Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 7363 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 7363 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: LIBERATI NOME
Data pubblicazione: 19/03/2025
ORDINANZA
ll’avvocato all’avvocato sul ricorso iscritto al n. 2405/2024 R.G. proposto da : IGP RAGIONE_SOCIALE rappresentate e difese da COGNOME NOME (CODICE_FISCALE unitamente COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
COMUNE DI NAPOLI, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME (NDRNTN72E22I163X) e COGNOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
per la revocazione della SENTENZA della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE in ROMA n. 19017/2023 depositata il 05/07/2023. 11/03/2025 dal
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del l’ Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Comune di Napoli ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione tributaria regionale della Campania il 9 febbraio 2001, n. 1224/23/2021, la quale, in controversia avente per ad oggetto l’impugnazione di sei avvisi di accertamen to per il parziale versamento del canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP) per l’anno 2015, per un totale di € 72.057,00 (comprensivo di interessi moratori, sanzioni amministrative e spese di notifica), ha rigettato l’appello proposto dal m edesimo nei confronti della RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza depositata dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli il 3 gennaio 2020, n. 58/26/2020, con compensazione delle spese giudiziali.
La Commissione tributaria regionale ha confermato la decisione di prime cure, che aveva accolto il ricorso della RAGIONE_SOCIALE, sul presupposto che, fino al 31 dicembre 2001, si applicasse la vecchia imposta comunale sulla pubblicità (ICP), mentre, dall’ 1 gennaio 2002, si applicasse il canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP) (comprensivo del canone per l’occupazione di spazi pubblici). La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
La Suprema Corte di Cassazione ha deciso la controversia con sentenza n. 19017/2023, rigettando l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza, respingendo il primo motivo di ricorso ed accogliendo il secondo, con conseguente rinvio alla Corte di Giustizia di secondo grado competente per territorio.
In particolare, la Suprema Corte ha statuito che l’istituzione del CIMP richiede un apposito regolamento comunale (che non ha ritenuto essere stato adottato dal Comune) e che, in mancanza di tale regolamento, l’ICP continua ad essere applicata (nella fattispecie anche dopo la data del 1^ gennaio 2002) e può cumularsi con il canone
concessorio per l’occupazione di spazi pubblici (senza la limitazione del 25% prevista per il CIMP). Ha stabilito che la sostituzione dell’ICP con il CIMP richiede un regolamento specifico, la cui assenza comporta la continuazione dell’applicazione dell’ICP e che il piano generale degli impianti pubblicitari (PGI) non può sostituire il regolamento. Ha inoltre precisato che il CIMP è comprensivo della TOSAP o del COSAP. A conclusione del proprio ragionamento, ha espresso dunque il seguente principio di diritto per il giudice del rinvio : ‘La sostituzione dell’imposta comunale sulla pubblicità (ICP) di cui al capo I del d.lgs. 15 novembre 19 93, n. 507, con il canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP) di cui all’art. 62 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, postula l’imprescindibile emanazione di un apposito regolamento dal contenuto conforme ai criteri previsti dal comma 2 del citato art. 62, la cui carenza non può essere supplita dall’eventuale approvazione del piano generale degli impianti pubblicitari (atto generale non normativo, con funzione autonoma e distinta dal regolamento), nonostante la previsione in esso contenuta (quindi, con valore meramente programmatico della relativa istituzione) dell’entrata in vigore del canone sostitutivo (nella specie, con decorrenza dall’1 gennaio 2002 ); ne discende che, in difetto di regolamento adottato ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l’imposta comunale sulla pubblicità (ICP) continua a trovare applicazione (nella specie, anche dopo l’1 gennaio 2002 ) secondo le tariffe vigenti ratione temporis ed è cumulabile, oltre che con la TOSAP o il COSAP, con il canone conc essorio per l’occupazione di spazi pubblici, senza la limitazione prevista dall’art. 62, comma 2, lett. d), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 ‘ .
5. Avverso la suddetta sentenza, la RAGIONE_SOCIALE (cui è subentrata RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per revocazione per errori di fatto ex art. 395, n. 4), c.p.c., affidato a quattro motivi in fase rescindente
e tre motivi in fase rescissoria, cui ha resistito con controricorso il Comune di Napoli.
Successivamente ambedue le parti in causa hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380. bis c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
In fase rescindente, il ricorso è affidato a n. 4 motivi.
1.1. Con una prima argomentazione la ricorrente in revocazione ha dedotto la errata supposizione dell’inesistenza del giudicato amministrativo (TAR Campania n. 9438/2004) secondo cui il Comune di Napoli, con regolamento ex art. 52 del D. Lgs. n. 446/97 approvato con D.C.C. n. 419/1999 (P.G.I. – Norme di attuazione) ha introdotto il CIMP ex art. 62 D. Lgs. n. 446/97 con decorrenza 1.01.2002 in sostituzione dell’ICP abrogata . Su tale giudicato si fonda la CTR n. 1224/21, non censurata sul punto dal Comune con il ricorso in cassazione.
La Corte di Cassazione, secondo la ricorrente, ha erroneamente ignorato questa sentenza, che affermava che il Comune di Napoli, attraverso il regolamento approvato con D.C.C. n. 419/1999, aveva introdotto il CIMP dal 1° gennaio 2002, sostituendo l’ICP. Questo giudicato, allegato dalla contribuente e recepito dalla CTR, non è stato contestato dal Comune nel ricorso in Cassazione, e il PM lo ha sottolineato come motivo di inammissibilità. La ricorrente sostiene che se la Corte avesse considerato questo giudicato, non avrebbe accolto il secondo motivo del ricorso del Comune.
1.2. Controparte ha replicato che il vizio non sussiste e che, ove sussistente, sarebbe comunque irrilevante. L’invocato annullamento dell’ordinanza adottata dal Sindaco il 31 dicembre 2001, n. 223, come avvenuto da parte del giudice amministrativo, non porterebbe alcuna utilità alla ricorrente -come rilevato dalla Suprema Corte in motivazione -atteso che la stessa non solo sarebbe comunque tenuta a pagare, ma dovrebbe farlo in misura maggiore in base all’I.C.P.
Con secondo argomento, la parte ricorrente ha eccepito l’errata supposizione dell’esistenza del Regolamento adottato dal Comune di Napoli ai fini dell’applicazione dell’imposta comunale sulla pubblicità, abrogato dall’art. 2, Titolo I, del ‘P.G.I. – Norme di attuazione’. In difetto di tale regolamento il Comune di Napoli non ha applicato e non poteva continuare ad applicare dopo il 31.12.2001 l’ICP.
La Corte di Cassazione, a detta della ricorrente, avrebbe erroneamente presupposto l’esistenza del regolamento comunale per l’applicazione dell’ICP, nonostante la sua abrogazione con D.C.C. n. 419/1999. Sarebbe un fatto incontestato ed evidenziato dalla ricorrente e dal Comune stesso. La ricorrente sottolinea che l’assenza di questo regolamento rendeva inapplicabile l’ICP dopo il 31.12.2001. L’errore è definito decisivo, in quanto ha portato la Corte a cassare la sentenza della CTR ed a formulare un principio di diritto errato.
Con un terzo ordine di motivi, la ricorrente per revocazione ha contestato l’errata percezione del contenuto degli avvisi di accertamento impugnati, i quali per l’anno d’imposta 2015 applicano l’unica tariffa annua €/mq del canone sostitutivo dell’imposta ex art. 62 del D. Lgs. n. 446/97 approvata con l’ordinanza 31.12.2001 n. 223 in vigore dall’1.1.2002, annullata con sentenza passata in giudicato, ritenendo lo accertamento in fatto ‘assorbente’, cui è conseguito l’accoglimento del ricorso originario.
La Corte di Cassazione non avrebbe considerato che gli avvisi di accertamento applicavano la tariffa del CIMP approvata con ordinanza annullata dal TAR. Questo fatto, definitivamente accertato dal giudice di merito e non contestato dal Comune, avrebbe dovuto portare al rigetto del secondo motivo del ricorso
Con una quarta argomentazione, parte ricorrente ha dedotto l’errata percezione del contenuto della D.C.C. n. 80/1998, che non sarebbe agli atti del giudizio, non è vigente e non ha pacificamente
introdotto un canone concessorio per occupazione di suolo pubblico mediante impianti pubblicitari non identificabile con RAGIONE_SOCIALE o RAGIONE_SOCIALE.
Con riferimento, invece, alla fase rescissoria, si deduce che il primo motivo dell’originario ricorso per cassazione nella revocanda sentenza, formulato dal Comune, riguardante la presunta violazione di norme procedurali e costituzionali per omessa motivazione, è stato respinto dalla Corte di Cassazione (nella sentenza n. 19017/23) perché infondato.
Tuttavia, se ne eccepisce, fase rescissoria, l’inammissibilità sotto due aspetti.
6.1. In primo luogo, ai sensi dell’art. 360, comma 4 c.p.c., relativo alla “doppia conforme” (art. 348-ter c.p.c. applicabile al caso), non avrebbe potuto essere proposto il motivo n. 5 dell’art. 360 c.p.c. contro una sentenza d’appello che conferma quella di primo grado.
6.2. In secondo luogo, anche se il motivo fosse riqualificato come vizio di nullità per motivazione apparente o inesistente (art. 360, n. 4 c.p.c.), risulterebbe infondato: la sentenza di secondo grado (n. 1224/20), come ampiamente motivato e trascritto nella sentenza n. 19017/23, ha esaminato dettagliatamente le tesi contrapposte, respingendo con adeguata motivazione i motivi di appello del Comune, rispettando ampiamente il minimo costituzionale richiesto.
Con il secondo motivo di ricorso in fase rescissoria, la ricorrente rileva in primo luogo la inammissibilità sotto tre diversi profili.
7.1. Il secondo motivo di ricorso originario formulato dal Comune sarebbe viziato da inammissibilità per sconfinamento nel merito, avendo tentato il Comune di Napoli di trasformare una questione di fatto, relativa all’accertamento di documenti e al loro significato, in una questione di diritto. La Corte di Cassazione non ha competenza sul merito della controversia e, pertanto, non poteva rivedere tali accertamenti.
7.2. Il motivo sarebbe inammissibile anche per difetto di autosufficienza. Il ricorso non conteneva l’integrale trascrizione degli atti amministrativi contestati (es. delibere comunali e regolamenti) e la mancata trascrizione integrale degli atti oggetto di contestazione determinerebbe inammissibilità.
7.3. Ricorrerebbe poi ipotesi di inammissibilità per difetto di specificità: il Comune non ha contestato in modo puntuale l’interpretazione della Commissione Tributaria Regionale (CTR), né il giudicato amministrativo che aveva già stabilito l’abolizione dell’imposta comunale sulla pubblicità (ICP) e l’introduzione del canone unico (CIMP) dal 2002.
7.4. Con un secondo ordine di motivi in sede rescindente si assume che gli avvisi di accertamento impugnati applicavano tariffe annullate da una sentenza definitiva del TAR Campania.
Il terzo motivo, con il quale si contesta che la normativa sul canone patrimoniale (CIMP) non giustifica la parametrizzazione delle tariffe alla superficie pubblicitaria, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, risulta assorbito dal precedente.
Per quanto concerne la fase rescindente, i primi tre motivi fanno leva, sostanzialmente, sulla medesima questione.
9.1. Si deduce, cioè, che un giudicato del TAR avrebbe, in contrasto con la decisione della Corte di legittimità, affermato che il Comune di Napoli, attraverso il regolamento approvato con D.C.C. n. 419/1999, aveva introdotto il CIMP dal 1° gennaio 2002, sostituendo l’ICP.
9.2. Tuttavia, le parti sostengono, tuttora, posizioni dialetticamente contrapposte sia sull’esistenza -inesistenza del regolamento, sia sulle relative conseguenze in ordine al tributo ratione temporis applicabile sia, ancora, sulla rilevanza in sé di questa circostanza.
9.3. Il contrasto delle parti su questi aspetti (già chiaramente dipanato dalla decisione revocanda) non può essere oggetto di (ulteriore) accertamento in sede di revocazione: l’errore di fatto previsto dall’art. 395 n. 4, c.p.c., idoneo a costituire motivo di revocazione, consiste in una falsa percezione della realtà o in una svista sensoriale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa, purché non cada su un punto controverso e non attenga ad un’errata valutazione delle risultanze processuali (Cass. 26/01/2022, n. 2236 Rv. 663756 – 01).
L’art. 395 c. 4 cpc dispone in proposito, testualmente, che la revocazione è ammessa ‘se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare’.
Nel caso analizzato, l’esistenza -inesistenza del regolamento così come la sua rilevanza ai fini di causa, lungi da emergere quali circostanze lampanti sia in sé sia nelle loro conseguenze decisorie, sono state contestate tra le parti nel corso del l’intero giudizio e, proprio perché si tratta di un punto controverso, non possono essere considerate oggetto di una svista o un errore di percezione, quanto l’esito di una valutazione non scevra dall’applicazione in diritto e dall’individuazione della portata del giudicato amministrativo. Di conseguenza, la richiesta di revocazione basata su questa presunta inesattezza è inammissibile.
Si è stabilito (Cass.n. 16439/21 e moltissime altre) che: ‘L’errore di fatto rilevante ai fini della revocazione della sentenza, compresa
quella della Corte di Cassazione, presuppone l’esistenza di un contrasto fra due rappresentazioni dello stesso oggetto, risultanti una dalla sentenza impugnata e l’altra dagli atti processuali; il detto errore deve: a) consistere in un errore di percezione o in una mera svista materiale che abbia indotto, anche implicitamente, il giudice a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa, sempre che il fatto stesso non abbia costituito oggetto di un punto controverso sul quale il giudice si sia pronunciato, b) risultare con immediatezza ed obiettività senza bisogno di particolari indagini ermeneutiche o argomentazioni induttive; c) essere essenziale e decisivo, nel senso che, in sua assenza, la decisione sarebbe stata d iversa’.
9.4. Tali censure sono dunque inammissibili, non essendo qui riscontrabile nessuno di questi requisiti.
Con il quarto motivo, ed ultimo rescindente, si censura invece il presunto errore di fatto derivante dalla circostanza che la corte di legittimità non avrebbe avuto conoscenza di uno degli atti presi a fondamento della decisione: la D.C.C. n. 80/1998.
10.1. Va in primo luogo rilevato che tale circostanza non è adeguatamente indicata dal ricorrente sotto il profilo dell’autosufficienza.
10.2. Va premesso poi in fatto che si tratta di un documento soggetto a pubblicità legale venuto in rilievo nell’ambito del giudizio, come tale conoscibile dalle parti del giudizio, e che nello stesso assunto difensivo si afferma che sarebbe comunque venuto in rilievo in altri ricorsi tra le stesse parti decisi nel medesimo giorno.
10.3. Quand ‘anche la Corte avesse errato nell’utilizzare quest o atto, si sarebbe comunque al di fuori della revocazione, perché si tratterebbe di errore processuale: il motivo concerne la interpretazione del contenuto della delibera (la errata percezione di una delibera) e non può, come tale, essere considerato una svista percettiva.
10.4. Il fatto in sé non è contestato nella sua essenza (la esistenza della delibera, che è anzi stata prodotta, nella prospettazione, in giudizi decisi unitamente a quello di cui oggi si discute), sicché non può parlarsi di inesistenza del fatto, ma di errore procedurale, perché il giudice ha, al più, omesso di indicare la sentenza – del medesimo giorno – che ha acclarato la esistenza della delibera. Quindi, al limite si tratterebbe di cattivo uso della scienza privata del giudice, ai sensi dell’art. 115 e 116 c.p.c., sicché l’eventuale errore ha natura di error in procedendo , come tale non suscettibile di revocazione.
10.5. In conclusione, quanto ai motivi rescindenti, o si tratta di questioni controvertibili (cioè l’esistenza o meno del regolamento adottato dal Comune di Napoli), e quindi manca il requisito di evidenza della svista percettiva, o si tratta di motivi che attengono ad ipotetici errori procedurali (aver fondato la decisione su una delibera non in atti, ma in ricorsi collegati) o, ancora, a ricostruzione che presuppone un ‘ attività interpretativa di norme di vario rango.
In più, in ogni caso, una volta adottato il principio di diritto, questo deve essere comunque adeguato alla fattispecie da parte del giudice di rinvio, sotto il profilo della esistenza dei fatti (o meno) cui il principio si riferisce, ma in ordine al cui accertamento materiale non esplica effetto vincolante.
10.6. Alla luce delle considerazioni che precedono deve quindi ritenersi inammissibile il ricorso.
10.7. Conseguentemente, non deve farsi luogo ad analisi degli ulteriori motivi, formulati in sede rescissoria.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
In conseguenza dell’esito del giudizio ricorrono i presupposti processuali per dichiarare la sussistenza dei presupposti per il pagamento di una somma pari al contributo unificato previsto per la
presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.500,00 per compensi oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di co ntributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, in data 11/03/2025 .