Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 16605 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 16605 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 20/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14438/2017 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa per procura speciale a margine del ricorso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del secondo a Roma in INDIRIZZO
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale delle Marche n. 797/2016, depositata il 5 dicembre 2016. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso. Udito l’ avv. NOME COGNOME per delega dell’avv. NOME COGNOME e l’avv. dello Stato NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. -In data 29 novembre 2010, l’Agenzia delle entrate -Direzione provinciale di Pesaro notificava alla RAGIONE_SOCIALE l’avviso di accertamento n. TQ9035501441/2010 con il quale contestava operazioni imponibili a fini IVA per un importo pari a euro 274.664,38, complessivo di sanzioni e interessi. In particolare, con processo verbale redatto in data 20 ottobre 2010 dalla Guardia di Finanza di Urbino, al termine del controllo avente a oggetto i periodi d’imposta dal 2004 al 2008, veniva appurato che la contribuente aveva posto in essere operazioni consistenti in cessione di beni nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ritenuta ‘ esterovestita ‘. Invero, all’esito delle verifiche poste in essere, quest’ultima risultava di fatto amministrata in Italia e la sua attività principale localizzata nel territorio italiano. Emergeva, inoltre, che la RAGIONE_SOCIALE non vendeva direttamente i beni nel territorio dello Stato italiano bensì si avvaleva della RAGIONE_SOCIALE che, a sua volta, faceva ricorso ad agenti per lo più italiani. A fronte degli elementi di fatto accertati, l’Ufficio riteneva che le operazioni poste in essere f ossero da ritenersi ai sensi dell’art. 73 , comma 3, TUIR imponibili a fini IVA con aliquota al 10% e non, contrariamente a quanto sostenuto dalla società, operazioni non imponibili ai sensi dell’art. 71 e 8 d.P.R. 633/1972.
La RAGIONE_SOCIALE impugnava l’avviso di accertamento, contestando l’operato dell’Ufficio e la fondatezza della ricostruzione emersa dalle risultanze delle verifiche effettuate.
L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio.
La Commissione tributaria provinciale di Pesaro, con sentenza n.111/04/12 depositata in data 18 giugno 2012, respingeva il ricorso della contribuente e la condannava a rifondere le spese di giudizio.
-Avverso tale pronuncia la contribuente proponeva atto di appello.
L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio.
La Commissione tributaria regionale di Ancona, con sentenza n. 797/2016, confermava la sentenza di primo grado, rigettando l’appello.
-La RAGIONE_SOCIALE società incorporante la RAGIONE_SOCIALE, ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.
La società contribuente ha depositato una memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza impugnata in ragione della violazione degli artt. 111 Cost., degli artt. 112, 115, 116 e 132 c.p.c. , dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992, degli artt. 2697 e 2729 c.c. , nonché dell’art. 7 legge n. 212/2000, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., per aver la Commissione tributaria regionale, a fronte di espressa domanda, omesso di pronunciarsi circa l’eccepita assenza di motivazione dell’avviso di accertamento e della prova dei rilievi ivi contenuti.
1.1. -Il motivo è infondato.
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di omessa pronuncia, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. per violazione dell’art.
112 c.p.c., ricorre ove il giudice ometta completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, anche solo implicito di accoglimento o di rigetto ma comunque indispensabile per la soluzione del caso concreto, sulla domanda o sull’eccezione sottoposta al suo esame, mentre il vizio di omessa motivazione, dopo la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia stato, ma sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico oppure si sia tradotto nella mancanza assoluta di motivazione, nella motivazione apparente, nella motivazione perplessa o incomprensibile o nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili (Cass., Sez. V, 23 ottobre 2024, n. 27551).
È configurabile la decisione implicita di una questione (connessa a una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o rilevabile d’ufficio) quando queste risultino superate e travolte, benché non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione di un’altra questione, il cui solo esame presupponga e comporti, come necessario antecedente logicogiuridico, la loro irrilevanza o infondatezza; ne consegue che la reiezione implicita di una tesi difensiva o di una eccezione è censurabile mediante ricorso per cassazione non per omessa pronunzia (e, dunque, per la violazione di una norma sul procedimento), bensì come violazione di legge e come difetto di motivazione, sempreché la soluzione implicitamente data dal giudice di merito si riveli erronea e censurabile oltre che utilmente censurata, in modo tale, cioè, da portare il controllo di legittimità sulla decisione inespressa e sulla sua decisività (Cass., Sez. III, 8 maggio 2023, n. 12131).
Nel caso di specie, la questione riguardante il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento è stata implicitamente
superata nel corpo della motivazione allorquando, rigettate le eccezioni sull’eccessiva durata della verifica fiscale e della violazione del principio del contraddittorio, si è richiamato l’oggetto del contraddittorio scritto e orale delle parti in merito alla possibilità di considerare la società contribuente ‘ esterovestita ‘ ai fini dell’applicazione della disciplina IVA. Sussiste, peraltro, un difetto di specificità in merito al contenuto dell’avviso di accertamento che difetterebbe di motivazione, lì dove la parte ha avuto modo di difendersi in giudizio nel merito senza evidenziare alcun pregiudizio specifico derivante da un difetto di contraddittorio endoprocedimentale.
-Con il secondo motivo si prospetta la nullità della sentenza impugnata in ragione della violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. , degli artt. 8, 56 e 71 d.P.R. n. 633/1972, dell’art. 73 TUIR, nonché degli artt. 2697 e 2729 c.c. e dell’art. 7 legge n. 212/2000, in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c., per aver la Commissione tributaria regionale violato e falsamento applicato le norme che impongono il dovere di motivazione degli avvisi di accertamento, nonché quelle che impong ono l’obbligo per l’Ufficio di fornire idonea prova dei rilievi fiscali imputati al contribuente.
2.1. -Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Al di là del cumulo di plurime censure all’interno del medesimo motivo, che costituiscono una negazione della regola della chiarezza e richiedono un intervento della S.C. volto ad enucleare dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (Cass., Sez. V, 6 novembre 2024, n. 28541), sussiste l’ inammissibilità della censura per difetto di specificità con riferimento al contenuto dell’avviso di accertamento e al dedotto difetto di motivazione, così come al richiamo alla verifica effettuata nei confronti di terzi e alla sua mancata allegazione.
Sulla questione del riparto dell’onere della prova, mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la censura che investe la valutazione (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 c.p.c.) può essere fatta valere in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass., Sez. VI3, 31 agosto 2020, n. 18092; Cass., Sez. III, 29 maggio 2018, n. 13395; Cass., Sez. III, 17 giugno 2013, n. 15107).
Non vi è, pertanto, alcuna violazione dell’articolo 115 c.p.c. e dell’onere della prova, emergendo dalla motivazione il percorso logico-argomentativo seguito dalla Commissione tributaria regionale alla luce degli elementi di prova forniti dalle parti e dalla loro valutazione, non censurabile in questa sede nei termini prospettati.
3. -Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza impugnata in ragione della manifesta violazione e falsa applicazione degli art. 115 c.p.c., degli artt. 7bis , 8 e 71 d.P.R. n. 633/1972, dell’art. 73 TUIR, degli artt. 2697 e 2729 c.c. ; nonché dell’art. 7 della l. n. 212/2000, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Parte ricorrente contesta l’applicabilità dei criteri di cui all’art. 73 del TUIR, previsti per individuare la residenza delle persone giuridiche ai fini delle imposte sul reddito, ai fini del l’ IVA. Si evidenzia, al riguardo, che se nelle imposte sui redditi il concetto di ‘residenza fiscale effettiva’ è stato elaborato al fine di tutelare da un lato le Amministrazioni finanziarie nazionali dal fenomeno delle ‘migrazione’ verso Paesi a più bassa fiscalità (‘ esterovestizione ‘ ) e, dall’altro, i contribuenti dal rischio di doppie imposizioni, in ambito IVA la soggettività passiva al tributo è del tutto autonoma rispetto al
posizionamento del contribuente nei singoli Stati. Dunque, il ‘soggetto passivo’ è tale a prescindere dal luogo (nazionale o meno) in cui compie le operazioni fiscalmente rilevanti, non esistendo nella normativa comunitaria del l’ IVA nessuna definizione di ‘sede fiscale’ per i soggetti diversi dalle persone fisiche. Qualora quindi risulti provata, nei rispettivi Stati di residenza, la soggettività IVA della società estera soggetta a verifica fiscale da parte dell ‘Amministrazione finanziaria italiana, la predetta circostanza sarebbe di per sé sufficiente a qualificare l’ente come ‘non residente in Italia’ ai fini IVA. Pertanto, la società cessionaria (RAGIONE_SOCIALE) era sottoposta ad IVA (con i relativi obblighi formali e sostanziali) nello Stato di localizzazione (R.S.M.) e non in Italia. Lungi dall’applicare una presunzione di ‘territorialità’ ricavata dalla trasposizione di una norma del TUIR all’ambito IVA, la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto che i criteri fissati dall’art. 8, comma 1 del d.P.R. n. 633/1972 furono nella fattispecie rispettati perché i beni erano stati effettivamente e giuridicamente esportati nella RAGIONE_SOCIALE
3.1. -Il motivo è infondato.
L’ipotesi della cd. esterovestizione ricorre quando una società, pur mantenendo nel territorio dello Stato la sede amministrativa, intesa quale luogo di concreto svolgimento dell’attività di direzione e gestione dell’impresa, localizza la propria residenza fiscale all’estero, al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa, e può essere dimostrata mediante presunzioni, purché gli indici della fittizia localizzazione, desumibili da tutti gli elementi indiziari acquisiti agli atti di causa, siano esaminati nel loro insieme, non atomisticamente, secondo i criteri della gravità, precisione e concordanza tali da trarre vigore l’uno dall’altro, completandosi a
vicenda (Cass., Sez. V, 23 maggio 2024, n. 14485; Cass., Sez. V, 3 giugno 2021, n. 15424).
Questa Corte ha precisato che la nozione di «sede dell’amministrazione», in quanto contrapposta alla «sede legale», deve ritenersi coincidente con quella di «sede effettiva» (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (Cass., Sez. V, 21 giugno 2019, n. 16697).
Sulla stessa linea si è posta la Corte di giustizia nella sentenza del 28 giugno 2007, RAGIONE_SOCIALE , causa C-73/06 in cui è stato affermato che la nozione di sede dell’attività economica «indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultimo (punto 60)».
È stato, inoltre, chiarito che la fattispecie della esterovestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento. Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte di Giustizia 12 settembre 2006, Cadbury RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE , causa C-196/04 (richiamata da Cass., Sez. V, 21 giugno 2019, n. 16697), la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé sola un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se
concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere la normativa dello Stato membro interessato.
Nel caso di specie, sulla base delle risultanze istruttorie, con accertamento di fatto (p. 8 e 9 della sentenza impugnata), è emerso che la società RAGIONE_SOCIALE, pur se costituita all’estero, era di fatto amministrata in Italia (e tutte le società, facenti parte di un unico gruppo economico, facevano capo al signor COGNOME, amministratore anche di RAGIONE_SOCIALE) e in Italia aveva l’ oggetto principale della propria attività, individuato nella commercializzazione di beni prodotti dalla RAGIONE_SOCIALE in Italia. Sul punto, parte ricorrente mira a conseguire una rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità, finendo per criticare il “convincimento” che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, c. 1 e 2 c.p.c., in esito all’esame del materiale probatorio (Cass., Sez. III, 1 giugno 2021, n. 15276).
Riguardo alla questione dell’IVA, l’art. 7, comma 1, lett. d.P.R. 633/1972 stabilisce che « per “soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato” si intende un soggetto passivo domiciliato nel territorio dello Stato o ivi residente che non abbia stabilito il domicilio all’estero, ovvero una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto domiciliato e residente all’estero, limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute. Per i soggetti diversi dalle persone fisiche si considera domicilio il luogo in cui si trova la sede legale e residenza quello in cui si trova la sede effettiva ».
Pertanto è da ritenersi stabilita nel territorio dello Stato anche la società avente la sede ‘effettiva’ nello ‘Stato , come nel caso di specie.
L’art. 4 d.P.R. 633/1972 prevede inoltre che tutte le attività imprenditoriali svolte in Italia sono ivi assoggettate ad imposizione. Il pagamento dell’IVA in Italia è dunque conseguenza diretta dell’accertamento della ‘esterovestizione’.
4. -Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore del l’Agenzia delle entrate in euro 5.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione