Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24735 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24735 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/09/2025
ORDINANZA
n. 11249/2016 R.G.
COGNOME
Rep.
sul ricorso (iscritto al n. 11249/2016 R.G.) proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata ‘ ope legis ‘ presso gli uffici di quest’ultima, siti in Roma, alla INDIRIZZO (indirizzo p.e.c.: EMAIL);
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, con sede in Roma, alla INDIRIZZO, in persona del legale rappresentante pro tempore ;
-intimata – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio (Roma) n. 5600/1/2015, pubblicata il 27 ottobre 2015;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 10 aprile 2025, dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.- In punto di fatto e limitando l’esposizione alle sole circostanze rilevanti in questa sede, si osserva che l ‘ Agenzia delle Entrate notificava alla società
RAGIONE_SOCIALE l ‘ avviso di accertamento n. TK3032405931/2010, relativo all’anno d’imposta 2005, con il quale recuperava a tassazione ai fini IRES e IRAP costi dell’importo di € . 2.374.000,00 (euro duemilionitrecentosettantaquattromila/00) e, ai fini IVA, costi dell’importo di € . 3.134.000,00 (euro tremilionicentotrentaquattromila/00), ritenuti afferenti a operazioni soggettivamente inesistenti.
Le fatture oggetto di contestazione risultavano emesse, infatti, da quattro società. Due di esse risultavano essere cessate, rispettivamente, nell’anno 1999 e nell’anno 2003. La terza, sebbene in attività, non aveva dichiarato alcun ricavo nell’anno 2005 e la quarta era stata cancellata nel 2006 dal registro delle imprese per trasferimento in Ungheria.
Quest’ultima, peraltro, nell’anno 2005, non aveva presentato il modello di dichiarazione unificata.
L’amministrazione finanziaria rilevava, inoltre, che la società contribuente non aveva prodotto i contratti relativi ai servizi documentati dalle fatture le quali, peraltro, riportavano descrizioni alquanto generiche. I costi in contestazione rappresentavano il 97% circa degli acquisti imponibili a fini IVA nell’anno d’imposta suddetto.
La società contribuente ricorreva dinanzi alla CTP di Roma che accoglieva parzialmente il ricorso e annullava la ripresa a tassazione ai fini IRES e IRAP, mentre confermava quella a fini IVA.
2.- La CTR del Lazio (Roma) , investita dall’appello della società contribuente, lo rigettava, osservando che: l’amministrazione finanziaria aveva fornito dimostrazione circa il fatto che le fatture provenivano da soggetti commercialmente inesistenti; – la contribuente non aveva fornito, né in primo grado né in appello, la documentazione inerente ai contratti relativi ai servizi sottostanti alle fatture ricevute e nemmeno eventuali preventivi o offerte delle imprese contraenti, o, ancora, corrispondenza valevole a dimostrare l’esistenza dei rapporti intercorsi con tali imprese; -nemmeno era stata fornita alcuna dimostrazione circa la buona fede della contribuente.
3.Avverso la menzionata sentenza d’appello , la contribuente proponeva ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4), c.p.c., osservando che la CTR aveva deciso sulla base dell’errato presupposto della mancata produzione da parte della contribuente di documentazione
probatoria valevole a dimostrare la sua buona fede. Tale buona fede sarebbe stata dimostrata mediante la produzione in giudizio di una lettera di conferimento ad un terzo, tale NOME COGNOME dell’incarico di selezionare e curare i rapporti con le imprese appaltatrici dei servizi di realizzazione dei film, emittenti le fatture asseritamente false sotto il profilo soggettivo.
Tale documentazione sarebbe stata decisiva per il giudizio.
La CTR del Lazio , con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, accoglieva la revocazione, affermando che la sentenza d’appello impugnata, nella parte in cui aveva affermato la mancanza di qualsivoglia documentazione a fini di prova della buona fede della contribuente, era incorsa in un errore di percezione ex art. 395, n. 4), c.p.c.
4.- Avverso la menzionata sentenza pronunciata dalla CTR del Lazio (Roma) in sede di revocazione , l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
5.- La contribuente società RAGIONE_SOCIALE è rimasta intimata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’ art. 395, n. 4), c.p.c..
Evidenzia, al riguardo, come la CTR, con la sentenza revocata, avesse affermato che: « non risulta fornita alcuna dimostrazione circa la buona fede del contribuente. » e che t ale affermazione integrerebbe un’attività di giudizio. Dunque, contrariamente a quanto affermato nel ricorso per revocazione, non corrisponderebbe al vero che la CTR, nella sentenza revocata, avrebbe affermato che la società contribuente non aveva prodotto documentazione attestante (cioè comprovante) la propria buona fede.
Sostiene, altresì, come il mancato esame di documenti che il giudice motivi affermando che essi non risultano inclusi tra gli atti del processo può essere prospettato come errore di fatto unicamente quando tali documenti siano ictu oculi decisivi, ossia tali da determinare con certezza una decisione diversa da quella adottata e, quindi, costituiscano prova diretta di un fatto costitutivo o estintivo di un diritto non contrastata da altre prove in atti, mentre deve escludersi l’esperibilità dell’impugnazione ex art. 395, n. 4), c.p.c., nell’ipotesi in cui i documenti debbano essere
valutati in un più ampio contesto probatorio e, in particolare, nell’ipotesi in cui il fatto in essi rappresentato costituisca un mero indizio.
2.- Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’ a rt. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 19, comma 1, 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e dei principi affermati dalla CGUE nella sentenza del 12 gennaio 2006 (C-354/2003, 355/2003 e 484/2003) e nella sentenza del 6 luglio 2006 (C-439/2004 e 440/2004).
Sostiene, al riguardo, che, in base a tali arresti della giurisprudenza unionale, la buona fede, intesa come mera ignoranza, non sarebbe sufficiente a fondare il diritto a detrarre l’imposta, potendo questo diritto essere negato qualora risulti che l’operatore, usando l’ordinaria diligenza richiesta per la sua attività, avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode. In altri termini, il cessionario (al quale viene contestata l’indetraibilità dell’IVA) avrebbe l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti coinvolti nell’evasione.
3.- La prima delle suddette censure è senz’altro fondata, con conseguente assorbimento della seconda.
Ed invero, come chiarito da questa Corte regolatrice, in tema di revocazione, l’errore rilevante ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c.: a) consiste nell’erronea percezione dei fatti di causa che abbia indotto la supposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di causa (sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito terreno di discussione delle parti); b) non può concernere l’attività interpretativa e valutativa; c) deve possedere i caratteri dell’evidenza assoluta e dell’immediata rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti di causa; d) deve essere essenziale e decisivo; e) deve riguardare solo gli atti interni al giudizio (cfr., in tal senso ed ‘ ex
multis ‘, Cass. civ., Sez. U, ordinanza n. 20013 del 19 luglio 2024, Rv . 671759-01).
Orbene, con espresso riguardo alla fattispecie in esame, non è chi non veda come la Commissione regionale, in sede di revocazione, abbia censurato non già un errore percettivo, compiuto dalla sentenza revocata, ma piuttosto l’attività valutativa realizzata dai giudici che l’avevano emanata. E ciò, in quanto tale sentenza aveva fondato il rigetto dell’appello, proposto dalla società contribuente, non soltanto sull’assenza della documentazione valevole a dimostrare l’esistenza dei rapporti intercorsi con le imprese fornitrici, ma anche e soprattutto sulla divisata assenza di prova concernente l’elemento soggettivo della buona fede in favore della società contribuente RAGIONE_SOCIALE
In tal senso, dunque, la suddetta documentazione difettava altresì del requisito della decisività, posto che la stessa doveva pur sempre essere valutata nell’ambito d el complessivo contesto probatorio e, cioè, unitamente agli altri elementi di prova (nella specie non offerti dalla società odierna intimata a carico della quale gravava il relativo onere) eventualmente attinenti, in particolare, proprio all’elemento soggettivo della buona fede con cui la contribuente avrebbe svolto le trattative ed acquistato i servizi dalle società che avevano emesso le fatture, ritenendo incolpevolmente che essi fosse realmente forniti da queste ultime.
È appena il caso di ricordare, infatti, come secondo quanto più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice, « In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di
ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto. » (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 15369 del 20 luglio 2020, Rv. 658429-01).
4.Dalle considerazioni finora sviluppate, deriva, dunque, l’accoglimento del primo motivo, con assorbimento del secondo.
Deve, conseguentemente, disporsi, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può senz’altro essere decisa nel merito, con declaratoria d’inammissibilità della revocazione originariamente proposta dalla società contribuente.
5.- Le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza dell’intimata e si liquidano come da dispositivo.
Sussistono, invece, in ragione dell’andamento del giudizio, motivi idonei a giustificare l’integrale compensazione delle spese relative ai gradi di merito.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, dichiara l’inammissibilità della revocazione originariamente proposta dalla contribuente; dichiara interamente compensate le spese relative ai gradi di merito; condanna l ‘intimata al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi €. 11.000,00 (euro undicimila/00), oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria,