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Fatture false: l’onere della prova del contribuente

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 26326/2024, ha rigettato il ricorso di una società che aveva detratto l’IVA da fatture false emesse da società “cartiere”. La Corte ha ribadito che, di fronte a un quadro indiziario fornito dall’Amministrazione Finanziaria che dimostra la natura fittizia dei fornitori, l’onere della prova si sposta sul contribuente. Quest’ultimo deve dimostrare la propria buona fede non solo con verifiche formali, ma provando di aver usato la massima diligenza per accertare l’effettiva operatività del fornitore, specialmente in caso di rapporti commerciali duraturi.

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Pubblicato il 22 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Fatture False: La Cassazione sull’Onere della Prova e la Diligenza del Contribuente

L’utilizzo di fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti rappresenta una delle più insidiose forme di evasione fiscale, spesso realizzata attraverso complesse ‘frodi carosello’. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 26326 del 9 ottobre 2024, torna su questo tema cruciale, delineando con precisione i confini dell’onere della prova e il livello di diligenza richiesto all’imprenditore per non essere considerato complice della frode. La decisione offre spunti fondamentali per le aziende che intendono operare nella legalità, sottolineando come le semplici verifiche formali sui fornitori non siano più sufficienti a garantire la propria buona fede.

I Fatti del Caso: L’Accertamento Fiscale

Il caso ha origine da un avviso di accertamento ai fini IVA notificato dall’Amministrazione Finanziaria a una società. L’accertamento contestava la detrazione dell’imposta relativa a fatture emesse da due società fornitrici, ritenute mere ‘cartiere’, ovvero entità prive di una reale struttura operativa e create al solo scopo di emettere documenti fiscali fittizi. Secondo l’Ufficio, la società contribuente era coinvolta in una classica frode carosello.

La Commissione Tributaria Regionale aveva confermato la legittimità dell’accertamento, sostenendo che le prove raccolte dimostravano la natura fittizia delle società emittenti. Inoltre, aveva ritenuto che la società contribuente non avesse fornito prova della propria buona fede, poiché, dati i rapporti commerciali pluriennali, non poteva non essersi accorta della totale mancanza di operatività dei suoi fornitori (assenza di sede, di personale, ecc.).

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La società ha impugnato la decisione della CTR davanti alla Corte di Cassazione, basando il proprio ricorso su cinque motivi principali:
1. Motivazione apparente: La sentenza d’appello non avrebbe spiegato l’iter logico seguito per concludere che la ricorrente avesse partecipato consapevolmente alla frode.
2. Violazione dell’onere della prova: La CTR avrebbe errato nell’attribuire l’onere della prova alla società, basandosi su ‘mere illazioni’ dell’Amministrazione Finanziaria.
3. Errata valutazione delle prove: Censura all’operato dei giudici d’appello per aver avallato il recupero dell’IVA senza una valutazione completa del quadro probatorio.
4. Omesso esame di fatti decisivi: La CTR avrebbe ignorato elementi probatori portati dalla società a sua difesa.
5. Violazione del contraddittorio preventivo: L’atto di accertamento sarebbe nullo per la mancata attivazione del dialogo preventivo con il contribuente.

Fatture false e l’onere della prova: La Decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la decisione impugnata e fornendo chiarimenti essenziali in materia di fatture false.

L’Insufficienza delle Verifiche Formali

Il punto centrale della decisione riguarda la ripartizione dell’onere probatorio. La Corte ribadisce un principio consolidato: spetta all’Amministrazione Finanziaria provare, anche tramite presunzioni, che l’operazione è avvenuta tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura e che il destinatario ‘sapeva o avrebbe dovuto sapere’ della frode. Un elemento indiziario fondamentale, in tal senso, è proprio la mancanza di una idonea struttura organizzativa (sede, mezzi, personale) del fornitore.

La Prova della Buona Fede del Contribuente

Una volta che l’Amministrazione ha fornito questo quadro indiziario, l’onere della prova si inverte. Tocca al contribuente dimostrare la propria buona fede e l’estraneità alla frode. E qui la Corte è categorica: non basta produrre documentazione che attesti la regolarità formale dell’operazione (visure camerali, attribuzione di partita IVA, certificazioni IBAN). Questi sono strumenti spesso utilizzati proprio per dare una parvenza di realtà a operazioni fittizie.

Il contribuente deve dimostrare di aver agito con la ‘massima diligenza esigibile da un operatore accorto’, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto ingiustificabile che la società, intrattenendo rapporti commerciali per ‘numerosi anni’ con le società cartiere, non avesse mai verificato la loro effettiva esistenza e operatività.

Le motivazioni

La Corte ha smontato uno ad uno i motivi di ricorso. Ha ritenuto la motivazione della sentenza d’appello tutt’altro che apparente, in quanto esponeva chiaramente le ragioni della decisione, indicando gli elementi probatori a suo fondamento (natura di società cartiere dei fornitori, assenza di struttura, irreperibilità degli amministratori). Anche il motivo sulla violazione del contraddittorio è stato respinto: trattandosi di un accertamento scaturito da una verifica in loco, l’unica garanzia richiesta era il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni tra la consegna del verbale e l’emissione dell’avviso, termine che nel caso di specie era stato rispettato. Per quanto riguarda il cuore della questione, la Corte ha sottolineato come la ‘mancanza di un’effettiva sede operativa’ e l’ ‘inesistenza di personale dipendente’ dei fornitori costituiscano validi elementi presuntivi non solo dell’inesistenza soggettiva dell’operazione, ma anche della consapevolezza del cliente. L’aver effettuato solo controlli formali, come l’acquisizione di visure camerali, senza mai verificare l’effettiva capacità operativa dei partner commerciali, è stato giudicato un comportamento negligente, insufficiente a dimostrare la buona fede.

Le conclusioni

Questa ordinanza è un monito importante per tutte le imprese. La lotta all’evasione legata alle fatture false richiede un ruolo attivo da parte degli operatori economici. La sentenza chiarisce che la diligenza professionale non si esaurisce nell’acquisizione di documenti formali, ma impone una verifica sostanziale dei propri partner commerciali, soprattutto quando i rapporti sono continuativi. Le aziende devono dotarsi di procedure di due diligence sui fornitori che vadano oltre la superficie, per accertare che non si tratti di ‘scatole vuote’. Ignorare indizi evidenti di inoperatività, come l’assenza di una sede fisica o di personale, espone l’impresa al rischio di essere considerata consapevole partecipe di una frode fiscale, con la conseguente indetraibilità dell’IVA e l’applicazione di pesanti sanzioni.

In caso di fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti, su chi ricade l’onere della prova?
Inizialmente, l’onere ricade sull’Amministrazione Finanziaria, che deve provare, anche con presunzioni, l’inesistenza del fornitore indicato in fattura e la consapevolezza (o la colpevole ignoranza) del cliente. Una volta forniti questi elementi, l’onere si sposta sul contribuente, che deve dimostrare la propria buona fede e di aver agito con la massima diligenza.

Quale livello di diligenza è richiesto a un’impresa per dimostrare la propria buona fede nell’utilizzo di fatture da società ‘cartiere’?
È richiesta la ‘massima diligenza esigibile da un operatore accorto’. Questo significa che non sono sufficienti controlli meramente formali (come la verifica della partita IVA o la visura camerale), ma è necessaria una verifica sostanziale dell’effettiva esistenza e capacità operativa del fornitore (ad esempio, controllando la sede, la presenza di personale, ecc.), specialmente in caso di rapporti commerciali duraturi.

La semplice verifica formale è sufficiente per escludere la consapevolezza di partecipare a una frode fiscale?
No. Secondo la Corte, la regolarità formale delle scritture e dei documenti (visure, certificati IVA) non è sufficiente a provare la buona fede, poiché tali strumenti sono spesso utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia. Il contribuente deve dimostrare di aver adottato cautele concrete per accertarsi della reale consistenza del proprio partner commerciale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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