Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19839 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19839 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
Avviso di accertamento -Irpef – Indebita percezione di emolumenti -Omessa dichiarazione dei redditi
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5954/2019 R.G. proposto da: COGNOME rappresentata e difesa dagli Avv. NOME
COGNOME e NOME COGNOME
-ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, rappresentata e difesa dal l’Avvocatura generale dello Stato;
-controricorrente – avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. SICILIA, n. 2713/2018, depositata il 2 luglio 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 2 luglio 2025 dal consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle entrate notificava a NOME COGNOME COGNOME avviso di accertamento con il quale, per l’anno di imposta 200 8, in assenza di dichiarazione dei redditi, recuperava a tassazione, ai fini Irpef, un maggior reddito. In particolare, l’ atto impositivo aveva ad oggetto il recupero a tassazione delle imposte, sanzioni ed interessi, connesse alla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, alla quale la contribuente era obbligata, per avere la stessa percepito redditi di lavoro dipendente e assimilati da due diversi sostituti di imposta.
La contribuente proponeva ricorso innanzi alla CTP di Agrigento sostenendo, per quanto qui di rilievo, che le somme sottoposte a tassazione non potevano costituire reddito in quanto indebitamente percepite. Era risultato, infatti, che la contribuente, insegnante alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione, aveva continuato, per errore della Ragioneria territoriale, a percepire gli emolumenti anche dopo l’immissione a domanda nei ruoli dell’Inps. Aggiungeva che il giudice del lavoro -innanzi al quale aveva spiegato ricorso contestando il diritto del Ministero di richiedere la restituzione degli stipendi al lordo delle imposte e degli altri contributi -aveva accolto la sua domanda e, con sentenza passata in giudicato, aveva rideterminato la somma pretesa al netto di quanto effettivamente corrisposto.
La CTP accoglieva il ricorso e annullava l’avviso di accertamento .
La CTR, invece, in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, con la sentenza di cui all’epigrafe, rigettava l’originario ricorso della contribuente.
La Corte di secondo grado rilevava che la contribuente, per l’anno 2008, non aveva presentato la dichiarazione dei redditi, ancorché avesse percepito emolumenti per euro 45.922,00 i quali non erano ancora stati restituiti sebbene indebitamente percepiti; che, inoltre,
non avendo presentato la dichiarazione dei redditi non aveva compilato il quadro relativo alla deduzione dal reddito complessivo di somme eventualmente restituite. Concludeva, per l’effetto, affermando che i redditi costituivano reddito da lavoro, non dichiarati, che come tali, andavano tassati e che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento di oneri deducibili, a sensi dell’art. 10, comma 1, lett. d-bis, t.u.i.r. , dal reddito dell’anno 2008, oneri che, per altro, non erano mai stati né dichiarati né documentati.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, la contribuente.
L’ Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la contribuente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 6 t.u.i.r. e dell’art. 2033 cod. civ.
Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che gli emolumenti indebitamente percepiti concorrevano alla formazione del reddito. Osserva che nel 2008 non vi era alcun rapporto di lavoro tra la contribuente e l’Amministrazione scolastica che aveva erroneamente continuato a versarle gli emolumenti; che non poteva farsi ricorso nemmeno al «concetto di possesso» in quanto l’indebito determina in capo all’ accipiens una mera detenzione; che non poteva darsi rilievo alla circostanza – peraltro affermata «inveridica» – della mancata restituzione in quanto quest’ultima, disposta mediante trattenuta di 1/5 mensile sullo stipendio, non mutava i termini giuridici della questione.
Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. l’omesso esame circa un punto decisivo del giudizio in relazione all’art. 2033 cod. civ. e dell’art. 1 e 6 t.u.i.r. , oggetto di discussione tra le parti; ai sensi dell’art. 360, primo comma,
n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 2697 cod. cv., e, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 324 cod. proc. civ. e dell’art. 2909 cod. civ.
Assume che la sentenza impugnata è avulsa dalle argomentazioni svolte dal primo giudice e dall’appellante; che il punto decisivo stava nello stabilire la natura delle somme percepite e che la sentenza non spiega le ragioni per le quali dette somme dovessero costituire reddito né a quale categoria di reddito fossero ascrivibili, stante la mancanza di un rapporto giuridico con l’Amministrazione; che il richiamo all’a rt. 10 t.u.i.r. è incongruo; che la sentenza resa dal giudice del lavoro, avente efficacia di giudicato tra le parti, aveva escluso che le somme costituissero reddito; che si trattava di giudicato esterno rilevabile anche di ufficio.
Il primo motivo è infondato come già ritenuto da questa Corte in precedente specifico tra le stesse parti (cfr. Cass. 14/02/2020, n. 3758).
3.1. Ai sensi dell’art. 1 d.P.R. n. 600 del 1973, ogni soggetto passivo è tenuto a dichiarare annualmente tutti indistintamente i redditi posseduti, anche se da essi non consegue alcun debito d’imposta; che pertanto, nella dichiarazione dei redditi conseguiti nel 2006 la contribuente avrebbe dovuto indicare gli emolumenti a lei erroneamente versati da altra amministrazione dello Stato, in aggiunta a quelli legittimamente percepiti per altro rapporto d’impiego pubblico.
Detti emolumenti, qualora effettivamente da lei restituiti, avrebbero dovuto comunque essere indicati al rigo 28 del quadro RP quali oneri deducibili, ai sensi dell’art. 10 comma 1 lettera d-bis t.u.i.r.
3.2. La dichiarazione dei redditi non ha natura di atto negoziale, essendo essa una mera esternazione di scienza e di giudizio, come tale modificabile ed emendabile, qualora vengano acquisiti nuovi elementi di conoscenza e di valutazione (cfr. Cass. 28 febbraio 2011, n. 4776).
3.3. Va escluso, infine, che gli emolumenti indebitamente percepiti non costituiscano reddito. E’ noto, infatti, che persino i proventi da attività illecita, devono essere sottoposti a tassazione anche laddove non rientrino nelle categorie previste dall’ar t. 6, comma, 1 t.u.i.r. (cfr. Cass. 18/10/2021, n. 28629). Del resto, con l’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993 -ai sensi del quale nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, t.u.i.r. devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale e che i relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria -è stato introdotto nell’ordinamento il principio, di carattere generale, della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, a prescindere dalla loro provenienza, e, dunque, dalla sussumibilità della relativa fonte in una delle specifiche categorie reddituali di cui all’art. 6 t.u.i.r., essendo normativamente considerati, in via residuale, come redditi diversi (Cass. 28/12/2017, n. 31026).
A nessuna diversa conclusione può giungersi in ragione dell’obbligo restitutorio, in quanto la restituzione può avere rilievo ove sia avvenuta entro la fine del periodo di imposta cui il provento si riferisce e non anche in caso di eventi posteriori alla realizzazione del presupposto impositivo, con i conseguenti obblighi di dichiarazione e di versamento, per i quali si pone solo una questione di diritto al rimborso dell’imposta versata divenuta indebita (cfr. sul punto Cass. 05/11/2019, n. 28375, ancorché con riferimento all’esclusione del provento dalla base imponibile in caso di sequestro e confisca e art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993).
Infine, il fatto che gli emolumenti siano stati percepiti indebitamente in ragione della insussistenza del titolo non ne muta la natura di reddito di lavoro dipendente.
Il secondo motivo è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.
4.1. E’ inammissibile la censura di omesso esame di fatti decisivi. La Corte, a sezioni unite (con la sentenza del 7/04/2014, n. 8053), ha chiarito che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extra-testuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività (v., tra le tante, Cass. 13/06/2022 n. 19049).
Il motivo difetta di tali indicazioni e, comunque, tutti i fatti esposti nel motivo -ovvero la percezione di emolumenti ad opera del Ministero dopo la cessazione del rapporto e la sentenza del giudice del lavoro -sono stati oggetto di espresso esame da parte della CTR.
La contribuente, se pure prospetta l’omesso esame di fatti decisivi si duole, in realtà, come dalla stessa chiarito dell’omessa valutazione di quanto affermato nella sentenza di primo grado in ordine all’indebito che esula, invece, dal perimetro del vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
4.2. Il motivo è infondato laddove prospetta un vizio di motivazione della sentenza impugnata.
La CTR , dopo aver correttamente individuato l’oggetto del contendere e ricostruito il contenuto della sentenza di primo grado, ha esposto le ragioni del suo dissenso da quanto ivi statuito, chiaramente qualificando gli emolumenti percepiti quali redditi da lavoro dipendente e motivando in ordine alla legittimità dell’accertamento in diritto ed in fatto.
Peraltro, si è già esposto, con riferimento al primo motivo, che la qualificazione degli emolumenti come reddito, e nella specie come reddito dal lavoro dipendente, è anche corretta, sicché deve comunque applicarsi il principio per il quale il ricorso per cassazione che denunci il vizio di motivazione della sentenza, perché meramente apparente, in violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell’appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ. (Cass. 01/03/2019, n. 6145).
4.3. Infine, il motivo è infondato anche nella parte in cui assume che la sentenza resa dal giudice del lavoro avrebbe efficacia di giudicato con riferimento al presente giudizio.
I due processi, infatti, non si sono svolti tra le stesse parti, non essendovi identità soggettiva tra l’Agenzia delle entrate ed il Ministero dell’Economia e delle finanze. La prima, infatti, è ente pubblico non economico istituito con d.lgs. n. 300 del 1999 ed è, quindi, autonomo soggetto di diritto rispetto al Ministero che ne esercita la vigilanza.
Oltretutto, come ricordato dalla stessa ricorrente, la causa innanzi al giudice del lavoro si è conclusa con una pronuncia di cessazione della
materia del contendere per effetto del l’ espresso riconoscimento da parte della stessa contribuente della pretesa del Ministero, sicché alcuna statuizione è stata resa -nel merito – sulla tassabilità dell’indebito.
In definitiva, il ricorso deve essere respinto.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 2.200,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2025.