Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 22217 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 22217 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 01/08/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 16528-2022, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Ricorrente
CONTRO
, c.f. RVNNNL72C57E704N, rappresentata e difesa
COGNOME NOME dall’avv. NOME COGNOME
Controricorrente avverso la sentenza n. 861/07/2021 della Commissione tributaria regionale dell ‘Abruzzo, sez. staccata di Pescara , depositata il 22.12.2021; udita la relazione della causa svolta nell’ adunanza camerale del 26 febbraio 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La controversia trae origine dal diniego di rimborso di ritenute su lavoro dipendente, che la contribuente aveva richiesto ai sensi dell’art. 15 della
Rimborsi
–
Lavoro all’estero
– Doppia imposizione
Convenzione Italia/Francia contro le doppie imposizioni, resa esecutiva il Italia con l. 7 gennaio 1992, n. 20.
Nello specifico la COGNOME, che nell’anno d’imposta 2014 aveva lavorato in Francia per più di 183 gg., così da sostenere di avere in quello Stato il centro dei principali interessi vitali ed economici, aveva richiesto il rimborso di € 25.327,39 per maggiori ritenute e addizionali non dovute all’erario italiano.
Al diniego di rimborso seguì il contenzioso instaurato dalla istante dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Pescara, che con sentenza n. 235/01/2019 ne accolse le ragioni.
La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, respinse l’appello dell’amministrazione finanziaria con sentenza n. 861/07/2021. Il giudice regionale, nel riconoscere l’ampia e condivisibile motivazione della sentenza di primo grado, ha evidenziato che la contribuente aveva prodotto documentazione idonea (certificazione della Direzione Generale delle Finanze Pubbliche della Repubblica Francese, attestante non solo i redditi dichiarati in Francia, ma anche che secondo la Convenzione la beneficiaria aveva residenza fiscale in Francia), così che nessuna rilevanza poteva assumere la mancata presentazione del modulo di dichiarazione previsto dalla Agenzia delle entrate. In relazione all’ulteriore obiezione dell’amministrazione italiana , secondo cui mancava una prova del pagamento effettivo delle imposte in Francia, ha inoltre riconosciuto che la certificazione ufficiale dell’autorità francese dava prova non solo dei redditi dichiarati, ma anche del pagamento delle relative imposte, dell ‘assenza di pendenze con l’Erario francese , né, chiariva, emergevano al contrario prove della fruizione di crediti d’imposta per tasse pagate in Italia. Quanto alla iscrizione della Ravanello all’AIRE solo dal settembre 2014, ciò per cui l’erario sosteneva che per la maggior parte dell’anno la contribuente avesse avuto residenza in Italia, ha evidenziato che sussisteva la prova dello stabile lavoro in Francia da gennaio a giugno 2014, della sua residenza in Francia con il marito, con il quale aveva lì acqui stato l’abitazione familiare -ad ulteriore riprova che centro d’imputazione dei propri interessi personali e professionali fosse in quello Stato-, del suo rientro in Francia nei mesi di novembre e dicembre 2014 . Quanto alla iscrizione tardiva all’AIRE, nella sentenza si affermava che ciò non aveva alcuna rilevanza, per essere al contrario
decisivi, secondo la giurisprudenza unionale, la presenza fisica prevalente in un altro paese, la disponibilità di una abitazione, il luogo di esercizio dell’attività professionale. A tal fine doveva considerarsi recessiva la considerazione erariale, secondo cui la datrice di lavoro fosse società italiana, trattandosi comunque di banca con sede stabile in Francia e peraltro società figlia di notoria società madre francese.
L’Agenzia delle entrate ha chiesto la cassazione della sentenza, censurandola con tre motivi. Ha resistito con controricorso la contribuente, ulteriormente illustrato con memoria. La Procura Generale, nella persona del Sostituto procuratore generale dott. NOME COGNOME ha chiesto il rigetto del ricorso.
La causa è stata decisa all’esito dell’adunanza camerale del 2 6 febbraio 2025.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo l’Agenzia delle entrate ha denunciato la violazione dell’art. 36, secondo comma, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. La sentenza sarebbe immotivata laddove apprezza documentazione che in nessun modo viene descritta.
Lamentando evidentemente una motivazione apparente, incidente sulla esistenza stessa della pronuncia, al contrario di quanto assume la difesa erariale, che peraltro pecca nel non riprodurre neppure la documentazione incontestabilmente allegata al processo dalla COGNOME, la descrizione della suddetta documentazione operata in sentenza è chiara ed esaustiva, rappresentando il contenuto della certificazione ufficiale proveniente dall’autorità fiscale francese.
Se poi, con la generica contestazione, la ricorrente ha inteso disattendere il contenuto delle certificazioni e dei documenti, mettendo in discussione quanto da essi evinto dal giudice d’appello, il motivo è inammissibile perché con esso si intenderebbe rivalutare il contenuto dei documenti, attività interpretativa riservata al giudice di merito e non a quello di legittimità.
Con il secondo motivo l’ufficio si duole della violazione del punto 14 b) del Protocollo allegato alla Convenzione Italia/Francia contro le doppie imposizioni, nonché la violazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art.
RGN 16528/2022 Consigliere rel. COGNOME 360, primo comma, n. 3, cod . proc. civ. L’Amministrazione finanziaria ritiene
che la pronuncia sia affetta da error in iudicando laddove ha ritenuto sufficiente la produzione di un certificato dell’autorità francese che attesti solo i redditi dichiarati in Francia e che la beneficiaria goda della residenza fiscale francese, senza considerare che ai fini della concreta applicazione della Convenzione non sono sufficienti certificazioni di dati generici, da cui non si evince se vi siano state compensazioni o versamenti effettivi d’imposte .
C on il terzo motivo l’ufficio lamenta la violazione dell’art. 2, comma 2, d.P.R. n. 917 del 1986, nonché degli artt. 4 e 5, comma 2, della Convenzione Italia/Francia contro le doppie imposizioni, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La sentenza erroneamente ha riconosciuto che la contribuente nel 2014 risiedeva in Francia. Al contrario, sostiene la difesa erariale, la stessa è stata iscritta presso l’anagrafe della popolazione residente in Italia per nove mesi del 2014, stante la su a iscrizione all’AIRE solo da settembre di quell’anno. Inoltre , manca il riscontro dell’assenza dei requisiti richiamati dall’art. 2 del TUIR, né avrebbe rilevanza l’attività lavorativa stabilmente condotta in Francia per oltre 183 gg dell’anno , parte rilevante della quale in realtà esercitata a titolo di missione. Al contrario, assumerebbe importanza ai fini dell’individuazione dello Stato impositore la circostanza che il datore di lavoro era società italiana.
I due motivi, che possono essere trattati unitariamente perché connessi, sono infondati.
In disparte che la sentenza impugnata, in modo analitico ed esaustivo, ha compiuto un accertamento in fatto, che non può essere messo in discussione dinanzi al giudice di legittimità, in ogni caso, ai fini di una esatta lettura delle regole giuridiche che presidiano il trattamento e la tutela dei contribuenti contro le doppie imposizioni, l’art. 15 della Convenzione Italia/Francia sulle doppie imposizioni prevede che « 1. Salve le disposizioni degli articoli 16, 18, 19, 20 e 21, i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato. 2. Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato sono
imponibili soltanto nel primo Stato se: a) il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell’anno fiscale considerato, e b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato, e c) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato».
Le regole, sostanzialmente replicate in moltissime Convenzioni bilaterali nei corrispondenti artt. 15 (Italia/Germania, Italia/Regno Unito, Italia/Svizzera, ecc..), sono già sufficienti ad affermare come, nel caso di specie, lo Stato nel quale la COGNOME era tenuta all’assolvimento dei doveri fiscali per il lavoro ivi esercitato fosse proprio la Francia. Ciò perché in quello Stato ha pacificamente lavorato per oltre 183 giorni dell’anno 2014 e il datore di lavoro era una società italiana che, oltre ad essere controllata da società madre francese, aveva in ogni caso in Francia una base fissa, una stabile organizzazione (nella cui sede, infatti la COGNOME ha lavorato).
Quanto, in ogni caso, alla relativa rilevanza della nazionalità del datore di lavoro, questa Corte ha di recente affermato che in materia di discipline convenzionali per il contrasto alle doppie imposizioni, la nazionalità del datore di lavoro è del tutto ininfluente, poiché, al fine di evitare che il medesimo reddito sia sottoposto ad imposizione in due Stati, è previsto, con possibilità di deroghe, che, se esso è stato assoggettato ad imposizione nel paese estero di residenza del lavoratore, non deve essere assoggettato nuovamente a imposizione in Italia, paese di cittadinanza del lavoratore, indipendentemente dalla nazionalità, italiana, inglese o di altro Stato, del datore di lavoro che ha corrisposto le retribuzioni (Cass., 23 settembre 2024, n. 25424; cfr. anche 13 ottobre 2017, n. 24112).
Trattasi di precedenti che, pur riferibili alla Convenzione Italia/Regno Unito, richiamano l’omologo art. 15, sostanzialmente riproduttivo di quello della Convenzione italo-francese. A conferma dell’omologo contenuto convenzionale in tema, questa Corte ha anche affermato che alla luce dell’art. 15 della Convenzione Italia-Germania del 18 ottobre 1989, ratificata e resa esecutiva per l’Italia con l. n. 459 del 1992, che àncora la potestà impositiva allo Stato di residenza solo se coincidente con quello in cui il lavoro viene esercitato, per determinare il corretto regime fiscale della retribuzione e delle indennità corrisposte al lavoratore dipendente vanno
utilizzati i criteri della residenza fiscale del percipiente al momento della corresponsione e del luogo di svolgimento dell’attività lavorativa che ha dato causa alla erogazione degli emolumenti (così Cass., 7 settembre 2022, n. 26383; 14 aprile 2021, n. 9725).
D’altronde , è la stessa giurisprudenza unionale che, in ipotesi di convenzioni contro la doppia imposizione, valorizza, ai fini fiscali, il dato obiettivo della percezione della retribuzione del dipendente in uno Stato diverso da quello di residenza. A tal fine in causa C-602/2017, la sentenza CGUE del 24 ottobre 2018 ha affermato che « L’articolo 45 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta al regime tributario di uno Stato membro, derivante da una convenzione fiscale diretta a evitare la doppia imposizione, come quello di cui al procedimento principale, che subordina l’e senzione dei redditi di un residente, provenienti da un altro Stato membro e relativi a un posto di lavoro subordinato occupato in quest’ultimo Stato, alla condizione che l’attività per la quale i redditi vengono corrisposti sia effettivamente esercitata in tale Stato» (a proposito dei rapporti tra Belgio e Lussemburgo regolati con Convenzione contro le doppie imposizioni) .
Sulla base delle considerazioni appena espresse e dei principi enunciati dalla giurisprudenza nazionale e unionale, dalla documentazione esaminata dalla Commissione regionale si evince che la COGNOME ha esercitato la propria attività lavorativa nel 2014 prevalentemente in Francia, ivi avendo non solo la propria stabile attività professionale, ma, unitamente ad essa, la propria vita ed il proprio centro di interessi, affettivo, familiare, organizzativo, addirittura con l’acquisto di una casa e la convivenz a con il proprio coniuge.
L’Amministrazione finanziaria insiste nel ritenere non provato che la contribuente avesse pagato le imposte in Francia o che in quello Stato non avesse già usufruito del credito d’imposta.
La contestazione è priva di pregio, perché dall’esame della pronuncia impugnata si evince che il giudice d’appello ha espressamente esaminato la documentazione prodotta in giudizio dalla contribuente, rilevando che da essa , in particolare dalla certificazione fiscale francese, non ‘risultavano pendenze’ . Si tratta di una attestazione, il cui significato non può essere assunto in termini diversi che della assoluta esclusione di debiti con il fisco
d’oltralpe e che, come rileva il giudice d’appello, da essa si evince che la controricorrente aveva pagato in Francia le relative imposte. Inoltre, e infine, quella stessa certificazione, complessivamente esaminata dal collegio regionale, ha escluso la fruizione all’estero di crediti d’imposta per i tributi pagati in Italia.
Si tratta anche di un accertamento in fatto, che non può essere posto in discussione dinanzi al giudice di legittimità.
Quanto, infine, alla censura, con la quale si denuncia sempre la violazione della Convenzione Italia/Francia, perché il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto che la contribuente risultava essere stata iscritta nel 2014 per quasi nove mesi nell’anagrafe della popolazione residente in Italia, a parte quanto già chiarito nelle considerazioni già sviluppate, è qui sufficiente aggiungere che ai fini dell’individuazione della residenza fiscale del contribuente, deve farsi riferimento al centro dei suoi affari ed interessi vitali, dando prevalenza al luogo in cui la loro gestione è esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi, non rivestendo un ruolo prioritario, invece, le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo, con il quale il soggetto ha il più stretto collegamento (cfr. Cass., 12 gennaio 2024, n. 2878). Nel caso in esame la contribuente risultava aver vissuto in Italia solo per quattro mesi circa, il che, tenuto conto della sede lavorativa, nonché degli ulteriori indici già evidenziati, esclude con certezza che la sentenza possa essere oggetto di censure anche sotto tale profilo.
Mancava dunque ogni presupposto per contestare alla contribuente, che da certificazione ufficiale della autorità fiscale francese risultava aver pagato in quello Stato le sue imposte, il diritto al rimborso di quanto a medesimo titolo risulta versato in Italia per lo stesso periodo di lavoro prestato in Francia.
La sentenza impugnata del giudice regionale ha deciso applicando correttamente al caso di specie i principi di diritto enunciati, laddove le ragioni su cui l’amministrazione finanziaria insiste sono palesemente contrarie alla disciplina convenzionale sulle doppie imposizioni vigente tra Italia e Francia.
Il ricorso va pertanto rigettato, e all’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso , condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 3.000,00 per competenze, € 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% delle competenze, e accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il giorno 26 febbraio 2025