Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 994 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 994 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14407/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. PESCARA n. 190/2021 depositata il 17/03/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/12/2023 dal Co: COGNOME NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del sost. Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; uditi l’avvocato dello Stato NOME COGNOME per l’Agenzia e l’avvocato NOME COGNOME per il contribuente.
FATTI DI CAUSA
Il contribuente NOME COGNOME è stato assunto dalla RAGIONE_SOCIALE per essere distaccato prima in Turchia e poi negli Emirati Arabi Uniti, dove ha trasferito l’intero nucleo familiare, ha prestato continuativamente la sua attività lavorativa e vi risulta residente per essere stato cancellato dall’anagrafe italiana.
Chiedeva il rimborso delle trattenute operate dal datore di lavoro COGNOME quale sostituto d’imposta, sulle somme che gli erano state erogate al momento della cessazione anticipata del rapporto di lavoro.
Impugnava quindi il silenzio rifiuto avanti il giudice di prossimità, dove si costituiva l’Ufficio evidenziando non essere stata data la prova dell’assoggettamento delle somme presso lo Stato dove erano state prodotte e per non aver esibito il certificato relativo alla convenzione sulle doppie imposizioni, cioè di essere ivi sottoposto a tassazione, condizione necessaria per ottenere il rimborso richiesto.
I gradi di merito erano favorevoli alla parte contribuente, donde ricorre per cassazione l’Erario, affidandosi a tre mezzi, cui replica con tempestivo controricorso la parte contribuente che, in prossimità dell’udienza, ha altresì depositato memoria ad illustrazione delle proprie posizioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Vengono proposti tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo si profila censura ex articolo 360 numero 3 cpc, per violazione e falsa applicazione degli articoli 4,15 e 28 della Convenzione Italia – Emirati Arabi Uniti (EAU), laddove il giudice di appello ha ritenuto sufficiente l’astratta soggezione al potere impositivo del Paese straniero di residenza, non ritenendo necessario il pagamento effettivo delle imposte in quello Stato ai fini dell’esonero del pagamento delle imposte in Italia, con conseguente diritto al rimborso richiesto.
La questione è già stata esaminata più volte da questa Corte, con orientamento ormai consolidato, cui merita dare continuità.
Ed infatti, è ormai pacifico che la corretta interpretazione delle norme interne o pattizie non richieda l’effettivo assoggettamento nell’altro Paese dell’imposizione fiscale per ottenere il rimborso in Italia, essendo sufficiente l’astratta imponibilità fiscale in quel Paese, in disparte se sia stato o meno esercitato il potere impositivo.
Merita ricordare che con ordinanza n. 13848/2021 questa Corta ha affermato ‘non corretto subordinare il rimborso della ritenuta alla circostanza che la società percipiente estera abbia effettivamente ‘sborsato’, nel Paese UE di residenza, l’imposta sul dividendo proveniente dall’Italia; risultando per contro (necessario e) sufficiente che tale dividendo concorra alla formazione del reddito complessivo, ancorché́ non sussista effettivo prelievo fiscale (Cass. 19/10/2018, n. 26377; 31/01/2019, n. 2889). Il principio trovava già precedenti nella giurisprudenza della Cassazione che si era occupata dei rapporti tra società italiane partecipate da società estere, anche fuori dei paesi UE, e secondo cui la regolamentazione convenzionale della minore imposta «è applicabile per il solo fatto della soggezione del dividendo alla potestà impositiva principale dell’altro Stato, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta. La sufficienza del solo fattore in sé della esistenza del potere impositivo principale dell’altro Stato, deve ritenersi infatti
coerente con le finalità delle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, le quali hanno la funzione di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, onde evitare che i contribuenti subiscano un maggior carico fiscale sui redditi percepiti all’estero ed agevolare l’attività economica e d’investimento internazionale’ (Cass.29/01/2001, n. 1231; 7/07/2010, 23431; 10/11/2017, n. 26656). In questo solco si colloca anche Cass. V, n. 19983/2022.
Più precisamente, con arresto n. 8580/2023, in fattispecie relativa alla convenzione Italia – EAU, questa Corte di legittimità ha stabilito che «Il dato testuale della norma pattizia convenzionale in esame, che utilizza l’espressione «….imponibili soltanto nello Stato contraente…», porta a ritenere, alla luce di una interpretazione assunta in base al significato proprio del testo, che la Convenzione implica l’attribuzione esclusiva della potestà impositiva ad uno Stato, individuato, nel caso in esame, in quello in cui il reddito viene prodotto (ossia gli Emirati Arabi Uniti), e preclude all’altro Stato contraente (ossia l’Italia) la tassazione. A tale riguardo occorre rammentare che, ai fini dell’interpretazione delle Convenzioni internazionali, la Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 (ratificata e resa esecutiva in Italia cori legge 12 febbraio 1974, n. 112), all’art. 31, privilegia il criterio ermeneutico dell’interpretazione letterale più rivolto al testo della Convenzione che al contesto in cui la stessa è stata adottata; ogni trattato deve, quindi, essere interpretato secondo buona fede ed il significato da attribuire ad un determinato termine deve di norma coincidere con il significato ordinario dello stesso, con la conseguenza che sul significato ordinario può prevalere uno «particolare» solo «se è certo che tale era l’intenzione delle parti». Nello stesso senso, peraltro, anche questa Corte (Cass., sez. 5, 17/04/2019, n. 10706, in motivazione), a proposito dei criteri di interpretazione delle convenzioni sulla doppia imposizione, ha a sua volta fatto
riferimento alla medesima regola generale di cui all’art. 31, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna, puntualizzando che, ai sensi di quest’ultima disposizione, l’interpretazione letterale delle Convenzioni sia il criterio ermeneutico prima facie rilevante, nell’ambito di una ermeneutica rivolta prevalentemente al testo dello strumento pattizio ed al senso ordinario delle espressioni che lo compongono, mentre il ricorso a metodi diversi dall’interpretazione letterale è consentita unicamente nei casi in cui quest’ultima conduca a conclusioni oscure o in conflitto con altre regole del sistema …… Irrilevante risulta poi la ulteriore questione prospettata dall’Ufficio concernente la presunta inesistenza di una imposta delle persone fisiche negli Emirati Arabi Uniti, dalla quale deriverebbe il rischio di una totale esenzione da imposta a favore del contribuente. Nella fattispecie di cui all’art. 19, paragrafo 1, lett. a), della Convenzione, l’interpretazione letterale deve prendere atto che, al ricorrere delle condizioni previste dalla stessa disposizione, l’esclusione, dalla base imponibile delle imposte italiane, dei redditi derivanti da servizi resi in favore degli Emirati Arabi da parte di un soggetto residente in Italia, è espressa in termini incondizionati e non correlata all’ipotetico ulteriore presupposto della doppia imposizione giuridica, nella specie della contemporanea imposizione sugli stessi redditi da parte degli Emirati Arabi» (Cfr. Cass., V, n. 18237/2021).
Pertanto, il primo motivo è infondato e non può essere accolto.
Con il secondo motivo si prospetta ancora censura ex articolo 360 numero 3 cpc per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 del codice civile, nonché degli articoli 4, 15 e 28 della Convenzione Italia -Emirati Arabi Uniti per mancato assolvimento dell’onere della prova in assenza di idoneo certificato convenzionale. Nella sostanza, si contesta che il collegio di appello non abbia ritenuto necessaria la produzione di un attestato ufficiale dello Stato contraente dove il contribuente sia residente e che
certifichi la sussistenza delle condizioni richieste per aver diritto all’applicazione dei benefici previsti dalla convenzione.
Occorre precisare che a mente della prefata convenzione il certificato deve attestare che il contribuente rientri nella definizione di persona, di cui all’art. 3 stesso testo, che risulti residente in uno degli Stati contraenti ai sensi della convenzione stessa. Trattasi di profili non in discussione e risultando ampiamente documentato e il contribuente e da più anni ormai residente negli Emirati Arabi Uniti, essendo anche stato cancellato dai cittadini residenti in Italia.
Peraltro, anche questo profilo e stato esaminato da questa Corte con la recente ordinanza 6 novembre 2023 numero 30779, affermandosi che ai fini del rimborso le attestazioni previste dalla disciplina convenzionale non devono attestare la concreta tassazione (o meglio il prelievo). Invero il modello di convenzione OCSE (il primo risalente al 1963), in attuazione del quale è stata firmata a Roma, il 9 marzo 1976, la Convenzione tra Repubblica italiana e Confederazione svizzera contro le doppie imposizioni (poi ratificata con l. 23 dicembre 1978, n. 943), stabilisce all’art. 4 che l’espressione ‘residente in uno stato contraente’ designa ogni persona al quale, in virtù della legislazione dello Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato (‘is liable to tax’), espressione ripetuta all’art. 4 della Convenzione in esame, e nel relativo commentario OCSE si legge che la disposizione è proprio dettata al fine di risolvere casi di doppia residenza (‘The article is intended to define the meaning of term ‘Resident of a contracting state’ and to solve cases of double residences’), sempre intesa, in base alle legislazioni domestiche, dal punto di vista fiscale. Le stesse indicazioni dell’Agenzia sono in tal senso: ‘L’autorità fiscale del Paese di residenza del beneficiario del reddito può rilasciare l’Attestato di residenza fiscale utilizzando una propria modulistica da allegare alla domanda di rimborso o di applicazione diretta dell’esonero o dell’aliquota convenzionale. Il modello rilasciato
dall’Autorità fiscale estera deve attestare la residenza del beneficiario ai sensi della pertinente norma convenzionale nel periodo d’imposta ovvero alla data di rilascio dell’Attestato. Laddove l’Autorità fiscale estera preveda il rilascio dell’Attestato con procedura elettronica, la validità del documento deve essere verificabile’ e del resto in conformità con i modelli a sua volta rilasciati dall’Agenzia per i residenti fiscali in Italia (cfr . Agenzia Entrate prot. n. 2013/84404). Il certificato di residenza fiscale, dunque, è sufficiente a soddisfare le condizioni previste dall’art. 29, comma 2, della richiamata convenzione , con speciale riferimento alla necessità di allegare all’istanza di rimborso ‘un attestato dello Stato contraente (…) certificante che sussistono le condizioni richieste per avere diritto al rimborso’ (in tal senso, da ultimo, con riferimento ad analoga disposizione di altra convenzione con identico testo sul punto, Cass. 24/04/2023, n. 10884).
Pertanto, anche il secondo motivo non può essere accolto.
Con il terzo motivo si profila censura ex articolo 360 numero 4 cpc per violazione dell’articolo 112 del medesimo codice, concretandosi in omessa pronuncia, nella sostanza si lamenta non essersi pronunciato il collegio d’appello sulla consistenza della somma ripresa a tassazione quale incentivo all’esodo precisamente se doversi trattare di somma maturata durante tutto il periodo del rapporto di lavoro, risalente al 1997, oppure al solo il momento in cui il contribuente era pacificamente residente all’estero.
Per consolidata giurisprudenza non ricorre vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico -giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n.2355). Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se
manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass., 23/6/1967, n.1537). Secondo risalente insegnamento di questa Corte, al giudice di merito non può invero imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo. In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. V, n. 5583/2011).
Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (Cass. III, n. 24953/2020).
Peraltro, non è controverso in atti trattarsi di incentivo all’esodo, profilo ben diverso dal trattamento di fine rapporto, avendo quindi natura immediata e transattiva, quale corrispettivo per la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro virgola in
disparte i criteri di commisurazione in base ai quali si perviene al quantum erogato.
Neppure il terzo motivo può quindi essere accolto, donde il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in €.diecimila/00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20/12/2023.