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Esterovestizione: sede fittizia e imposta di registro

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5003/2024, ha stabilito che non spetta l’imposta di registro in misura fissa per il conferimento di immobili a una società con sede legale in un altro Stato UE, qualora si accerti un caso di esterovestizione. Nel caso specifico, i contribuenti avevano conferito immobili a una società britannica, ma l’Amministrazione Finanziaria ha dimostrato che la sede estera era puramente formale e che la direzione effettiva dell’attività si svolgeva in Italia. La Corte ha confermato che, per ottenere il beneficio fiscale, non basta la sede legale, ma occorre una sede effettiva, e che l’onere di provare la reale operatività all’estero, una volta sollevate le presunzioni dall’Agenzia, ricade sul contribuente.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Esterovestizione Societaria: Niente Imposta Fissa se la Sede Estera è una Scatola Vuota

La recente sentenza n. 5003/2024 della Corte di Cassazione affronta un tema cruciale per le operazioni societarie internazionali: il fenomeno dell’esterovestizione. La Corte ha chiarito che il beneficio dell’imposta di registro in misura fissa, previsto per i conferimenti di immobili a società UE, non si applica se la sede estera è solo una facciata formale, priva di reale sostanza economica. Questa decisione ribadisce il principio della prevalenza della sostanza sulla forma e le sue importanti conseguenze fiscali.

Il Caso: Conferimento Immobiliare e la Controversia sull’Imposta

Due contribuenti italiani avevano conferito diversi beni immobili, situati in Italia, a una società a responsabilità limitata di diritto inglese, con sede legale a Londra. In cambio, avevano ricevuto azioni della società. Per questa operazione, avevano applicato l’imposta di registro in misura fissa (pari a 200 euro), avvalendosi dell’agevolazione prevista per i conferimenti a favore di società con sede legale o amministrativa in un altro Stato membro dell’Unione Europea.

L’Agenzia delle Entrate, tuttavia, ha contestato questa scelta. Secondo l’Amministrazione Finanziaria, l’operazione nascondeva un caso di esterovestizione. Sebbene la società avesse formalmente la sede legale a Londra, la sua sede di direzione effettiva e il centro delle sue attività economiche si trovavano in Italia. Di conseguenza, la società doveva essere considerata fiscalmente residente in Italia e l’operazione doveva essere assoggettata all’imposta di registro in misura proporzionale, ben più onerosa.

La Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione all’Agenzia, ritenendo l’operazione uno strumento elusivo finalizzato unicamente a ottenere un indebito vantaggio fiscale. I contribuenti hanno quindi presentato ricorso in Cassazione.

La Questione dell’Esterovestizione nella Decisione della Cassazione

Il cuore della controversia ruotava attorno all’interpretazione della norma agevolativa. I ricorrenti sostenevano che la legge richiedesse unicamente la presenza della “sede legale o amministrativa” in un altro Stato UE, un requisito formalmente soddisfatto. La Cassazione, tuttavia, ha sposato una lettura sostanzialistica.

La Corte ha affermato che il beneficio fiscale è legato alla libera circolazione dei capitali all’interno dell’UE e presuppone che la società destinataria del conferimento abbia un collegamento effettivo con lo Stato estero. Una semplice domiciliazione formale, una “scatola vuota” senza uffici, personale o attività reale, non è sufficiente. È necessario che in quello Stato si trovi la “sede della direzione effettiva”, ovvero il luogo dove vengono prese le decisioni strategiche e gestionali dell’impresa.

L’Onere della Prova: Presunzioni a Carico del Contribuente

Un punto chiave della sentenza riguarda l’onere della prova. La Corte ha chiarito che spetta all’Amministrazione Finanziaria dimostrare l’esterovestizione. Tuttavia, l’Agenzia può farlo attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti. Ad esempio, può dimostrare che i soci e gli amministratori risiedono in Italia, che le decisioni vengono prese in Italia e che non esiste una vera struttura operativa all’estero.

Una volta che il Fisco ha fornito questi elementi presuntivi, l’onere della prova si inverte: spetta al contribuente dimostrare il contrario. Egli deve fornire prove concrete dell’effettiva operatività della sede estera, delle ragioni economiche non fiscali che giustificano la scelta e del reale radicamento della gestione societaria all’estero. Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto che i contribuenti non fossero riusciti a superare le presunzioni sollevate dall’Agenzia.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i motivi di ricorso presentati dai contribuenti. In primo luogo, ha ritenuto ammissibile l’appello cumulativo dell’Agenzia contro le diverse sentenze di primo grado per ragioni di economia processuale e coerenza, data l’identità della questione giuridica.

Nel merito, i giudici hanno motivato che la verifica delle condizioni per l’applicazione di un beneficio fiscale (come l’effettività della sede estera) non costituisce una riqualificazione dell’atto basata su elementi extratestuali, vietata dall’art. 20 del d.P.R. 131/1986. Si tratta, invece, di un accertamento dei presupposti sostanziali richiesti dalla legge stessa per accedere all’agevolazione. L’Ufficio non ha modificato la natura giuridica del conferimento, ma ha semplicemente verificato che la società beneficiaria non possedeva le caratteristiche richieste dalla norma.

La Corte ha inoltre sottolineato come il giudice tributario abbia il potere di accertare “caso per caso”, anche tramite indizi, l’effettività della sede estera e il luogo reale di operatività della società. La documentazione formale, come l’iscrizione al registro delle imprese britannico, pur essendo un elemento di prova, non è di per sé decisiva e può essere superata da prove contrarie che dimostrino la natura fittizia e strumentale della localizzazione estera.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche per le Imprese

Questa sentenza invia un messaggio chiaro a imprese e contribuenti: le strutture societarie internazionali devono essere supportate da una reale sostanza economica. La scelta di localizzare una società all’estero non può essere motivata esclusivamente da ragioni di convenienza fiscale. Per evitare contestazioni di esterovestizione, è fondamentale poter dimostrare che la gestione, l’organizzazione e l’attività economica della società sono effettivamente radicate nel Paese estero prescelto. Creare una “società di comodo” o una mera “casella postale” all’estero per beneficiare di un regime fiscale più favorevole è una strategia ad alto rischio, che espone a pesanti recuperi d’imposta e sanzioni.

Quando si configura il fenomeno dell’esterovestizione societaria?
Si configura quando una società, pur avendo la propria sede legale formalmente all’estero per beneficiare di un regime fiscale più favorevole, ha di fatto la sede della sua direzione amministrativa e l’oggetto principale della sua attività in Italia.

È sufficiente avere una sede legale in un altro Stato UE per ottenere l’imposta di registro fissa sui conferimenti di immobili?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la norma agevolativa richiede un collegamento effettivo con lo Stato estero. Non basta una domiciliazione formale, ma è necessario che la società abbia in quello Stato la sua “sede di direzione effettiva” o, quantomeno, la sua sede amministrativa, dove si svolge concretamente la gestione.

Su chi ricade l’onere di provare che una società è esterovestita?
L’onere della prova spetta inizialmente all’Amministrazione Finanziaria, la quale può utilizzare anche elementi presuntivi (come la residenza degli amministratori o il luogo dove si prendono le decisioni). Una volta che l’Agenzia ha fornito queste prove, l’onere si sposta sul contribuente, che deve dimostrare l’effettività della sede estera e la sostanza economica dell’operazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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