Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 16607 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 16607 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 20/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 11250/2020 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa per procura speciale a margine del ricorso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del secondo a Roma in INDIRIZZO
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale delle Marche n. 796/2018, depositata l’ 11 dicembre 2018. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito l’ avv. NOME COGNOME per delega dell’avv. NOME COGNOME e l’avv. dello Stato NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
-In data 11 aprile 2012 l’Agenzia delle entrate – Direzione Provinciale di Pesaro notificava alla società RAGIONE_SOCIALE, incorporata con atto di fusione del 17 dicembre 2016 nella società RAGIONE_SOCIALE, l’avviso di accertamento n. TQ9035500420/2012 relativo all’anno d’imposta 2007 e con il quale recuperava a tassazione una maggior imposta IVA pari a euro 182.591,00 oltre interessi e sanzioni. In particolare, l’Ufficio contestava alla società RAGIONE_SOCIALE di aver effettuato cessioni di beni alla società RAGIONE_SOCIALE avente sede a San Marino e ritenuta ‘ esterovestita ‘ , sulla base del rilievo che quest’ultima fosse di fatto operante e amministrata in Italia. In conseguenza di ciò, l’Ufficio procedeva a qualificare le operazioni effettuate dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti della RAGIONE_SOCIALE come operazioni imponibili ai fini IVA, con applicazione dell’aliquota del 10% ritenendo inapplicabili le disposizioni di cui agli artt. 8, comma 1, lett. a, 71, 19 d.P.R. 633/1972.
-La società RAGIONE_SOCIALE impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Pesaro.
Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle entrate.
Con sentenza n. 44/04/2016, depositata in data 27 gennaio 2016, la Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso
della società ritenendo accertata, sulla base della documentazione prodotta, l’ esterovestizione della società RAGIONE_SOCIALE
-Avverso tale sentenza proponeva appello la contribuente. Resisteva con proprie controdeduzioni l’Agenzia delle entrate.
Con sentenza n. 796/05/18, depositata in data 11 dicembre 2018, la Commissione tributaria regionale respingeva l’appello e, per l’effetto, confermava l’impugnata sentenza.
-La RAGIONE_SOCIALE proponeva ricorso alla Corte di cassazione affidato a quattro motivi.
Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso La contribuente ha depositato una memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 c.p.c., degli artt. 36 e 53 decreto legislativo n. 546/1992, degli artt. 7 bis, 8, 54 e 71 del d .P.R. n. 633/1972, dell’art. 73 del TUIR, nonché dell’art. 7 della legge 212/2000 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) per aver la Commissione tributaria regionale errato laddove ha ritenuto fondata la pretesa impositiva sulla base dell’art. 7 bis del d.P.R. n. 633/1972, sostituendo la motivazione cristallizzata dall’Ufficio nell’accertamento con altra ritenuta più confacente e giuridicamente fondata.
1.1. -Il motivo è inammissibile.
Al di là del difetto di specificità in merito al contenuto dell’avviso di accertamento riguardante la pretesa del pagamento di maggiori imposte a titolo di IVA, richiamato con stralci parziali, nella motivazione della pronuncia non si rinviene l’errore dedotto, giacché si richiama la disciplina del d.P.R. 633 del 1972 sull’istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, evidenziando la natura non imponibile delle operazioni relative a cessioni di beni oggetto
dell’accertamento, oggetto di un mero transito nel territorio di San Marino ma destinate al territorio italiano. Come accertato in sede di merito, con giudizio non sindacabile in questa sede (Cass., Sez. III, 1 giugno 2021, n. 15276), le due società sammarinesi fungevano da intermediarie o ‘filtro’ rispetto ai consumatori destinatari finali delle cessioni, avvenute nel territorio dello Stato italiano.
-Con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 c.p.c., 73 TUIR, 2697 e 2729 c.c., nonché dell’art. 7 legge n. 212/2000 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), laddove la Commissione tributaria regionale ha errato nel ritenere estensibile il disposto di cui all’art. 73 TUIR al comparto IVA.
2.1. -Il motivo è inammissibile.
Parte ricorrente non coglie, invero, la ratio della decisione.
L’ipotesi della cd. esterovestizione ricorre quando una società, pur mantenendo nel territorio dello Stato la sede amministrativa, intesa quale luogo di concreto svolgimento dell’attività di direzione e gestione dell’impresa, localizza la propria residenza fiscale all’estero, al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa, e può essere dimostrata mediante presunzioni, purché gli indici della fittizia localizzazione, desumibili da tutti gli elementi indiziari acquisiti agli atti di causa, siano esaminati nel loro insieme, non atomisticamente, secondo i criteri della gravità, precisione e concordanza tali da trarre vigore l’uno dall’altro, completandosi a vicenda (Cass., Sez. V, 23 maggio 2024, n. 14485; Cass., Sez. V, 3 giugno 2021, n. 15424).
Questa Corte ha precisato che la nozione di «sede dell’amministrazione», in quanto contrapposta alla «sede legale», deve ritenersi coincidente con quella di «sede effettiva» (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le
assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (Cass., Sez. V, 21 giugno 2019, n. 16697).
Sulla stessa linea si è posta la Corte di giustizia nella sentenza del 28 giugno 2007, RAGIONE_SOCIALE , causa C-73/06 in cui è stato affermato che la nozione di sede dell’attività economica «indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultimo (punto 60)».
È stato, inoltre, chiarito che la fattispecie della esterovestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento. Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte di Giustizia 12 settembre 2006, Cadbury RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE , causa C-196/04 (richiamata da Cass., Sez. V, 21 giugno 2019, n. 16697), la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé sola un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere la normativa dello Stato membro interessato.
Nel caso di specie, sulla base delle risultanze istruttorie, con accertamento di fatto (p. 5 ss. della sentenza impugnata), è emerso che la società RAGIONE_SOCIALE, pur se costituita all’estero, era di fatto amministrata in Italia (e tutte le società coinvolte, facenti parte di un unico gruppo economico facevano capo al signor COGNOME
amministratore anche di RAGIONE_SOCIALE) e in Italia aveva l’oggetto principale della propria attività, individuato nella commercializzazione di beni prodotti dalla RAGIONE_SOCIALE in Italia. Sul punto, parte ricorrente mira a conseguire una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità, finendo per criticare il “convincimento” che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, c. 1 e 2 c.p.c., in esito all’esame del materiale probatorio (Cass., Sez. III, 1 giugno 2021, n. 15276).
Riguardo alla questione dell’IVA, non vi è stata alcuna estensione della disciplina di cui all’art. 73 TUIR, avendo la Commissione tributaria regionale basato il suo giudizio sulla frode posta in essere dalla società RAGIONE_SOCIALE, che operava in Italia. Dall’accertamento in fatto compiuto dalla Commissione tributaria regionale è emerso che la contribuente si serviva di due società ‘esterovestite’ per distribuire i propri prodotti in Italia, conseguendo dei vantaggi ai fini IVA.
L ‘art. 7, comma 1, lett. d) d.P.R. 633/1972 stabilisce che « per “soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato” si intende un soggetto passivo domiciliato nel territorio dello Stato o ivi residente che non abbia stabilito il domicilio all’estero, ovvero una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto domiciliato e residente all’estero, limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute. Per i soggetti diversi dalle persone fisiche si considera domicilio il luogo in cui si trova la sede legale e residenza quello in cui si trova la sede effettiva ».
Pertanto è da ritenersi stabilita nel territorio dello Stato anche la società avente la sede ‘effettiva’ nello ‘Stato, come nel caso di specie.
L’art. 4 d.P.R. 633/1972 prevede inoltre che tutte le attività imprenditoriali svolte in Italia sono ivi assoggettate ad imposizione.
Il pagamento dell’IVA in Italia è dunque conseguenza diretta dell’accertamento della ‘esterovestizione’.
-Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c. , dell’art. 73 TUIR , degli artt. 2697 e 2729 c.c. , nonché dell’art. 7 della legge n. 212/2000 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) per aver la Commissione tributaria regionale errato laddove in applicazione dell’art. 73 TUIR ha ritenuto accertata l’esterovestizione di una società con sede nella Repubblica di San Marino pur se dotata di locali, personale ed effettivamente operativa all’estero.
3.1. -Il motivo è inammissibile.
Sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, parte ricorrente, in realtà, mira a una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. I, 4 marzo 2021, n. 5987; Cass., Sez. Un. 27 dicembre 2019, n. 34476), così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., Sez. IV-3, 4 aprile 2017, n. 8758), considerato altresì che i fatti sono stati oggetto di valutazione concorde sia in primo sia in secondo grado (‘doppia conforme’) , rilevante anche nel ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (Cass., Sez. V, 23 ottobre 2024, n. 27547). In motivazione sono stati individuati e riportati gli elementi in base ai quali si è ritenuta provata l’esterovestizione delle due società (p. 5 ss. della sentenza).
Inammissibili – poiché privi di specificità -risultano i riferimenti alla documentazione prodotta nel corso del giudizio in merito alla regolarità degli obblighi tributari in San Marino.
-Con il quarto motivo si prospetta la nullità della sentenza impugnata in ragione della violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c. , dell’art. 7 bis, 8, 54 e 71 d.P.R. n. 633/1972, dell’art.
2697 e 2729 c.c. , nonché dell’art. 7 della legge n. 212/2000 (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), laddove la Commissione tributaria regionale ha errato nel ritenere irrilevante, per determinare la soggettività o meno ad IVA di un’operazione, l’effettiva e giuridica esistenza di un bene sul territorio nazionale.
4.1. -Il motivo è infondato.
In tema d’IVA, in caso di cessioni extracomunitarie di beni dall’Italia verso la Repubblica di San Marino, per dimostrare l’effettività dell’operazione al fine di beneficiare dell’esenzione prevista dall’art. 8 del d.P.R. n. 633 del 1972, è necessario che uno dei tre esemplari della fattura consegnati al cessionario sia restituito munito della marca con timbro a secco apposto dall’ufficio tributario di San Marino, che tiene il posto della documentazione doganale e di quella assimilata prevista dalla normativa generale, mentre l’indicazione del codice identificativo del cliente sammarinese costituisce adempimento di carattere meramente formale, inidoneo a condizionare la non imponibilità, limitandosi il d.l. n. 331 del 1993, conv. nella l. n. 427 del 1993, a fine di evitare doppie imposizioni e perché l’imposta sia pagata nello Stato della Comunità europea del consumatore, a prescrivere che il cessionario abbia trasmesso al cedente il proprio numero di partita IVA, identificandosi come soggetto passivo del tributo nel proprio Stato di residenza (Cass., Sez. V, 30 settembre 2016, n. 19536; Cass., Sez. V, 24 giugno 2015, n. 13035).
Nel caso di specie non risultano dedotti né provati gli elementi ritenuti rilevanti dalla giurisprudenza per la dimostrazione dell’effettività dell’operazione al fine di beneficiare dell’esenzione prevista dall’art. 8 del d.P.R. n. 633 del 1972. I beni sono stati destinati al territorio italiano, come accertato in punto di fatto dai giudici di merito in maniera conforme in primo e in secondo grado.
Inammissibile, per difetto di specificità, è il richiamo all’attestazione dell’ufficio tributario di San Marino, al di là dell’irrilevanza della mera regolarità contabile ai fini della prova dell’esistenza di operazioni oggetto di contestazione.
5. -Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore del l’Agenzia delle entrate in euro 5.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione