Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 18718 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 18718 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4890/2020 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO), che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in GENOVA V.INDIRIZZORUBENZ INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. ABRUZZO – Sez. Staccata PESCARA – n. 627/2019 depositata il 24/06/2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 01/04/2025
dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La RAGIONE_SOCIALE controlla la società italiana RAGIONE_SOCIALE che ha una duplice struttura, produttiva e commerciale e per quest’ultimo ramo agisce quale commissionaria senza rappresentanza della controllante con a latere un contratto di tesoreria, che prevede la concessione di una linea di credito da parte della controllante, verso il pagamento da parte della controllata italiana di interessi pari all’Euribor + 0,5%.
In data 30/10/2009 RAGIONE_SOCIALE presentava istanza di rimborso delle ritenute per Euro 174.755,50 operate sugli interessi pagati in suo favore, nel 2008, dalla controllata italiana.
L’ufficio adottava un provvedimento di diniego di rimborso prot. 27289 del 3/12/2015, motivato sulla base dell’art. 110 co. 7 TUIR, che veniva impugnato da RAGIONE_SOCIALE ma la CTP di Pescara ha respinto il ricorso con la sentenza n. 17/2017.
La CTR Abruzzo, con la sentenza n. 627/2019, ha invece accolto l’appello della contribuente di diritto belga, la quale faceva altresì presente che la società italiana aveva autonomamente definito il tema relativo alla presunta indeducibilità degli interessi passivi pagati alla controllante, per difetto di inerenza, così che la RAGIONE_SOCIALE aveva spontaneamente ripreso a tassazione detti interessi per il loro intero importo.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate sulla scorta di tre motivi di impugnazione.
Resiste la società contribuente con controricorso.
È stata, quindi, fissata l’aduna nza camerale del primo aprile 2025, in vista della quale la controricorrente ha altresì depositato una memoria ex art. 380 bis .1 c.p.c. Anche la Procura generale, in persona del Sostituto Procuratore generale dott.ssa NOME COGNOME ha rassegnato le proprie conclusioni con memoria, chiedendo l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO CHE
Il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della C.T.R. dell’Abruzzo Sez. Pescara, n. 627/2019 si fonda sui seguenti motivi:
omessa e/o apparente motivazione. Violazione dell’art. 132 c.p.c. e 36 d.lgs. n. 546/92 in relazione all’art. 360 comma 1, n. 4 c.p.c.
omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 110 TUIR e dell’art. 26 quater dpr 600/1973 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
Con il primo motivo di ricorso l’ufficio contesta il difetto di motivazione che caratterizzerebbe la decisione impugnata: secondo la ricorrente, infatti ‘dopo aver meramente ripercorso in punto di fatto la vicenda in esame’ la CTR avrebbe condensato la propria reale motivazione in una sola laconica espressione.
Con il secondo motivo di ricorso, invece, la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
I due motivi, fra loro strettamente avvinti e tendenti a sovvertire l’impianto motivazionale della decisione impugnata, sulla scorta di profili di censura contigui, possono essere esaminati congiuntamente. Essi risultano altresì infondati.
Si è correttamente affermato che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , quando, benché graficamente esistente, non renda tuttavia percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. (Sez. 1, ord. n. 1986 del 28/01/2025 – Rv. 673839 – 01).
Trattasi di affermazione del tutto consolidata, a partire almeno dall’arresto nomofilattico reso da Sez. U, sent, n. 22232 del 03/11/2016, secondo cui, appunto, la motivazione è solo apparente e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto tale una motivazione caratterizzata da considerazioni affatto incongrue rispetto alle questioni prospettate, utilizzabili, al più, come materiale di base per altre successive argomentazioni, invece mancate, idonee a sorreggere la decisione). Nello stesso senso, anche Sez. 6 – 5, ord. n. 13977 del 23/05/2019 e Sez. 6 – 1, ord. n. 6758 del 01/03/2022
Pertinente anche quanto statuito da Sez. L, ord. n. 3819 del 14/02/2020: ‘In tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina
logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito.
Al contempo, si è più volte precisato che l’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., come riformulato ex art. 54 d.l. n. 83 del 2012, prevede un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia formato oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); va peraltro escluso che tale omesso esame possa riguardare l’argomentazione della parte la quale, svolgendo le proprie tesi difensive, non fa che manifestare il proprio pensiero sulle conseguenze di un certo fatto o di una determinata situazione giuridica (da ultimo, Sez. 2, ord. n. 2961 del 06/02/2025; in precedenza anche Sez. 2, ord. n. 17005 del 20/06/2024).
Orbene, l’applicazione dei principi suddetti al caso di specie rende evidente come, con riferimento al denunciato difetto di motivazione, il vizio risulti in realtà insussistente, posto che la decisione di sviluppa per ben 7 pagine, riporta in modo sintetico ma sufficiente il pregresso grado di giudizio, nonché la posizione delle parti nel giudizio d’appello, offrendo una motivazione dell’accoglimento del gravame proposto dalla società contribuente che -comprensibilmente sgradito alla parte soccombente -supera certamente il minimo costituzionale di cui si è detto. Quanto, invece, all’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c., alla considerazione che precede, che comunque ridonda nella valutazione complessiva della motivazione della decisione qui impugnata, è la stessa formulazione del motivo a ricondurre, sostanzialmente, la pretesa omissione, ad un vizio di sussunzione all’interno di una disposizione normativa piuttosto che un’altra, circostanza che evidentemente toglie pregio alla denunzia ex art.
360 n. 5 c.p.c., che presuppone l’individuazione di un ‘fatto decisivo’ e non delle conseguenze giuridiche che dal medesimo ‘fatto’ vorrebbero trarsi e che sono oggetto di contrapposte ricostruzioni difensive.
Nel caso di specie, peraltro, a p. 23 del ricorso si afferma ‘la società RAGIONE_SOCIALE per gli anni di imposta 2008 (annualità oggetto del giudizio, n.d.r.) e 2009, per effetto dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 110, comma 7, TUIR ha effettuato specifiche riprese fiscali, attraverso variazioni fiscali in aumento, degli interessi in esame, trattandosi di importi non deducibili in quanto eccedenti il valore normale’. Ed ancora a p. 25 si conclude l’illustrazione del motivo affermando che ‘se il giudice di appello avesse tenuto conto di tali evidenti circostanze, non avrebbe potuto affermare che il fondamento delle contestazioni operate riguardava il difetto di inerenze, e non la violazione dell’art. 110 TUIR’.
Il che conferma -come si vedrà meglio al par. successivo -come la questione attenga all’eventuale e dedotta violazione di legge e non tanto, come preteso, ad una mera deficienza od omissione motivazionale che la stessa ricorrente non individua in un ‘fatto decisivo’, bensì in una certa qualificazione giuridica dei fatti ritenuta (a torto o giusta ragione) erronea.
Con il terzo motivo di ricorso si contesta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 110 TUIR e dell’art. 26 quater dpr 600/1973 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
Secondo la ricorrente gli interessi versati dalla controllata italiana alla società di diritto belga -diversamente da quanto ritenuto dalla decisione di merito -sarebbero stati generati da un’operazione ‘totalmente’ in violazione dei principi sul transfer pricing , che deriverebbe a sua volta dall’esistenza di un contratto di commissione intercorso fra le parti con un contratto di tesoreria a latere, per il quale lo sfasamento dei termini di pagamento praticati alla clientela avrebbe reso ‘inevitabile’ il pagamento di interessi
passivi che -invece -avrebbero dovuto ricadere unicamente sulla controllante, cui dovevano essere imputate le inefficienze della ristrutturazione del gruppo.
Rispetto a tale contestazione -con ciò procedendosi altresì ad una integrazione della motivazione della sentenza impugnata ex art. 384 ult. comma c.p.c. -acquista valore assorbente il fatto (riconosciuto come si è visto dalla stessa ricorrente) che la società contribuente italiana ha rinunciato spontaneamente, prima del giudizio, a dedurre dal proprio reddito di impresa gli interessi passivi versati alla propria controllante. Far gravare sugli stessi anche le ritenute di imposta (di cui la controllante ha chiesto la restituzione impugnando il rifiuto dell’amministrazione fiscale), costituisce comportamento in violazione dei principi contenuti nella direttiva n. 2003/49/CE, relativa al divieto c.d. di doppia imposizione, che sono stati recepiti all’art. 26 -quater comma 5 del d.P.R. n. 600/1973. Tale direttiva, come noto, punta a garantire una tassazione equa dei pagamenti eseguiti fra società consociate di Stati membri diversi, evitando la doppia imposizione tra Stati membri; essa si applica ai pagamenti di interessi ed al pagamento di canoni.
Ora, nella fattispecie in esame, occorre nuovamente ribadire, non è in discussione una presunta determinazione degli interessi in misura superiore a quella ‘normale’; bensì vengono in considerazione interessi che nella loro interezza sono stati integralmente espunti dalle deduzioni e ricompresi nel proprio reddito di impresa dalla società avente sede in Italia, contribuente che è stata conseguentemente già sottoposta a tassazione (anche) per l’intero importo degli interessi in questione, non legittimandosi pertanto una ulteriore tassazione mediante ritenute d’acconto che, nella misura già inizialmente versata, devono pertanto essere restituite alla controllante straniera, beneficiaria effettiva dei medesimi interessi versati dalla controllata.
In definitiva, pertanto, il ricorso deve essere respinto con aggravio di spese, liquidate come in dispositivo. Poiché risulta soccombente la parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13,
comma 1- quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese processuali, che liquida in euro 7.600#, oltre spese forfettarie del 15%, oltre esborsi per Euro 200 ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione