Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24669 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24669 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/09/2025
ordinanza
sul ricorso iscritto al n. 27294/2016 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME e NOME COGNOME , rappresentati e difesi da ll’avvocato NOME COGNOME giusta procura speciale a margine del ricorso per cassazione (PEC: EMAIL;
-ricorrente –
Contro
Agenzia delle Entrate , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui è domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-resistente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria di secondo grado di Trento n. 42/01/2016, depositata il 15.04.2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
La Commissione tributaria di primo grado di Trento accoglieva i ricorsi riuniti proposti dalla RAGIONE_SOCIALE e dai soci NOME
Oggetto: Tributi –
Accertamento – Documenti extracontabili
NOME e NOME COGNOME avverso i rispettivi avvisi di accertamento, emessi per IVA e IRAP nei confronti della società e per i redditi di partecipazione a titolo di IRPEF nei confronti dei soci, in relazione all’anno d’imposta 2008, con i quali erano stati accertati maggiori ricavi non contabilizzati, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973, alla luce della documentazione extracontabile rinvenuta presso la sede della società nel corso della verifica fiscale (due quaderni riportanti gli incassi effettivi, difformi da quelli annotati e registrati nel libro contabile dei corrispettivi), delle irregolarità riscontrate nella documentazione contabile e a seguito dell ‘applicazione del ricarico medio ponderato riferibile al periodo 2008/2010;
con la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione tributaria di secondo grado di Trento accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate e rigettava quello proposto dai contribuenti, osservando, per quanto qui rileva, che:
le giustificazioni fornite dai contribuenti erano inverosimili, in quanto descrivevano un’attività del tutto inutile (spostamenti di merce dall’area magazzino all’area vendite) per spiegare la compilazione dei quaderni extracontabili, da cui risultavano i prezzi di vendita e le differenze tra incassi POS e asseriti trasferimenti di merce era notevole, sicchè si doveva ritenere che nella documentazione rinvenuta fosse stata annotata la contabilità effettiva per il periodo dall’11.04.2008 al 31.12.2008;
per il periodo dall’1 .01.2008 al 10.04.2008, la determinazione dei ricavi era stata correttamente effettuata mediante l’applicazione della percentuale di ricarico del 77,60%, ottenuta come media del rapporto tra corrispettivi dichiarati e corrispettivi risultanti dai dati extracontabili ne ll’arco temporale dall’11.04.2008 al 6.05.2010, ben potendo l’Ufficio estendere la percentuale di ricarico, determinata per
un certo periodo, ad anni diversi, dato che la società contribuente aveva svolto sempre la stessa attività;
i contribuenti impugnavano la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi;
-l ‘ Agenzia delle entrate si costituiva al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione .
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso i contribuenti denunciano la violazione ed errata applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 e 2727 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per avere la CT-2 ritenuto che la documentazione rinvenuta dalla Guardia di Finanza fosse idonea a dimostrare l’incompletezza e l’inesattezza delle registrazioni contabili, non essendo configurabili presunzioni gravi, precise e concordanti circa l’esistenza di attività non dichiarate ; sostiene che l’asserita maggiorazione dei corrispettivi, sulla base della documentazione rinvenuta, per il periodo dall’11.04.2008 al 31.12.2008, non poteva essere estesa al periodo dall’1.01.2008 al 10.04.2008, in quanto l’Agenzia delle Entrate non aveva provato che le condizioni di svolgimento dell’attività d’impresa erano le stesse;
il motivo è infondato;
sul punto occorre ribadire che gli appunti personali e le informazioni provenienti dall’imprenditore, dai quali si possa evincere una sorta di c.d. “contabilità in nero”, rappresentano un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dovendosi ricomprendere tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. cod. civ. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività
svolta, ed incombendo, a quel punto, al contribuente l’onere di fornire la prova contraria. (Cass. n. 25610 dell’1.12.2006; n. 24051 del 16.11.2011);
-anche in tema di accertamento dell’IVA è stato affermato che la documentazione extracontabile legittimamente reperita presso la sede dell’impresa, ancorché consistente in annotazioni personali dell’imprenditore, costituisce elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile, indipendentemente dal contestuale riscontro di irregolarità nella tenuta della contabilità e nell’adempimento degli obblighi di legge: ne deriva che qualora, a seguito di ispezione, venga rinvenuta presso la sede dell’impresa documentazione non obbligatoria astrattamente idonea ad evidenziare l’esistenza di operazioni non contabilizzate, tale documentazione, pur in assenza di irregolarità contabili, non può essere ritenuta dal giudice priva di rilevanza probatoria, senza che a tale conclusione conducano l’analisi dell’intrinseco valore delle indicazioni dalla stessa promananti e la comparazione delle medesime con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente (Cass. n. 21432 del 31/07/2024);
– nella specie è stato accertato dal giudice di appello che non solo erano stati rinvenuti nel corso della verifica fiscale, sotto il registratore di cassa, due quaderni riportanti, per le annualità 2007 -2010, indicazioni specifiche su incassi difformi da quelli annotati e registrati nel libro contabile dei corrispettivi, distinti per i diversi punti vendita, ma erano state constate anche plurime irregolarità nella contabilità ufficiale (quali la mancata emissione di scontrini fiscali, errori nella compilazione delle distinte delle rimanenze, che non raggruppavano i beni in categorie omogenee, mancavano per l’anno 2007 e non era stata compilata la distinta delle rimanenze iniziali del 2008, assenza in numerose fatture di acquisto della indicazione della
natura e qualità della merce, acquisti di merce prevalentemente in contanti, percentuali di ricarico diverse nei vari anni, non congruità per l’anno 2008 dei ricavi dichiarati con gli studi di settore Gerico);
-la comparazione di tutti questi dati rendeva inattendibile la contabilità ufficiale legittimando la ricostruzione dei ricavi con il metodo analitico -induttivo, stante la medesima attività esercitata nel corso dell’intero anno di imposta;
-i contribuenti, che non avevano fornito alcuna valida prova contraria, al fine di escludere le operazioni che l’Ufficio ha ricondotto alle vendite ‘in nero’, si sono limitati a proporre un mero riesame dell’apprezzamento dei fatti e delle prove, operato dal giudice di merito in ordine alle risultanze emerse all’esito della verifica fiscale;
con il secondo motivo denunciano la violazione degli artt. 116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per avere la CT-2 omesso di prendere in considerazione le condizioni economiche e patrimoniali dei soci, come provate dalla documentazione prodotta;
il motivo è inammissibile:
al riguardo va rilevato che, sulla valutazione delle prove, le Sezioni Unite di questa Corte, di recente, hanno affermato che «in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha
solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione » (Cass., Sez. U., 30 settembre 2020, n. 20867);
occorre altresì rammentare che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge ed implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass., 28 settembre 2017, n. 22707);
-per quanto riguarda l’asserita violazione dell’art. 2697 cod. civ., invece, la stessa si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l ‘onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769);
alla luce dei richiamati principi, quindi, risulta evidente che la censura sopra descritta è volta, in realtà, a sollecitare un inammissibile riesame, in questa sede dell’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla valenza probatoria degli elementi fattuali presi in esame;
-con il terzo motivo denunciano, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., la carenza e l’illogicità della motivazione, per non avere la CT-2 adeguatamente motivato e per non avere confutato i dati risultanti dal prospetto contabile offerto dai ricorrenti, mai specificamente contestato dall’Ufficio, dal quale risultava che la
documentazione rinvenuta dalla GdF riportava il valore della merce spostata giornalmente dal magazzino agli scaffali di vendita e non riguardava gli incassi, e per non avere considerato la tipologia della merce venduta dalla società contribuente (un numero altissimo di prodotti venduti a prezzi molto bassi) e la mentalità cinese, diversa da quella occidentale, mettendo illogicamente in relazione gli incassi tramite POS e la merce spostata dal magazzino agli scaffali, che non era sempre in stretta dipendenza con le vendite;
anche questo motivo è inammissibile;
alla fattispecie in esame si applica l’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. nel testo novellato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 (essendo stata la sentenza impugnata pubblicata in data 15.04.2016). A seguito di detta modifica normativa, non trovano più accesso al sindacato di legittimità della Corte le censure riguardanti il vizio di insufficienza o incompletezza della motivazione della sentenza di merito impugnata, essendo denunciabile con il ricorso per cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U. 7.04.2014, n. 8053);
-la nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha sostituito l’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. (con
riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate dopo l’11.09.2012), ha limitato il ricorso alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti “, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (Cass. 2.10.2017, n. 23940);
laddove non si contesti la inesistenza del requisito motivazione della provvedimento impugnato, quindi, il vizio di motivazione può essere dedotto solo in caso di omesso esame di un ‘fatto storico’ controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia ‘decisivo’ ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per contestare la sufficienza della sua argomentazione sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit. e Cass. Sez. U. 22.09.2014, n. 19881);
-è stato poi precisato che il controllo previsto dal nuovo n. 5 dell’art. 360, comma 1, cod. proc. civ. concerne l’omesso esame di un fatto ‘storico’, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
si tratta di censura che, tuttavia, impone a chi la denunci di indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” ( ex multis , Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.);
i ricorrenti non hanno denunciato l’omesso esame di un fatto, ma il vizio sotto il paradigma previgente di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., avendo censurato, nella sostanza, una motivazione insufficiente della sentenza impugnata, lamentando un omesso esame di elementi di prova;
i ricorrenti, inoltre, deducono solo apparentemente un omesso esame di fatto decisivo, ma in realtà mirano alla rivalutazione dei fatti, operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. n. 8758 del 4/07/2017), prospettando nel ricorso non l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì l’apprezzamento delle prove, rimesso alla esclusiva valutazione del giudice di merito ( ex multis , Cass. n. 3340 del 5/02/2019; Cass. n. 640 del 14/01/2019; Cass. n. 24155 del 13/10/2017);
in conclusione, il ricorso va rigettato e la parte ricorrente va condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che si liquidano in euro 5.900,00, oltre alle spese prenotate a debito;
dà atto, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 25 giugno 2025.