Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 34607 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 34607 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 27/12/2024
revocazione
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16601/2023 R.G. proposto da:
COGNOME ILARIO, rappresentato e difeso, come da procura in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME COGNOME ; pec: EMAIL, parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;
-controricorrente – per la revocazione della ordinanza della Corte Suprema di Cassazione n. 1733/2023 depositata in data 20 gennaio 2023, non notificata;
udita la relazione tenuta nell’adunanza camerale del 28 novembre 2024 dal consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate, sulla base di indagini bancarie su conti correnti riconducibili a NOME COGNOME, emetteva, ai sensi degli artt. 32 e 38 del d.P.R. 600/1973, tre avvisi di accertamento per il recupero a imposizione di redditi non dichiarati degli anni 2012, 2013 e 2014.
I ricorsi avverso tali avvisi venivano riuniti e respinti dall ‘ adita CTP di Varese, con sentenza confermata dalla CTR della Lombardia. In particolare la CTR affermava che non era dimostrata la prospettazione del contribuente, secondo cui le disponibilità rinvenute sui conti a lui riconducibili derivavano da operazioni di giroconto, per la precisione prelievi per euro 475.000,39 effettuati tra il 29.11.2007 e il 25.3.2008 e versamenti per euro 419.060,00 effettuati tra il 4.10.2011 e il 24.9.2014; essendo incontroverso che gli importi originari rinvenissero da «liquidazione societaria, eredità familiari e investimenti azionari» (come da verbale delle operazioni di controllo della Guardia di Finanza), tuttavia -evidenziava la CTR- «non vi è agli atti alcuna prova obiettiva e concreta della corrispondenza degli importi prelevati negli anni 20072008 …. con quelli versati ben quattro anni dopo». La CTR aggiungeva che il riferimento fatto dal contribuente alla pronuncia Cass. n. 7295/2017 era «inconferente rispetto alla fattispecie in oggetto» dato che questa sentenza era «intervenuta a deliberare su movimentazioni, diversamente da quanto accaduto nel caso di specie, poste in essere nell’arco della medesima annualità».
Avverso la sentenza della CTR il contribuente propose ricorso per cassazione lamentando la violazione degli artt. 32 e 38 del d.P.R. 600/1973 e degli artt. 2727, 2729 e 2679 cod. civ. per avere la CTR trascurato elementi -il rapporto tra le somme prelevate tra il 2007 e il 2011 e gli importi accertati dall’ufficio; le spese (6.000 euro per
acquieto di autovettura nel 2008 e 1.062,73 euro al mese, per esigenze ordinarie di vita); la corrispondenza tra somme prelevate, dedotte le spese, e gli importi accertati, per cui «la mancanza di corrispondenza tra date ed importi dei prelievi rispetto ai versamenti non possa costituire valida presunzione utile a fondare l’accertamento dell’ufficio». Il contribuente insisteva nel dedurre l’erroneità dell ‘ affermazione della CTR di non conferenza, rispetto al caso di specie, della ordinanza n. 7259/2017 di questa Corte; la CTR, da un lato, in base a tale sentenza, avrebbe dovuto verificare se gli importi prelevati fossero o meno superiori a quelli versati e se la eventuale differenza fosse o meno compatibile con le ordinarie esigenze di vita del contribuente.
La Corte di cassazione, sesta sezione civile, con ordinanza n. 1733 del 2023 rigettò il ricorso.
Contro tale ordinanza il contribuente propone ricorso per revocazione al quale l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 28 novembre 2024.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Occorre premettere che il ricorso risulta iscritto in origine due volte a ruolo, con i nn. R G 16601/2023 e poi 16710/2023, quest’ultimo numero di iscrizione annullato dalla cancelleria.
Occorre ancora premettere che l’ordinanza impugnata attiene a una sentenza di appello relativa ad un avviso di accertamento Irpef basato sulle indagini bancarie di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973.
La Corte ha preliminarmente evidenziato il riparto degli oneri probatori previsto in tema di accertamenti bancari da tale disposizione e la natura di presunzione legale attribuita dalla stessa ai versamenti nonchè la deducibilità in cassazione della violazione degli artt. 2727 e
2729 cod. civ. solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li assuma a fondamento della decisione; successivamente ha evidenziato che la CTR, affermando che il contribuente non aveva dato alcuna prova della derivazione delle disponibilità accertate dall’ufficio da disponibilità prelevate e riversate, aveva pienamente rispettato l’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 e quindi l’art. 2697 cod. civ. (sull’onere del contribuente di vincere la presunzione posta dall’art. 32) e non era incorsa in alcuna delle possibili censure di violazione degli artt. 2727 e 2729.
Con un ‘ ulteriore considerazione, la Corte ha poi evidenziato che, ove la doglianza avanzata dal contribuente fosse qualificabile come denuncia di omesso esame di un fatto decisivo ai fini della soluzione della controversia, ex n. 5 dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., tale motivo si rivela inammissibile per difetto di specifica indicazione del dato rilevante. Evidenziava infatti che «Il ricorrente indica i fatti significativi nelle spese – Euro 6.000,00 per acquisto di un’auto nel 2008; Euro 1.062,73 il mese, per esigenze ordinarie di vita – che, dedotte dalle somme prelevate dai conti tra il 2007 e il 2011, porterebbero alla corrispondenza tra dette somma e gli importi accertati dall’ufficio. Tuttavia il contribuente dice di avere “narrato” di tali spese nell’atto di appello ma omette di indicare il dato da cui tali spese risulterebbero. In sostanza il contribuente non ha soddisfatto il principio di localizzazione, corollario di quello di autosufficienza (artt. 366 e 369c.p.c.), che impone di indicare come e quando il fatto di cui viene lamentato l’omesso esame sia stato introdotto in causa».
Il ricorso per revocazione è proposto con un motivo ai sensi dell’art. 395, n. 4 cod. proc. civ., assumendo un errore di fatto nella lettura degli atti processuali.
L’errore di fatto sarebbe laddove si assume che il ricorrente abbia omesso di indicare nel ricorso il dato da cui le spese di euro 6.000,00 e di euro 1.062,73 deriverebbero.
Il ricorrente deduce infatti in primo luogo che l’affermazione (dubitativa) dell’ ordinanza n. 1733/2023 («il contribuente dice di avere “narrato” di tali spese nell’atto di appello») è smentita dal fatto che l’atto di appello era stato, su tali punti, ritrascritto nel ricorso per cassazione, da pagina 16 a pagina 18, per cui il ricorrente aveva, quindi, effettivamente narrato di tali spese nell’appello .
In secondo luogo, censura l’ affermazione secondo cui sarebbe stata omessa l’indicazione del dato dal quale risulta no la spesa di euro 6.000,00 ed altresì l’ulteriore spesa di euro 1.062,73 mensile, in realtà avvenuta in quanto l’atto di appello era stato in parte qua trascritto nel ricorso per cassazione.
Per quanto riguarda la spesa di euro 6.000,00, il ricorrente avrebbe indicato che essa è relativa ad «acquisto di un autoveicolo, avvenuto in data 7 marzo 2008».
Anche per quanto concerne la spesa mensile di euro 1.062,73, necessaria alle ordinarie esigenze di vita del ricorrente, non vi è stata omissione del dato dalla quale essa deriva. Infatti nel ricorso di legittimità sarebbe chiaramente spiegato, mediante la trascrizione dell’appello, che «esso è rappresentato dalla seguente ‘divisione’: somma di e uro 49.948,39 (differenza tra i ‘prelevamenti’ di euro 475.008,39 e i ‘versamenti’ di euro 419.060,00 con detrazione della già citata ‘spesa straordinaria’ di euro 6.000,00 della vettura acquistata nel 2008 dal ricorrente) divisa per il numero di mesi (48) intercorrenti tra il periodo dei prelevamenti (2007) e l’inizio dei
successivi ‘versamenti’ (2001). Il risultato di tale divisione determina la ‘spesa mensile’ del ricorrente per le ‘ordinarie esigenze di vita’ (nel senso indicato dalla Sentenza n. 7259/2017 di Codesta Ecc.ma Suprema Corte), appunto pari ad euro 1.062,73. Tale ‘spesa mensile’ di e uro 1.062,73 è ‘decisiva’ per la presente vertenza in quanto essa è necessaria per procedere alla verifica da parte del Giudice di merito (secondo quanto statuito dalla Sentenza n. 7259/2017 di Codesta Ecc.ma Suprema Corte) della s ua ‘compatibilità anche in relazione al dato temporale’ con le ‘ordinarie esigenze di vita’ del ricorrente ».
Su tali premesse il ricorrente chiede quindi la revocazione della ordinanza e la conseguente cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla CTR perché compia gli accertamenti di fatto omessi.
L’ammissibilità dell’istanza di revocazione di una pronuncia di questa Corte presuppone un errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ. e, dunque, un errore di percezione, o una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti invece incontestabilmente escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa ( ex multis , Cass. 11/01/2018, n. 442).
L’errore revocatorio postula il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, l’una desumibile dalla sentenza e l’altra dagli atti e dai documenti processuali, e non concerne un fatto che sia stato discusso dalle parti e quindi trattato nella pronuncia del giudice. Il discrimine tra l’errore revocatorio e l’errore di diritto risiede nel carattere meramente percettivo del primo e nell’assenza di quell’attività di valutazione che rappresenta, per contro, l’indefettibile tratto distintivo del secondo (Cass., Sez. U., 27/11/2019, n. 31032).
Ne consegue che l’errore revocatorio «non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche, deve consistere in un errore di percezione e deve avere rilevanza decisiva, oltre a rivestire
i caratteri dell’assoluta evidenza e della rilevabilità sulla scorta del mero raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti o documenti del giudizio, senza che si debba, perciò, ricorrere all’utilizzazione di argomentazioni induttive o a particolari indagini che impongano una ricostruzione interpretativa degli atti medesimi» (Cass. 26/01/2022, n. 2236, punto 3).
L’applicazione di tali principi al caso di specie induce alle seguenti considerazioni.
In primo luogo, non sussiste alcun errore revocatorio nell’affermazione secondo cui « il contribuente dice di avere “narrato” di tali spese nell’atto di appello » in quanto l’attribuzione di una natura dubitativa a tale statuizione è del tutto priva di alcuna evidenza.
In secondo luogo, è inammissibile anche il resto della censura.
Il ricorso deciso dalla Corte proponeva infatti un motivo di censura in termini di violazione di legge e precisamente degli artt. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, 2697, 2727 e 2729 cod. civ., rigettato dalla ordinanza che, solo in chiave di completezza delle argomentazioni, evidenziava che la censura non potesse neanche essere ammessa come omesso esame di un fatto decisivo ostandovi la mancata indicazione del dato dal quale tali spese risultavano, il che è confermato dal fatto che lo stesso ricorrente ammette che l’indicazione delle somme predette è in larga parte il frutto di un calcolo matematico. Trattasi quindi di una valutazione non suscettibile di costituire errore revocatorio.
Inoltre, e soprattutto, la parte ricorrente omette del tutto di affrontare in questa sede la rilevanza decisiva dell’errore nell’economia della motivazione; i dati indicati dal ricorrente sono infatti funzionali all’applicazione del principio espresso da Cass. n. 7259/2017, secondo cui sussiste giustificazione del versamento ove si tratti di un sostanziale giroconto, verifica, in quel caso, rimessa all’apprezzamento di fatto del giudice di merito, con un accertamento da effettuarsi in base a
determinati criteri, tra cui la corrispondenza delle somme prelevate con quelle poi versate e la giustificazione di un’eventuale differenza. I giudici di appello, nel caso in esame, invece esclusero l’applicabilità dei principi espressi dalla Cassazione nella richiamata ordinanza n. 7259/2017 in ragione di una considerazione diversa e posta a monte de ll’applicazione dei predetti criteri direttivi, e cioè la distanza temporale dei prelevamenti e dei versamenti, allorquando nel richiamato precedente si era trattato di prelievi e versamenti esauriti in un ristretto intervallo temporale, e non in ragione della differenza quantitativa; ciò è evidente nella motivazione ove si afferma che «anche le operazioni di giroconto richiamate dal contribuente risultano eseguite in periodi diversi e temporalmente distanti tra loro, in guisa da precluderne la obiettiva e certa tracciabilità. Ed inconferente rispetto alla fattispecie in oggetto si rivela la pronuncia del giudice di legittimità della quale l’appellante richiama l’applicazione (Cass. n. 7259/2017) intervenuta a delibare su movimentazioni, diversamente da quanto accaduto nel caso di specie, poste in essere nell’arco della medesima annualità». Occorre appena precisare che il riferimento della CTR non implica affatto la necessità che si tratti di operazioni compiute nello stesso anno di imposta, come ritenuto dal ricorrente, ma appare far riferimento all’annualità in chiave fattuale quale indice di una sostanziale contiguità temporale tra prelevamenti e versamenti.
Concludendo, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Alla soccombenza segue condanna al pagamento delle spese liquidate come in dispositivo.
Inoltre, occorre fare applicazione del principio per cui il giudice dell’impugnazione che emetta una delle pronunce previste dall’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, è tenuto a dare atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’importo ulteriore del contributo unificato (c.d. doppio contributo) anche quando
esso non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venire meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato), potendo invece esimersi dal rendere detta attestazione quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo (Cass., Sez. U., 20/02/2020, n. 4315) .
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, spese che liquida in euro 5.600,00 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 , della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma in data 28 novembre 2024.