l. n. 212 del 2000, è stato affermato che la legittimità dell’avviso postula la conoscenza o la conoscibilità da parte del contribuente dell’atto richiamato, purché il suo contenuto serva ad integrare la motivazione dell’atto impositivo, con esclusione quindi dei casi in cui essa sia già
sufficiente e il richiamo ad altri atti abbia pertanto solo valore narrativo o il contenuto di ulteriori atti sia già riportato nell’atto noto; ai fini dell’annullamento il contribuente deve, quindi, provare non solo che gli atti ai quali fa riferimento l’atto impositivo o quelli cui esso rinvia sono a lui sconosciuti, ma anche che almeno una parte del contenuto di essi sia necessaria ad integrare direttamente o indirettamente la motivazione del suddetto atto impositivo, e che quest’ultimo non la riporta, per cui non è comunque venuto a sua conoscenza (Cass. 10.02.2016, n. 2614);
– anche con riferimento alla disciplina introdotta dal c.d. Statuto del contribuente, ratione temporis applicabile, si è statuito che, in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (art. 7, l. n. 212 del 2000) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione finanziaria, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone l’art. 3, terzo comma, legge 7 agosto 1990, n. 241, nel senso che il contribuente ha diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perché ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto;
– pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto
impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione (Cass. 16.12.2020, n. 28756; Cass. 15.05.2018, n. 11866);
-dalla sentenza impugnata si evince che l’avviso di accertamento impugnato faceva rinvio al PVC redatto all’esito della verifica fiscale svolta nei confronti della contribuente e a quest ‘ultima consegnato in copia, sicchè la società contribuente ne conosceva il contenuto;
la ricorrente non ha precisato, spiegandone le ragioni, quali altri atti o documenti avrebbero dovuto essere allegati a ll’ atto impositivo, in quanto non riportati, anche nelle parti essenziali, nel PVC richiamato, limitandosi ad indicare, genericamente, non meglio precisati atti relativi a ‘ controlli incrociati svolti nei confronti delle ditte cessionarie ‘ ; -i restanti motivi, che per connessione vanno esaminati congiuntamente, sono in parte infondati e in parte inammissibili;
dalla sentenza impugnata si evince che il recupero riguardava l’emissione, da parte della contribuente, di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, senza l’applicazione dell’IVA, in quanto emesse nei confronti di soggetti dichiaratisi esportatori abituali, che presentavano false lettere d’intenti ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 e che non erano i reali destinatari della merce; -le censure investono la questione della detraibilità dell’IVA nel caso di fatturazione per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti e riguardano sia l’oggetto della prova dell’inesistenza soggettiva di dette operazioni sia il riparto dell’onere probatorio tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente;
sul punto va richiamato l’orientamento di questo Corte secondo cui « qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in
base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolv a a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto » (Cass. 31.01.2022, n. 2922; Cass. 20.07.2020, n. 15369; Cass. 28.02.2019, n. 5873; Cass. 20.04.2018, n. 9851);
è stato affermato, inoltre, che, poiché ai fini della ripartizione dell’onere della prova occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’Iva che tale diritto costituisce, incombe, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione e che, una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente (Cass. n. 9851 del 2018, cit.; Corte di Giustizia UE, 1.12.2022, in C-512/21, paragrafi 26 -33);
-come ha poi evidenziato questa Corte, l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione «ben può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sé, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poiché l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad
escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente » (Cass. n. 9851 del 2018, in motivazione);
il giudice tributario di merito deve, quindi, valutare, con un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità, se l’atto impositivo si fonda su elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, esaminandoli sia singolarmente sia nel loro complesso nella motivazione della sentenza; in tale contesto, vanno esaminate anche eventuali dichiarazioni rilasciate da terzi, le risultanze delle indagini condotte nei confronti di altre società, gli atti trasmessi dalla Guardia di finanza, risultanti dall’at tività di polizia giudiziaria, se contenuti negli atti (come il processo verbale di constatazione) allegati all’atto impositivo notificato o trascritti essenzialmente nella motivazione dello stesso, in quanto costituenti parte integrante del materiale indiziario e probatorio, che il giudice di merito deve valutare dandone adeguato conto nella motivazione della sentenza;
dopo avere ritenuto, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità (non necessariamente di certezza), che gli indizi esaminati siano sufficienti a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, con riguardo all’esistenza dell’or ganizzazione fraudolenta, alla partecipazione ad essa del contribuente o, quanto meno, alla consapevolezza da parte sua di avvantaggiarsi della frode in danno dell’erario, la domanda dell’Amministrazione deve ritenersi provata; a quel punto, si sposta sul contribuente, secondo la regola generale ricavabile dagli artt. 2727 cod. civ. e ss. e 2697 cod. civ., l’onere di provare eventuali fatti a lui favorevoli, sicchè la mancata deduzione di idonea prova contraria, fin dall’atto introduttivo del giudizio, o l’insuccesso di essa, comportano l’accoglimento della pretesa fiscale fondata su valide presunzioni;
-per quanto riguarda la contestazione delle false dichiarazioni d’intento, poi, è stato affermato che la non imponibilità ad IVA delle
cessioni all’esportazione effettuate nei confronti di esportatori abituali, prevista dall’art. 8, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972, non può essere subordinata alla sola formale specifica dichiarazione d’intento dell’esportatore, ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere (Cass. 5.10.2016, n. 19896; Cass. 9.01.2015, n. 176; Cass. 11.05.2012, n. 7389);
– poiché la lotta contro la frode, l’evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA (da ultimo, Corte di Giustizia, sentenza 8 maggio 2019, causa C712/17, RAGIONE_SOCIALE, punto 31), a fronte della partecipazione del cedente al meccanismo frodatorio o della consapevolezza di esso, permarrebbe il rischio di perdita di gettito dell’erario qualora i cessionari o committenti fossero soggetti inesistenti o del tutto incapienti; il sistema, per conseguenza, non consente l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite esecutivo correlato alla qualità di esportatore abituale qualora, anche in base a elementi presuntivi, emerga che il cedente disponesse di elementi tali, da sospettare l’esistenza di irregolarità e da sollecitare il suo onere di diligenza (Cass. 5.04.2019, n. 9586, che fa leva sull’adozione di tutte le ragionevoli misure disponibili; più di recente, Cass. 15.07.2020, n. 14979 e Cass., 12 luglio 2023, n. 19981);
-sempre con riferimento alla dichiarazione d’intento, è stato altresì precisato che « Nelle cessioni all’esportazione in regime di sospensione d’imposta ex art. 8 del D.P.R. n. 633/1972, se la dichiarazione d’intenti si riveli ideologicamente falsa, perché emessa da soggetto privo del
requisito di esportatore abituale, al cedente non è consentito l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite di esecutività correlato alla suddetta qualità di esportatore abituale qualora, anche in base ad elementi presuntivi, questi disponga di elementi tali da sospettare l’esistenza di irregolarità, gravando sul medesimo un onere di diligenza mediante l’adozione di tutte le ragionevoli misure in proprio potere (Cass., Sez. V, 15 luglio 2020, n. 14979; Cass., Sez. V, 5 aprile 2019, n. 9586; Cass., Sez. V, Sez. 5, 5 ottobre 2016, n. 19896). Principio, questo, conforme alla richiamata giurisprudenza eurounitaria (Corte di Giustizia UE, RAGIONE_SOCIALE Spedition, C-495/17, punto 41, cit.), non diversamente dallo standard di diligenza richiesto comunque al contribuente al fine di non essere coinvolto in una frode IVA » (Cass. 12.07.2022, n. 22003) e che « In tema di IVA, la non imponibilità delle cessioni all’esportazione effettuate nei confronti di esportatori abituali non può essere subordinata alla sola formale specifica dichiarazione d’intento dell’esportatore, ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere » (Cass., 1.03.2022, n. 6786);
– anche questo Collegio intende dare continuità ad un principio ormai consolidato e coerente con quanto già chiarito dalla Corte di Giustizia della Comunità europea, laddove, nello specifico, ha affermato che « L’art. 28 quater, parte A, lett. a), primo comma, della sesta direttiva 77/388, come modificata dalla direttiva 2000/65, va interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cessione obblighino un fornitore, che ha agito in buona fede e ha presentato prove giustificanti prima facie il suo diritto all’esenzione di
una cessione intracomunitaria di beni, ad assolvere successivamente l’IVA su tali beni, quando tali prove si rivelano essere false senza che risulti tuttavia provata la partecipazione del fornitore medesimo alla frode fiscale, purchè quest’ultimo abbia ado ttato tutte le misure ragionevoli in suo potere al fine di assicurarsi che la cessione intracomunitaria effettuata non lo conducesse a partecipare ad una frode siffatta » (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 27 settembre 2007, C409/04);
nella specie, i giudici di appello hanno applicato correttamente i suesposti principi, dando atto dei ‘ plurimi e imponenti elementi ‘ emersi dalla verifica fiscale in ordine all’inesistenza soggettiva delle operazioni contestate, affermando che le merci, sebbene fatturate dalla contribuente con l’indicazione degli apparenti destinatari, venivano consegnate a soggetti diversi, sicchè le dichiarazioni d’intento erano state emesse ‘ al fine di consentire alla RAGIONE_SOCIALE nonché agli effettivi acquirenti dei beni, l’evasione d’IVA ‘;
-la CTR è pervenuta a siffatta conclusione sulla base dell’esame della documentazione extracontabile acquisita, delle dichiarazioni rese dai soggetti che avevano partecipato alle operazioni e della non operatività e/o del dissesto finanziario dei formali destinatari della merce, che avevano operato come mere cartiere, accreditandosi come esportatori abituali;
i giudici di appello hanno affermato, inoltre, che ‘dagli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza in loco è emerso che del trasporto delle merci uscite dai magazzini di essa cedente, se ne siano occupati vettori con mezzi direttamente riconducibili ai signori RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, ditte simulate, rispettivamente cessate: l’ingrosso RAGIONE_SOCIALE Scali in data 20/10/2003 (per fallimento), IGIENE 2000 in data 31.12.2022; RAGIONE_SOCIALE al 19/11/2003 e RAGIONE_SOCIALE al 14/7/2004 (per fallimento)’ e che ‘gli stessi
dipendenti della società RAGIONE_SOCIALECOGNOME NOME COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME) hanno concordemente affermato che la RAGIONE_SOCIALE ed i suoi soci (promotori accertati della frode) fossero effettivi cessionari dei beni, al cui ritiro presso la società, la stessa provvedeva con propri mezzi di trasporto. Peraltro è risultato documentato che le ricevute bancarie, gli assegni, i manoscritti e le fatture, recavano la firma per ricezione della merce, di COGNOME NOME e COGNOME NOME, s oci amministratori della RAGIONE_SOCIALE snc.’;
la Commissione regionale ha poi evidenziato che il contribuente non aveva fornito elementi di prova in suo favore, non avendo dimostrato la sua ‘estraneità rispetto al meccanismo fraudolento realizzato nell’occorso, ma anzi gli elementi esposti costituiscono indizi gravi della esistenza della contestata compartecipazione ‘;
-la sentenza impugnata ha, dunque, riconosciuto l’adeguatezza degli elementi dedotti dall’Amministrazione finanziaria, concludendo nel senso della sussistenza della responsabilità della società ricorrente non solo in termini di conoscibilità del meccanismo fraudolento, ma anche quale vera e propria compartecipazione allo stesso, e ha ritenuto che le controprove offerte dalla contribuente non fossero idonee a scalfire gli indizi allegati dall’Ufficio;
il processo valutativo compiuto dalla CTR è risultato, quindi, coerente con le regole di governo delle prove presuntive, in particolare in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, nei limiti in cui tale valutazione può essere verificata in questa sede (Cass. n. 10973 del 2917; Cass. n. 34248 del 2021), tenuto conto anche di quanto indicato sul punto dalla giurisprudenza euro -unitaria ( ex multis , Corte di Giustizia, sentenza 1.12.2022, in C-512/21, nei § da 26 a 33);
di conseguenza, la ricorrente deduce solo apparentemente la violazione di plurime norme di legge e l’omessa motivazione o motivazione apparente, ma in realtà mira alla rivalutazione dei fatti,
operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. n. 8758 del 4/07/2017), prospettando nel ricorso non l’analisi e l’applicazione delle nor me, bensì un evidente apprezzamento delle prove, rimesso alla esclusiva valutazione del giudice di merito ( ex multis , Cass. n. 3340 del 5/02/2019; Cass. n. 640 del 14/01/2019; Cass. n. 24155 del 13/10/2017);
-con l’undicesimo motivo, deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR omesso di pronunciarsi sulla censura riguardante l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, con riferimento alla mancata applicazione da parte dell’Agenzia delle entrate della continuazione di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 472 del 1997, anche con riferimento alle sanzioni irrogate negli avvisi di accertamento notificati alla contribuente per gli anni di imposta 2002 e 2003;
con il dodicesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR comunque motivato in modo apparente in relazione al rilievo riguardante l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio per la mancata applicazione della continuazione;
-l’undicesimo motivo è fondato, con assorbimento del dodicesimo motivo;
la ricorrente ha evidenziato di avere contestato fin dal ricorso introduttivo anche il provvedimento di irrogazione delle sanzioni per la mancata applicazione della continuazione di cui all’art. 12 del d.gls. n. 472 del 1997 e di avere poi riproposto la questione, rimasta assorbita in primo grado, con le controdeduzioni depositate in appello;
sebbene la CTR abbia riportato al p. 2 della sentenza la specifica censura contenuta nel ricorso introduttivo proposto dalla contribuente
(‘Avverso tale avviso interponeva ricorso la società, eccependo: ‘(…) c) che andava fatta applicazione del principio di continuazione alle sanzioni irrogate ad essa società nei distinti atti impositivi notificati per gli anni 2002, 2003 e 2004 ‘) e a p. 5 della sentenza quanto riproposto sul punto dalla contribuente nelle controdeduzioni depositate in appello ( ‘ in ogni caso andava applicato alle sanzioni il principio di continuazione di cui all’art. 12 del D.lgs. n. 472/1997’ ), non si è poi pronunciata sulla predetta questione;
-con il tredicesimo motivo, deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., perché la CTR non si è pronunciata sulla questione (rilevata dalla contribuente nella memoria del 9.07.2018, deposit ata prima dell’udienza di trattazione dell’appello) riguardante la applicazione del regime sanzionatorio più favorevole, approvato dal d.lgs. n. 158 del 2015, in forza del principio del favor rei di cui all’art. 3, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 472 del 1997;
con il quattordicesimo motivo, deduce la violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR comunque motivato in modo apparente in relazione all’applicazione del regime sanzionatorio più favorevole, approvato dal d.lgs. n. 158 del 2015;
anche il tredicesimo motivo è fondato, con assorbimento del quattordicesimo motivo;
sebbene la ricorrente abbia dimostrato di avere invocato, con la memoria del 9.07.2018, depositata prima dell’udienza di trattazione in appello, l’applicazione della più favorevole disciplina sopravvenuta di cui al d.lgs. n. 158 del 2015, la CTR non si è pronunciata sulla sua applicazione al caso in esame;
in conclusione, vanno accolti l’undicesimo e il tredicesimo motivo, assorbiti il dodicesimo e il quattordicesimo motivo, rigettati i restanti; – la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, per nuovo esame e per regolare le spese del
presente procedimento.
P.Q.M.
La Corte accoglie l’undicesimo e il tredicesimo motivo, assorbiti il dodicesimo e il quattordicesimo motivo, rigettati i restanti; cassa l’impugnata sentenza, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del presente procedimento.
Così d eciso in Roma, nell’adunanza camerale del 7 novembre 2024.