Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 31650 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 31650 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/12/2024
Revocazione-errore di fatto-questione processuale
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18818/2020 R.G. proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME ,
-ricorrente –
Contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, INDIRIZZO, è domiciliata ex lege ,
-controricorrente –
avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. SICILIA, sezione staccata di Siracusa, n. 6209/2019, depositata il 28/10/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1° ottobre 2024 dal consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
NOME COGNOME nella dichiarata qualità di «consegnatario dell’avviso di accertamento TY7031B02058/2015 » -ricorre nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Quest’ultima è stata resa dalla C.t.r. a definizione di un giudizio di revocazione proposto dallo stesso ricorrente avverso la sentenza n. 4333 del 2018 della C.t.r.
1.1. Il contribuente – espressamente spendendo la qualità di consegnatario dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società di cui era stato amministratore unico e socio, RAGIONE_SOCIALE – aveva impugnato l’atto impositivo innanzi alla C.t.p. di Siracusa.
La C.t.p. aveva rigettato il ricorso con sentenza n. 4812 del 2016. Avverso detta ultima il Cristina aveva proposto appello innanzi alla C.t.r. Sicilia, sezione staccata di Siracusa, la quale, con la sentenza n. 4333 del 2018, lo aveva dichiarato inammissibile. Il giudice del secondo grado rilevava che la società destinataria dell’atto impositivo si era cancellata prima dell’emissione dell’avviso di accertamento e che, pertanto, doveva considerarsi soggetto non esistente, e che l’atto impositivo era stato notificato al socio, ma aveva come destinataria la società; di seguito affermava testualmente che «nessun ricorso poteva essere promossa in nome e per conto di un soggetto non più esistente, conseguendone l’inammissibilità dello stesso proposto in nome della società estinta» (v. pag. 2 del controricorso in Cassazione).
Avverso detta sentenza ricorreva per revocazione NOME ritenendo che la decisione fosse il frutto di un errore di fatto poiché, in
realtà, nel giudizio aveva agito espressamente quale mero consegnatario dell’atto, senza spendere il nome della società.
La C.t.r. adita per la revocazione, con la sentenza qui impugnata (la n. 6209 del 2019), rigettava il ricorso ritenendo che alcun errore di fatto fosse stato commesso dal giudice dell’appello, ma, semmai, un errore di diritto in ordine alla qualificazione giuridica del soggetto legittimato. Osservava in proposito che il ricorso proposto nella qualità di consegnatario dell’atto necessitava comunque di sciogliere il nodo della legittimazione del ricorrente. Aggiungeva che dalla motivazione resa risultava evidente che la C.t.r. – sul corretto presupposto di fatto che il ricorso fosse stato proposto dal Cristina quale consegnatario dell’atto impositivo – aveva ritenuto, nell’esercizio del potere di qualificazione della domanda, che impone l’individuazione del soggetto che la propone, che il medesimo fosse stato spiegato in nome e per conto della società e che l’eventuale errore commesso in ragione di tale qualificazione integrasse errore in diritto.
Il contribuente ha depositato memoria.
Considerato che:
Con l’unico motivo NOME denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 395 primo comma, n. 4 cod. proc. civ., d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 per non aver riconosciuto l’errore revocatorio in cui era incorsa la C.t.r.
Osserva il Cristina che la sentenza n. 4333 del 2018 – resa in appello ed oggetto della domanda di revocazione – non conteneva alcun riferimento al fatto che nel giudizio fosse stata spesa la qualità di consegnatario dell’atto impositivo ; che, al contrario, sin dall’esposizione in fatto, la CRAGIONE_SOCIALE aveva fatto riferimento alla circostanza che il ricorso originario era stato proposto nella qualità di rappresentante legale della società. Deduce, di conseguenza, che il
giudice del secondo grado non aveva affatto risolto la questione della legittimazione attiva a seguito di una valutazione in diritto; piuttosto, era palese che non si fosse semplicemente avveduto che il ricorso era stato proposto nella diversa qualità di consegnatario dell’atto impositivo.
Il ricorso è infondato.
2.1. Per costante giurisprudenza di legittimità, l’errore di fatto previsto dall’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., idoneo a costituire motivo di revocazione, consiste in una falsa percezione della realtà o in una svista materiale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa, purché non cada su un punto controverso e non attenga a un’errata valutazione delle risultanze processuali (tra le tante Cass. 26/01/2022, n. 2236, Cass. 22/10/2019, n. 26890, Cass. 30/10/2018, n. 27570). Nello stesso senso si è precisato che non costituisce errore di fatto revocatorio l’eventuale omessa considerazione di una questione processuale, quand’anche rilevabile d’ufficio. Infatti, l’omesso esame di una circostanza processuale non corrisponde alla falsa percezione, sostrato dell’errore revocatorio, perché, mentre quest’ultima comporta l’erronea supposizione, la prima resta un fatto che non si traduce in alcuna attività, cui la legge collega unicamente l’effetto dell’eventuale vizio motivazionale, o della violazione processuale (Cass. 04/05/2023, n. n.11691).
2.2. Per altro verso, va chiarito che spetta al giudice procedere all’identificazione della parte che agisce in giudizio e che l’errore eventualmente compiuto in tale identificazione determina un vizio processuale che può farsi valere con gli ordinari mezzi impugnatori e non con la revocazione.
Sul punto, a conferma dell’attività valutativa sottesa a tale individuazione, questa Corte ha già ritenuto che il requisito della spendita del nome, necessario perché l’atto compiuto dal rappresentante possa essere imputato al rappresentato, non richiede l’uso di formule sacramentali e può evincersi anche dalle modalità con le quali l’atto stesso viene compiuto (Cass. 04/08/2022, n. 24262, Cass. 16/11/1995, n. 11885). Nemmeno la mancanza della spendita del nome nella procura alle liti assume valore dirimente, potendosi attribuire il mandato al rappresentato anche se la persona fisica che lo conferisce non indichi espressamente la qualità di rappresentante della persona giuridica per la quale agisce, purché tale qualità risulti dall’intestazione o anche dal contesto dell’atto cui inerisce, in considerazione del collegamento materiale dei due atti ed attesa la possibilità che nel conferimento della procura alle liti la spendita del nome assuma forme implicite. (Cass. n. 24262 del 2022 cit., Cass. 11710 del 05/08/2002).
2.3. Ciò posto, va in primo luogo rilevato che la sentenza oggetto della domanda di revocazione recava nella sua intestazione il nome della società e del Cristina quale ‘consegnatario’.
La C.t.r., pronunciandosi sull’istanza di revocazione nell’affermare che la sentenza impugnata aveva, evidentemente, ritenuto che il ricorso fosse stato proposto in nome e per conto della società, e che tale valutazione, anche a ritenerla erronea, non integrava errore di fatto, si è attenuta a questi principi.
La C.t.r., in sostanza, ha rilevato che la sentenza impugnata non era viziata da alcun errore di fatto in quanto quello denunciato dal ricorrente era, al più, un errore processuale, atteso che l’impugnazione dal medesimo proposta necessitava comunque di sciogliere il nodo sulla qualificazione della domanda.
La sentenza in particolare, facendo corretta applicazione dei principi sopra esposti, ha affermato che la proposizione del ricorso in qualità di «consegnatario» richiedeva di sciogliere il nodo della legittimazione; che la C.t.r, adita con l’appello -nonostante il presupposto in fatto che il ricorso era stato proposto nella detta qualità di «consegnatario» dell’atto -nell’esercizio del proprio potere di riqualificazione degli atti, e dovendo individuare il soggetto che aveva proposto la domanda, aveva comunque ritenuto che il ricorso fosse stato proposto in nome e per conto della società; che questo, al più configurava errore di diritto.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 a titolo di compenso oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 1° ottobre 2024.