Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21505 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21505 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/07/2025
ordinanza
sul ricorso iscritto al n. 27872/2020 R.G. proposto da
Agenzia delle entrate , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
-ricorrente –
Contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME in forza di procura speciale allegata al controricorso
(PEC: EMAIL)
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del LAZIO n. 497/08/2020, depositata il 29.01.2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 aprile 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
La CTP di Roma accoglieva il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso un avviso di accertamento relativo ad Ires, Irap, Iva ed altro, per l’anno d’imposta 2009, rilevando
Oggetto: Tributi
–
Esterovestizione societaria -operazioni inesistenti -Travisamento della prova -Riqualificazione del motivo di ricorso per cassazione
l’invalidità della notifica dell’atto impositivo , la nullità dello stesso avviso di accertamento per la mancata allegazione del PVC e per carenza di potere del funzionario che lo aveva sottoscritto, nonché l’illegittimità delle sanzioni irrogat e all’amministratore di fatto ;
con la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, osservando, per quanto qui rileva, che:
-l’accertamento scaturiva dalla verifica eseguita nei confronti della società contribuente, avente sede legale a Vienna e amministrata da tale NOME COGNOME cittadino italiano residente in Austria dal 2009; in sede di verifica era stata attribuita a detta società la sede in Italia, in quanto era stata ritenuta ‘sponda’ , unitamente alla società RAGIONE_SOCIALE con sede in Romania, di una frode carosello ai danni dell’erario; secondo la prospettazione dell’Agenzia, le due società avrebbero ricevuto le fatture provenienti da fornitori esteri e avrebbero emesso fatture senza IVA nei confronti di imprese italiane inesistenti, le quali, a loro volta, avrebbero fatturato di modo che l’ultim a detraeva l’IVA, considerata quale parte del corrispettivo; le due società sarebbero state gestite, di fatto, dai medesimi soggetti, mentre gli amministratori di diritto sarebbero dei meri prestanome;
la notifica dell’avviso di accertamento nei confronti di NOME COGNOME era regolare, in quanto la rappresentanza delle società, ai fini tributari, quando non sia determinabile secondo la legge civile, è attribuita, ai sensi dell’art. 62 del d.P.R. n. 600 del 1973, all e persone che ne hanno l’amministrazione, anche di fatto ; lo stesso COGNOME inoltre, si era qualificato, nel ricorso di primo grado, rappresentante legale della società;
-l’avviso di accertamento era stato regolarmente sottoscritto da un dirigente dell’Agenzia delle entrate;
la pretesa fiscale era invece infondata, in quanto il contenuto del processo verbale di constatazione, ripreso dall’avviso di accertamento impugnato, tracciava un quadro assolutamente ipotetico, basato ‘ sulle sensazioni personali dei verbalizzanti ‘ e privo di documentazione oggettiva che dimostrasse la frode, non essendo stato provato l’ipotizzato meccanismo fraudolento di emissione di fatture da parte di fornitori esteri, i quali avrebbero successivamente emesso fatture prive di addebito IVA verso missing trader italiani;
il PVC confondeva ‘ in un solo insieme movimenti degli anni 2009, 2010 e 2011 ‘ , mentre l’avviso riguarda va il solo 2009 e non si comprendeva quali collegamenti vi fossero tra l’attività di verificazione e l’ann o di imposta 2009, anche in considerazione della ricostruzione quasi ipotetica e comunque indimostrata della frode carosello;
-l ‘Amministrazione non aveva dimostrato l’esterovestizione, in quanto la contribuente aveva sede in Austria, dove pagava le imposte, e non era stato spiegato come erano stati individuati gli amministratori di fatto e come era stata accertata l’effettiva sede della società contribuente in Roma, in INDIRIZZO;
l ‘Agenzia delle Entrate impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi;
la società contribuente resisteva con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per avere la CTR travisato il contenuto del PVC, errando nel ritenere che la ricostruzione della frode carosello fosse fondata sulle sensazioni personali dei verbalizzanti e che l’esterovestizione fosse una configurazione del tutto astratta , priva di appigli concreti con la realtà, senza considerare le emergenze
documentali indicate in detto PVC, da cui risultava che: nell’anno 2009 la quali totalità delle cessioni effettuate dalla contribuente senza applicazione d’imposta (stante la sua fittizia sede in Austria) era avvenuta nei confronti di soggetti missing traders italiani, privi di adeguata struttura ed evasori di imposta; la contribuente era amministrata di fatto da tali COGNOME e COGNOME; la sede effettiva della contribuente era in Italia;
con il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 cod. civ. e 73 d.P.R. n. 917/1986, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. per avere la CTR ritenuto non provata la esterovestizione della società contribuente, avendo pretermesso la doverosa valutazione analitica e unitaria degli elementi presuntivi indicati nell’atto impositivo ( sinteticamente riportati ai punti n. 11 e n. 11.1 del ricorso per cassazione), sulla base dei quali risultava provata la residenza effettiva della medesima in Italia, sia sotto il profilo della sede dell’amministrazione che con riferimento all’oggetto principale dell’attività ;
con il terzo motivo deduce la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., 6 e 21 del d.P.R. n. 633/1972, 39 e 41 del d.P.R. n. 600/1973 , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. , per non avere la CTR considerato che quasi tutte le operazioni realizzate dalla società contribuente facevano parte di un percorso ‘circolare’ in cui si inseriva, come tassello fondamentale, la cessione di merci, senza l’applicazione dell’I VA, a soggetti missing traders, evasori totali e privi di adeguata struttura materiale e personale;
il primo motivo, che va riqualificato come deduzione di omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., è fondato;
sul punto occorre rilevare che l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua
sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, c.p.c., né determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass. n. 25557 del 2017; n. 4036 del 2014 e, da ultimo, n. 759 del 2025);
nel caso in esame, di là dalla rubrica, la formulazione del motivo si snoda attraverso l’indicazione di una serie di fatti probatori , l’esame dei quali è stato nella sostanza pretermesso dal giudice d’appello, il quale si è, invece, limitato a discorrere di ‘ sensazioni personali dei verbalizzanti ‘;
si è chiarito, infatti, che se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale (Cass. S.U. n. 5792 del 2024);
il motivo, come riqualificato, è ammissibile, in quanto la sentenza di appello di fonda su ragioni diverse rispetto alla decisione di primo grado, che, come si è visto, ha incentrato l’accoglimento del ricorso su vizi meramente formali dell’atto impositivo (invalidità della notifica, nullità dell’atto per mancanza di delega, mancata allegazione del PVC);
-sempre in via preliminare va disattesa l’eccezione di giudicato interno, sollevata dalla difesa della controricorrente (ad es. a p. 5 del controricorso), in relazione alla mancata impugnazione della circostanza concernente l’insussistenza della esterovestizione;
-secondo l’orientamento di questa Corte, ‘ Il giudicato interno si forma solo su di un capo autonomo della sentenza che risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente, e non sussiste nei riguardi di una mera argomentazione, ossia della semplice
esposizione di un’astratta tesi giuridica, anche quando sia utile a risolvere questioni strumentali all’attribuzione del bene controverso ‘ (Cass. n. 20951 del 2022; n. 23747 del 2008), nel senso che ‘ In tema di appello, la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dare luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, risolutivi di questioni controverse che, dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni, oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente agli altri, concorrano a formare un capo unico della decisione ‘ (Cass. n. 40276 del 2021; n. 21566 del 2017);
il giudicato interno, quindi, si forma solo sull’unità minima di decisione, che è quella che ricollega ad un fatto, qualificato da una norma, un determinato effetto, per cui, ove l ‘ impugnazione investa anche uno solo degli elementi della «sequenza minima» fatto/norma/effetto nessun giudicato interno può dirsi formato (Cass. n. 28565 del 2022; n. 24249 del 2024);
-l’Agenzia appellante, come si evince dalla sentenza impugnata (p. 5) e dal ricorso per cassazione (p. 6, punto V), ha censurato con l’atto di appello anche la ritenuta infondatezza della pretesa, sicché in tale censura era ricompresa anche la questione relativa alla sussistenza della esterovestizione;
ciò posto, occorre premettere che per esterovestizione s’intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale (Cass. n. 2869 del 2013); a tal fine, tuttavia, è necessario che, per un verso, tale meccanismo abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe
contraria all’obiettivo perseguito dalle norme e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (Corte giust. 17 dicembre 2015, causa C-419/14, RAGIONE_SOCIALE, punto 36);
-per potersi configurare un’ipotesi di esterovestizione non è necessario accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma occorre verificare l’effettività del trasferimento, cioè se la singola operazione sia meramente artificiosa, risolvendosi nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica, fermo restando che la società esterovestita non è, per ciò solo, priva di autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, automaticamente qualificabile come “schermo” creato con l’unico obiettivo di farvi confluire i profitti degli illeciti fiscali (Cass. n. 33234 del 2018);
-è stato evidenziato, peraltro, che il contrasto del fenomeno dell’esterovestizione societaria assume valenza di principio generale dell’ordinamento applicabile non soltanto alle imposte sui redditi (nel cui testo unico sono inserite le relative norme, quali l’art. 73, comma 3 e comma 5-bis, che prevedono presunzioni), ma anche alle imposte indirette, trovando il suo fondamento nel diritto tributario europeo, nel dovere costituzionale di partecipare alla spesa pubblica e nelle regole di derivazione UE e OCSE (Cass. n. 2869/2013 cit.);
tale orientamento è in linea con i principi unionali, avendo la Corte di Giustizia dell’UE, anche recentemente precisato (sentenza del 25 aprile 2024, causa C276/22) che ‘ la repressione della frode e dell’evasione fiscale può giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento di cui all’articolo 49 TFUE a condizione che l’obiettivo specifico della restrizione stessa sia di impedire condotte consistenti
nella creazione di costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica , finalizzate a eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale (v., in tal senso, sentenze del 12 settembre 2006, Cadbury RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C-196/04, EU:C:2006:544, punto 55, nonché del 20 gennaio 2021, Lexel, C-484/19, EU:C:2021:34, punto 49)’;
sul piano della prova, poi, va ribadito che l’esterovestizione può essere dimostrata anche mediante presunzioni, purché gli indici della fittizia localizzazione, desumibili da tutti gli elementi indiziari acquisiti agli atti di causa, siano esaminati nel loro insieme, non atomisticamente, secondo i criteri della gravità, precisione e concordanza tali da trarre vigore l’uno dall’altro, completandosi a vicenda (Cass. n. 14485 del 2024);
– a tale proposito, sempre i giudici unionali hanno chiarito che se, da un lato, ‘il fatto di stabilire la sede, legale o effettiva, di una società in conformità alla legislazione di uno Stato membro al fine di beneficiare di una legislazione più vantaggiosa non costituisce di per sé un abuso (v., in tal senso, sentenze del 9 marzo 1999, Centros, C-212/97, EU:C:1999:126, punto 27, e del 25 ottobre 2017, Polbud -Wykonawstwo, C106/16, EU:C:2017:804, punto 40)’, dall’altro, ‘la mera circostanza che una società, pur avendo la propria sede in uno Stato membro, svolga la parte principale delle sue attività in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di frode, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (v., per analogia, sentenza del 25 ottobre 2017, Polbud -Wykonawstwo, C-106/16, EU:C:2017:804, punto 63). Orbene, nel caso di specie, se la normativa di cui trattasi nel procedimento principale dovesse essere interpretata nel senso che impone l’applicazione sistematica della legge italiana a qualsiasi
atto di gestione di una società avente sede in un altro Stato membro ma che svolge la parte principale delle sue attività in Italia, essa equivarrebbe a introdurre una presunzione secondo cui i comportamenti di tale società sarebbero abusivi. Alla luce delle considerazioni esposte ai punti 47 e 48 della presente sentenza, una normativa di questo tipo sarebbe sproporzionata (v., per analogia, sentenza del 25 ottobre 2017, Polbud -Wykonawstwo, C-106/16, EU:C:2017:804, punto 64) (sentenza in causa C-276/22 cit., punti 47, 48 e 49);
orbene, la CTR ha affermato che la contribuente aveva sede in Austria, perché lì pagava le imposte, e che non era stato chiarito come erano stati individuati gli amministratori di fatto ed accertata l’effettiva sede della società contribuente in Italia;
la ricorrente Agenzia ha, invece, dedotto sul punto una serie di fatti, specificatamente indicati nel PVC prodotto in giudizio (riportati per autosufficienza nel testo del ricorso per cassazione) e contestati anche in appello, ma non esaminati dalla Commissione regionale; ed invero, sulla base di documenti acquisiti mediante rogatoria internazionale, riguardanti anche altre società, era emerso, a titolo meramente esemplificativo, che: tutto il traffico telefonico generato dai cellulari aziendali proveniva da chiamate effettuate in Italia; i reali amministratori della contribuente (COGNOME e COGNOME) erano residenti in Italia, mentre l’amministratore di diritto , anche egli residente in Italia, era un prestanome; erano stati acquisiti contratti che affidavano l’attività di amministrazione della società contribuente alla RAGIONE_SOCIALE con sede a Roma, INDIRIZZO, amministrata da COGNOME Vincenzo ; quando l’Anello e il COGNOME andavano a Vienna, dimoravano in albergo e la loro presenza a Vienna nel 2009 era limitata ad alcuni giorni; la contribuente disponeva a Vienna solo di un ufficio con segreteria, incaricata di gestire traffico telefonico e
fax, messi a disposizione dalla RAGIONE_SOCIALE che nel 2009 aveva fatturato solo 17 telefonate, 27 fax e 15 minuti di prestazioni di segreteria;
-l’indebito vantaggio fiscale derivante dalla fittizia collocazione della sede della contribuente all’estero era consistito nel mancato addebito di IVA sulle cessioni effettuate esclusivamente a soggetti italiani che, essendo società missing traders , prive di adeguata struttura ed evasori di imposta , non provvedevano poi al versamento dell’IVA in Italia;
i giudici di appello hanno escluso che la sede estera della società contribuente fosse fittizia solo sulla base della circostanza che la stessa versava le imposte nello Stato estero e che non era stata individuata la sede italiana, senza considerare i principi prima richiamati in tema di esterovestizione e non esaminando, nel loro insieme, diversi fatti specificatamente indicati nell’atto impositivo , riprodotti, per autosufficienza, nel testo del ricorso per cassazione;
nel l’accoglimento de l primo motivo, rimane assorbito l’esame de i restanti motivi;
in conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, la sentenza va cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado territorialmente competente, in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata, con riguardo al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 29 aprile 2025.