Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19396 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19396 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 1108/2023 proposto da:
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO . PEC: EMAIL
–
ricorrente- contro
RAGIONE_SOCIALE a responsabilità limitata, nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al controricorso, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. Prof. NOME COGNOME, presso il cui studio in Roma, INDIRIZZO elegge domicilio.
(PEC:
)
(PEC: EMAIL)
-controricorrente-
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della TOSCANA n. 810/04/22 depositata in data 16 giugno 2022, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29 maggio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso presentato dalla RAGIONE_SOCIALE a responsabilità limitata, esercente l’attività di «Gestione di palestre», avente ad oggetto l’avviso di accertamento con il quale, per l’anno d’imposta 201 4, è stata disconosciuta la natura di ente non commerciale e recuperato a tassazione un reddito di euro 238.509,00 derivanti da attività commerciale non dichiarata, oltre a procedere al recupero dell’I.V.A. non versata , ed è stata contestata la violazione del divieto di distribuzione indiretta di utili in relazione al compenso erogato ad alcuni collaboratori e soci in misura superiore al 20% ai salari previsti per le stesse qualifiche dai C.C.N.L. e alla corresponsione di un canone per l’affitto dei locali dove svolgeva la sua attività per un valore molto superiore a quello di mercato.
I giudici di secondo grado, per quel che rileva in questa sede, hanno ritenuto infondato l’appello proposto dall’Ufficio ritenendo che i due rilievi contestati si basavano su presupposti infondati e su argomentazioni valutative molto discrezionali, tali da prestarsi a letture contrastanti e prive della necessaria certezza, ed hanno affermato che:
-) « In primo luogo, va detto che è effettivamente vero quello che sostiene la società RAGIONE_SOCIALE a proposito della perizia COGNOME, e cioè che la perizia aveva ad oggetto solo una stima del canone di locazione dell’immobile utilizzato per l’attività sportiva e non già dell’azienda complessivamente considerata. Questo significa che quando il
perito dice che un canone annuo di affitto congruo è di € 213.600,00, egli si riferisce solo alla struttura ma non tiene conto né delle attrezzature, né tantomeno dell’avviamento commerciale. Quando l’Agenzia delle Entrate scrive che piscina, centro benessere, centro di dimagrimento, zone pesistica, cardiofitness, cardio e sale corsi sarebbero già stati considerati dall’architetto COGNOME nella sua valutazione, scrive una cosa solo parzialmente esatta. Infatti, come risulta a pag. 2 e 3 della relazione allegata il perito ha preso in considerazione i locali dove si svolgevano queste attività, ma non le attrezzature con il relativo costo ed usura da ammortizzare né il bene immateriale costituito dall’avviamento. Ne consegue che trattandosi di una struttura particolarmente grande e complessa, con molte attrezzature, si tratta di una valutazione (quella sul ‘giusto’ affitto di azienda) estremamente difficile ed opinabile e quindi non si può affermare -come fa l’ufficio sbrigativamente che si tratti di un affitto eccessivo e fuori mercato e che serva a celare una redistribuzione di utili. Per poter fare fondatamente una affermazione del genere, si dovrebbe almeno disporre di dati di comparazione il più possibile omogenei ed attendibili, cioè in primo luogo sapere quali sono gli affitti di azienda praticati per situazioni simili; ma questo non è in alcun modo ricavabile dagli atti. Del resto la stessa Guardia di Finanza scrive che ‘e possibile ritenere che il canone di affitto d’azienda in questione possa essere quantificabile in € 26 2.100,00’ »;
-) « Il CCNL per impianti sportivi e palestre prevede che il livello più alto (livello Q) prenda uno stipendio minimo di € 1.245,11; più € 530,04 di contingenza; più € 60,00 per indennità di funzione; più € 10,30 per EDR Federale. Quindi non prende in considerazione la parte contributiva a carico del datore di lavoro e la quota di TFR da accantonare, il che è logico perché ciò che rileva per il CCNL è quello che percepisce il lavoratore e se è vero che si tratta di una indicazione ‘al lordo’ come sostiene l’Agenzia delle Entrate è altrettanto vero che si tratta di una indicazione al lordo delle imposte, il che non toglie che l’esborso del datore di lavoro è necessariamente maggiore proprio perché deve pagare contributi e accantonare TFR. Quindi rispetto a queste voci è una indicazione al netto (nel senso che non le comprende). È dunque fondato il rilievo della CTP e della società appellata per cui l’Agenzia delle Entrate nello stabilire la eccessività dei compensi erogati dalla Sport Salus, ha comparato dei dati non del tutto omogenei e quindi il risultato non è affidabile ».
L’Agenzia delle Entrate ha prop osto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi, cui resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE a responsabilità limitata.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo motivo deduce la v iolazione e falsa applicazione dell’articolo 10, comma 6, lett. e), nonché lett. b), del d.lgs. n. 460 del1997 e dell’art. 2697 c.c., nonché dell’art. 12 preleggi , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in quanto il giudice del merito non aveva applicato correttamente la norma secondo cui, per negare il regime fiscale dell’associazione sportiva, era sufficiente la corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20 per cento rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionale. Il Giudice del merito aveva ritenuto erroneamente che il costo del personale da prendere in riferimento per verificare se vi fosse stata una distribuzione indiretta di utili era il costo aziendale, tuttavia l’ art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 460 del 1997 parlava esclusivamente di corresponsione ai lavoratori di salari superiori al 20% rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi, così come ribadito con la risoluzione n. 9/2007. Il confronto dei compensi lordi erogati era avvenuto con i dati tabellari del CCNL per le palestre, anche essi espressi al lordo, in quanto validi per ciascun lavoratore indistintamente e previsti dai contratti collettivi come valori al lordo. Il Giudice del merito aveva effettuato, dunque, una comparazione di dati contra legem ed erroneamente aveva fatto propria la tesi della società che aveva ritenuto di prendere quale grandezza di riferimento il costo aziendale, mentre il citato art. 10 richiamava esclusivamente la nozione di «compensi corrisposti», per cui secondo la piana applicazione letterale della norma, non vi era spazio per le strumentali argomentazioni della contribuente. La CTR, inoltre, aveva parimenti disapplicato il disposto di cui all’art. 10, c omma 6, lett. b), del d.lgs. n. 460 del 1997, riconoscendo in relazione al canone di affitto di azienda valori assolutamente sovrastimati rispetto a quelli di mercato, per quanto appresso si esporrà. La CTR non aveva tenuto conto, ancora, del
cumulo di tali erogazioni in capo ai lavoratori, il ruolo di vertice ricoperto dagli stessi all’interno della società e, soprattutto l’entità delle somme corrisposte, a cui doveva essere aggiunto quanto percepito a titolo di canone di locazione stante i rapporti esistenti fra la RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE rappresentate e amministrate entrambe dai soci COGNOME NOME e COGNOME NOME.
2. Il secondo motivo deduce l’o messo esame di fatti decisivi per il giudizio che ove considerati ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. , avrebbero determinato l’esito opposto della controversia, in quanto il giudice del merito al fine di stimare il canone annuo di affitto che la società RAGIONE_SOCIALE aveva corrisposto all’RAGIONE_SOCIALE per l’utilizzo degli impianti sportivi, aveva omesso di considerare, che, a norma dell’art. 10, c omma 6, lett. b), del d.lgs. n. 460 del 1997, non andavano riconosciuti ulteriori valori oltre quelli normali di mercato, come indicati invece dalla parte e dal suo perito, e che finivano per integrare una distribuzione indiretta di utili in favore del locatore e degli effettivi responsabili dell’impresa . In particolare, i giudici di secondo grado non avevano esaminato le questioni poste dall’Ufficio circa i rapporti esistenti fra RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE rappresentate e amministrate entrambe da COGNOME Alessandro e COGNOME NOME, come si ricavava alle pagine 15 e 16 dell’avviso di accertamento, che aveva preso posizione su questa anomalia, vale a dire sulla circostanza che il contratto annuo di affitto concordato fra le parti era alquanto elevato nel canone, in quanto i due contraenti, l’immobiliare RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE erano gestite di fatto dagli stessi amministratori (COGNOME NOME e COGNOME NOME) e ciò aveva favorito l’indicazione di un prezzo favorevole per entrambi, al fine di non fare emergere la natura commerciale dell’ Associazione. L ‘omessa valutazione delle condizioni soggettive di chi concretamente gestiva la palestra Salus rappresentava il «fatto decisivo» che, se fosse stato apprezzato dal
giudice del merito, avrebbe condotto a una diversa decisione. Il giudice, sul punto, aveva omesso di considerare che nella stipulazione del contratto di affitto della palestra fra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, la stima della perizia dell’Arch. COGNOME era stata disattesa dalla stessa parte e la locazione dell’immobile era passata da euro 213.600,00 ad euro 354.000,00, come evidenziato a pag. 15 dell’accertamento. Poi, era stato aggiunto l’importo di euro 106.000 ,00 per tener conto della produzione di redditi futuri, redditi futuri che, tuttavia, non vi erano stati, avendo la palestra prodotto solamente perdite come era prevedibile, dovendo pagare un canone d’affitto esageratamente alto e a dimostrazione che il valore di 106.000,00 euro non rappresentava la redditività aziendale. Si trattava di un importo del tutto eccessivo rispetto al valore di mercato e che nascondeva una distribuzione indiretta di utili a favore della immobiliare RAGIONE_SOCIALE Non a caso sul punto la norma (art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 460 del 1997) prevedeva alla lett. b) che costituiva distribuzione indiretta di utili « l’acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore normale ». Inoltre, la RAGIONE_SOCIALE, così come indicato nel contratto di locazione, aveva provveduto ad ammortizzare i costi inerenti le attrezzature e macchinari in questione in espressa deroga a quanto disposto dall’articolo 102 , comma 8, del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo cui « 8. Per le aziende date in affitto o in usufrutto le quote di ammortamento sono deducibili nella determinazione del reddito dell’affittuario o dell’usufruttuario ». La valutazione del Giudice del merito, che aveva quantificato nell’importo di euro 106.000 ,00 la capacità dell’azienda di produrre reddito , era stata parziale perché non aveva tenuto conto di rilevanti costi di gestione facilmente prevedibili e legati a un canone di affitto di importo spropositato a cui corrispondevano successive ingenti perdite aziendali. Tale decisione era, quindi, monca, perché era stato omesso un «fatto decisivo» che
se fosse stato apprezzato dal giudice del merito, avrebbe condotto a una diversa decisione, vale a dire che la determinazione di un canone di affitto annuo così elevato era stato il frutto di un accordo consapevole fra due società per sottrarre imponibile all’Erario.
3. Deve premettersi che con avviso di accertamento n. T8D03PF003112018 , relativo all’anno d’imposta 201 4, veniva contestata alla Sport Salus la decadenza dal regime agevolato previsto dalla legge n. 398 del 1991 e dal regime ordinariamente previsto per gli enti non commerciali dall’art. 148 del d.P.R. n. 917 del 1986 , in quanto, secondo l’assunto dell’Ufficio, la società contribuente aveva violato il divieto di distribuzione anche indiretta di utili o di avanzi di gestione, non rispettando quanto previsto dall’art. 148, comma 8, lett. a) , del d.P.R. n. 917 del 1986. In particolare, la società RAGIONE_SOCIALE: a) aveva erogato compensi ad alcuni collaboratori, oltre che ad alcuni soci, impiegati in qualità di istruttori nell’ambito dell’attività svolta dalla società, ritenuti più elevati di quanto previsto dall’art. 10, comma 6, lett. e) , del d.lgs. n. 460 del 1997; b) aveva corrisposto un canone, per l’affitto dell’azienda condotta dalla società e di cui era proprietaria la società RAGIONE_SOCIALE s.r.RAGIONE_SOCIALE, di « valore superiore a quello di mercato » o sintomatico di « una condotta palesemente antieconomica ». Per effetto di tali riliev i, l’Ufficio aveva dichiarato la decadenza della RAGIONE_SOCIALE dalla fruizione del regime di cui alla legge n. 398 del 1991 ed aveva rideterminato il reddito imponibile ai fini IRES, IVA, IRAP, ai sensi dell’art. 73, comma 1, lett. b), del T.U.I.R. .
4. Il primo motivo, con specifico riguardo alla dedotta violazione di legge dell’art. 10, comma 6 , lett. e), del d.lgs. n. 460 del1997 (non già con riferimento alla lett. b) del d.lgs. n. 460 del 1997, pure richiamata, di cui di qui a poco si dirà), è ammissibile, in quanto, diversamente da quanto affermato dalla società controricorrente, la censura non sollecita una rivalutazione dei fatti, ma deduce una falsa applicazione di legge per errore di sussunzione, conformemente alla giurisprudenza
di questa Corte secondo cui « Il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva di una norma, ma il vizio di cui all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ. comprende anche l’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa; tale vizio si riferisce ad un momento successivo a quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto ed investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nell’affermazione erronea dell’esistenza o dell’insussistenza di una norma, ovvero della attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata (violazione di legge in senso proprio); la falsa applicazione consiste invece nell’assumere la fattispecie concreta sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista, pur rettamente individuata e interpretata, non è idonea a regolarla » (Cass., Sez. U., 18 gennaio 2001, n. 5 e, più di recente, Cass., 29 agosto 2019, n. 21772; Cass., 28 novembre 2007, n. 24756; Cass., 26 settembre 2005, n. 18782; Cass., 11 agosto 2004, n. 15499).
4.1 Nello specifico, l’Agenzia censura una «violazione di legge in senso proprio» correlata all’interpretazione della norma di legge (e non alla sua falsa applicazione), che non involge il processo valutativo dei fatti, men che meno, come assume la società controricorrente, l’operazione matematica di confronto fra i compensi erogati dalla RAGIONE_SOCIALE ai suoi collaboratori e quelli indicati nel CCNL di riferimento, valutazione di dati empirici che segue necessariamente alla corretta interpretazione della norma invocata.
4.2 Il motivo, invece, nella parte in cui deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 6, lett. b), del d.lgs. n. 460 del 1997, è inammissibile in quanto si tratta di doglianza diretta, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge
(Cass., 19 agosto 2020, n. 17313). E’, infatti, inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., 4 aprile 2017, n. 8758). Inoltre, la giurisprudenza prevalente di questa Corte è nel senso che, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrap ponendone uno difforme, l’apprezzamento di fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che lo scrutinio dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal moment o che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione che ne ha fatto il giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30042; Cass., 7 aprile 2017, n. 9097; Cass., 7 marzo 2018, n. 5355).
4.3 Il motivo, nei limiti riguardanti la censura avente ad oggetto l’art. 10, comma 6, lett. e), del d.lgs. n. 460 del 1997, come già detto ammissibile, è pure fondato.
4.4 Ai sensi dell’art. 90, comma 1, della legge n. 289 del 2002, « Le disposizioni della legge 16 dicembre 1991, n. 398 e successive modificazioni, e le altre disposizioni tributarie riguardanti le associazioni sportive dilettantistiche si applicano anche alle società sportive dilettantistiche costituite in società di capitali senza fine di lucro ». In particolare, l’art. 90, comma 18, dispone che gli statuti delle società e associazioni sportive dilettantistiche debbano prevedere
espressamente, tra gli altri, «d ) l’assenza di fini di lucro e la previsione che i proventi delle attività non possono, in nessun caso, essere divisi tra gli associati, anche in forme indirette ‘. Si tratta, come è stato affermato dalla dottrina, di un parallelismo con le previsioni dell’art. 148, comma 8, del T.U.I.R., per effetto del quale le agevolazioni previste per gli enti associativi (e quindi anche per le Associazioni Sportive Dilettantistiche e – come conseguenza del richiamo nell’art. 90 della legge n. 289 del 2002, anche per le Società Sportive Dilettantistiche) valgono a condizione che gli atti costitutivi e statuti contengano le clausole ivi citate e – soprattutto – si conformino ad esse, nel senso che devono essere riscontrate nella realtà operativa del sodalizio sportivo. Più specificamente, la norma di cui all’art. 148, comma 3, T.U.I.R., contiene, con specifico riferimento alle Società Sportive Dilettantistiche, l’agevolazione per la quale « non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate dietro il pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti, (…) e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali ».
4.5 Perché un’associazione sportiva dilettantistica possa beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 148 TUIR non è sufficiente la sua astratta sussumibilità in una delle categorie previste da tali norme, ma è necessario che essa dia prova di svolgere la propria attività nel pieno rispetto di tutte le prescrizioni imposte da esse. In particolare, laddove l’art. 148 TUIR esclude la natura commerciale delle attività svolte dagli enti associativi in favore dei propri associati e l’imponibilità delle somme da questi versate a titolo di quote associative, introduce una deroga alla disciplina generale fissata dagli artt. 86 e 87 del TUIR, che assoggettano ad imposta tutti i redditi, in denaro o in natura, posseduti da soggetti diversi dalle persone fisiche, con la conseguenza, per quel che rileva in questa sede, che l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano l’esenzione è a carico del
soggetto che la invoca, secondo gli ordinari criteri stabiliti dall’art. 2697 c.c. In conclusione, gli enti di tipo associativo non godono affatto di una sorta di «status di extrafiscalità», che li esenta, per definizione, da ogni prelievo fiscale, potendo anche le associazioni senza fini di lucro svolgere di fatto attività a carattere commerciale (Cass., 5 agosto 2016, n. 16449; Cass., 11 dicembre 2012, n. 16449; Cass., 25 novembre 2008, n. 28005; Cass., 20 ottobre 2006, n. 22598; Cass., 17 ottobre 2005, n. 20073).
4.6 Per quel che riguarda più specificamente la vicenda in esame, anche di recente, questa Corte ha sostenuto che « In tema di agevolazioni fiscali, ai fini della qualifica di ente non commerciale rileva l’esercizio, in via prevalente, di attività rese in conformità ai fini statutari non rientranti nelle fattispecie di cui all’art. 2195 c.c., svolte in mancanza di specifica organizzazione e verso il pagamento di corrispettivi non eccedenti i costi di diretta imputazione, con la conseguenza che va disconosciuto il regime di favore previsto dall’art. 143 (già 108) del d.P.R. n. 917 del 1986, per carenza di detti requisiti di “decommercializzazione”, in caso di distribuzione degli utili, omessa compilazione del libro dei soci e mancata partecipazione degli associati alla vita dell’ente » (Cass., 23 settembre 2024, n. 25401; ed anche Cass., 11 marzo 2015, n. 4872; Cass., 26 settembre 2018, n. 22939; Cass., 12 dicembre 2018, n. 32119).
5. L’art. 10, comma 1, lett. d, del d.lgs. n. 460 del 1997 prevede, tra gli elementi necessari per l’iscrizione nel registro RAGIONE_SOCIALE, il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’organizzazione. L’art. 10, comma 6, lett. e, del d.lgs. n. 460 del 1997, in particolare, prevede che « si considera in ogni caso distribuzione indiretta di utili o di avanzi di gestione … la corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20 per cento rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche ».
5.1 In punto di diritto, questa Corte ha affermato che « i requisiti formali previsti dal d.lgs. n. 460 del 1997, art. 10, non possono ritenersi surrogabili con il concreto accertamento della fattuale osservanza dei precetti della norma, sia per la non equivoca lettera della legge sia per il fatto che si tratta di norma di stretta interpretazione (Cass., Sez. U., 25/05/2009, n. 11986; Cass. 30/03/2009, n. 7653) » (Cass., 30 giugno 2011, n. 14371) e che la disposizione di cui art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 460 del 1997 ha la natura di norma antielusiva sostanziale (Cass., 16 maggio 2019, n. 13163).
5.2 Costituisce orientamento consolidato quello per cui « In tema di organizzazioni non lucrative, l’art. 10, comma 6, lett. e) del d.lgs. n. 460 del 1997 fonda una presunzione di distribuzione indiretta di distribuzione di utili nel caso di corresponsione ai dipendenti di compensi superiori del 20% rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi, mentre il mancato superamento di detta soglia non prova il contrario, né consente di ritenere automaticamente congrua e corretta l’erogazione dei compensi ove – con valutazione di fatto affidata al giudice di merito – dal complesso degli elementi emerga che l’ente svolga in concreto una attività commerciale e la corresponsione delle somme percette sia sproporzionata e sostanzialmente ingiustificata, sì da assorbire la gran parte dei proventi, distogliendoli dai fini istituzionali e rivelando, per contro, l’effettiva finalità lucrativa dell’ente» (Cass., 11 marzo 2021, n. 6835; Cass., 6 luglio 2023, n. 19222).
5.3 Inoltre, è stato pure sottolineato che la disposizione dell’art. 10, comma 6, lett. e), del d.lgs. n. 460 del 1997, nel generico rinvio ai contratti collettivi, di cui non specifica la natura, non prevede la necessità di operare obbligatoriamente una media tra vari contratti collettivi, non espressamente indicata, né essa è imposta dall’uso del plurale che viene utilizzato unicamente per concordare con il
riferimento ai «lavoratori» e alle loro qualifiche (Cass., 16 maggio 2019, n. 13163, che richiama la risoluzione n. 9 del 25 gennaio 2007 dell’Amministrazione secondo cui ai fini dell’interpretazione della nozione di distribuzione in forma indiretta dei proventi derivanti dall’attività sociale, di cui all’art. 90, comma 18, lett. d), della legge n. 289 del 2002, valgono i criteri stabiliti dall’art. 10, comma 6, del decreto legislativo n. 460 del 1997 e che fuori dalle fattispecie individuate dal citato articolo 10, comma 6, le ipotesi di distribuzione indiretta di utili o avanzi di gestione, caratterizzate dall’intento di conseguire finalità lucrative, devono essere verificati caso per caso in relazione agli specifici comportamenti concretamente posti in essere).
5.4 Va, dunque, affermato che la norma invocata fonda una presunzione di distribuzione indiretta per una serie di casi e che la lettera ‘e’, in particolare, che prevede la corresponsione ai dipendenti di compensi superiori del 20% a quelli previsti dai contratti collettivi, deve essere interpretata nel senso che il superamento di tale soglia comporta in sé l’esclusione del regime di favore.
5.5 Ciò posto, la Commissione tributaria regionale della Toscana ha respinto l’appello dell’Ufficio, in ciò condividendo le argomentazioni prospettate dalla società appellata, affermando testualmente, a pag. 3 della sentenza impugnata, che « Per quanto riguarda l’altra questione fondamentale e cioè la contestata redistribuzione di utili attraverso i compensi ‘eccessivi’ ai collaboratori e dipendenti si deve considerare che anche in questo caso l’Agenzia delle Entrate è partita da un dato fattuale errato, o comunque male interpretato. Il CCNL per impianti sportivi e palestre prevede che il livello più alto (livello Q) prenda uno stipendio minimo di € 1.245,11; più € 530,04 di contingenza; più € 60,00 per indennità di funzione; più € 10,30 per EDR Federale. Quindi non prende in considerazione la parte contributiva a carico del datore di lavoro e la quota di TFR da accantonare, il che è logico perché ciò che rileva per il CCNL è quello che percepisce il lavoratore e se è vero
che si tratta di una indicazione ‘al lordo’ come sostiene l’Agenzia delle Entrate -è altrettanto vero che si tratta di una indicazione al lordo delle imposte, il che non toglie che l’esborso del datore di lavoro è necessariamente maggiore proprio perché deve pagare contributi e accantonare TFR. Quindi rispetto a queste voci è una indicazione al netto (nel senso che non le comprende). È dunque fondato il rilievo della CTP e della società appellata per cui l’Agenzia delle Entrate nello stabilire la eccessività dei compensi erogati dalla RAGIONE_SOCIALE, ha comparato dei dati non del tutto omogenei e quindi il risultato non è affidabile ».
5.6 Così argomentando, la sentenza impugnata non ha interpretato correttamente la norma di riferimento che, come è stato già rilevato, prevede esclusivamente « la corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20 per cento rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche» ; ed invero, a fronte del chiaro tenore letterale della norma di riferimento, i giudici di secondo grado hanno ritenuto corretta la prospettazione della società contribuente secondo cui la grandezza di riferimento per la comparazione dei salari contrattuali con i compensi corrisposti all’istruttore fitness (COGNOME NOME) e all’addetto ai servizi amministrativi (COGNOME NOME) non poteva che essere il «c.d. costo azienda»; la chiara applicazione letterale della norma, laddove richiama la nozione di «compensi corrisposti», invero, non consentiva il riferimento a ulteriori considerazioni (pure spese dai giudici di appello), quali l’avere considerato i compensi previsti nel CC NL per gli operai di terzo livello retributivo (e non un livello superiore) e il riferimento ai corrispettivi erogati per lo straordinario, il lavoro notturno, il lavoro festivo, voci del tutto avulse dal contesto letterale di riferimento del salario o dello stipendio previsto dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche. Ed invero, come emerge dal PVC, trascritto, per quanto rileva, nel ricorso per cassazione, al quale era
stato allegato il contratto collettivo per il comparto palestre, la Guardia di Finanza aveva sviluppato una tabella con l’indicazione dei compensi lordi erogati dalla RAGIONE_SOCIALE ai propri lavoratori, comparandoli con i dati tabellari del CCNL per le palestre, anch’essi espressi al lordo: « Si dà atto che sono stati esaminati i compensi percepiti dai soci della “RAGIONE_SOCIALE RC” in relazione alle prestazioni sportive svolte presso e in favore della stessa. ln merito viene riportato il seguente prospetto contenente i compensi lordi percepiti dai suddetti soci, dal Sig. COGNOME NOME nella sua qualità di istruttore fitness e dal Sig. COGNOME NOME in qualità di collaboratore per lo svolgimento di attività amministrativo gestionale presso la “RAGIONE_SOCIALE‘ » L’ Ufficio ha, quindi, comparato dati perfettamente omogenei ponendo a confronto i compensi lordi erogati dalla palestra con i compensi lordi previsti dal CCNL «Impianti sportivi e palestre»; né rileva la circostanza dedotta dalla società controricorrente (condivisa, come già detto, in modo contraddittorio, dalla CTR) che i compensi oggetto di verifica attenevano a rapporti di collaborazione (che non sono ovviamente qualificabili come salari o stipendi da lavoro dipendente, bensì sono compensi per collaborazioni, inquadrate dal Testo Unico delle imposte sui redditi come redditi diversi ai sensi dell’ art. 67, comma 1, lett. ‘ m ‘ , del T.U.I.R.), in quanto la norma che viene in rilievo nella vicenda in esame è l’art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 460 del 1996 , che stabilisce i criteri che debbono essere applicati ai fini della corretta interpretazione della nozione di distribuzione indiretta dei proventi dell’attività sociale tra gli associati. Giacché nessuna valenza assume, ai fini della corretta applicazione dell’art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 460 del 1997, la circostanza che lo stipendio o salario percepito dal lavoratore dipendente non tenesse minimamente conto degli oneri fiscali, contributivi e assistenziali a carico dell’azienda e dovut i per effetto dell’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato e che, di contro, il compenso percepito da COGNOME NOME e COGNOME NOME (e non già degli
altri soci e collaboratori non oggetto di verifica) era onnicomprensivo. Sotto questo specifico profilo sono del tutto «fuori contesto interpretativo» anche le argomentazioni svolte dai giudici di secondo grado sulla questione della omogeneità dei dati posti a confronto, argomentazioni che poi hanno condotto i giudici di secondo grado a considerare come grandezza di riferimento non più il compenso corrisposto ai due lavoratori, quanto piuttosto il c.d. costo azienda (rappresentativo della sommatoria del compenso netto erogato al dipendente; delle imposte e i contributi a carico del dipendente che sono trattenuti in busta paga dal datore di lavoro e delle imposte e contributi a carico del datore di lavoro) , che secondo l’assunto della società RAGIONE_SOCIALE consentiva di verificare con immediatezza se il compenso lordo erogato ai collaboratori della RAGIONE_SOCIALE fosse superiore a quello che avrebbe sostenuto la stessa società laddove avesse applicato i contratti collettivi. Il Giudice del merito ha, dunque, errato nell’interpretare la norma poiché avrebbe dovuto operare il raffronto tra i salari corrisposti ai propri dipendenti dalla società (come indicati nel Pvc al foglio 16 e 17 e nella tabella riportata nell ‘avviso di accertamento) e quelli previsti dal CCNL di riferimento, giusta la corretta interpretazione dell’art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 460 del 1997, finalizzata ad evitare che, per effetto del superamento di determinati limiti quantitativi nella erogazione di corrispettivi e compensi a favore degli associati, la società contribuente potesse realizzare la distribuzione indiretta dei proventi dell’attività della società sportiva, del tutto privi di rilievo, a tali fini, essendo anche gli altri elementi pure evidenziati dall’Amministrazione finanziaria, quali il cumulo di tali erogazioni in capo ai soggetti citati, il ruolo di vertice ricoperto dagli stessi all’interno della società e i rapporti esistenti fra RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE, rappresentate e amministrate entrambe dai soci COGNOME NOME e COGNOME NOME. Né, in ultimo, è condivisibile la prospettazione della società controricorrente
in ordine al giudicato che si sarebbe formato per acquiescenza sulla pronuncia dei giudici di primo grado in merito alla questione che l’Ufficio non aveva tenuto conto delle specifiche competenze professionali dei collaboratori della Sport Salus, casomai da essere inquadrati fra la categoria dei «quadri» e non «operai di terzo livello», in quanto come affermato, di recente, da questa Corte, il giudicato interno non si determina sul fatto, ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata da fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, con la conseguenza che l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione (come nel caso di specie) riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (Cass., 14 dicembre 2024, n. 32563).
5.7 In conclusione, il motivo va rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: « In tema di organizzazioni non lucrative, l’art. 10, comma 6, lett. e), del d.lgs. n. 460 del 1997, che fonda una presunzione di distribuzione indiretta di distribuzione di utili nel caso di corresponsione ai dipendenti di compensi superiori del 20% rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi, va interpretato nel senso che questi ultimi non tengono conto degli oneri fiscali, contributivi e assistenziali a carico del datore di lavoro dovuti per effetto dell’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato ».
Passando all’esame del secondo motivo, i n via preliminare va rigettata l’eccezione di inammissibilità del motivo sollevata dalla società controricorrente per la violazione del principio di autosufficienza, atteso che il ricorso contiene tutti gli elementi necessari a rappresentare le ragioni per cui si chiede la cassazione della
sentenza di merito e consente a questa Corte la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. Cass., Sez. U., 24 febbraio 1998, n. 1998).
6.1 Il motivo è, invece, inammissibile in relazione all’omesso esame di fatto decisivo, in costanza del principio della cd. doppia conforme ex art. 348 ter cod. proc. civ., in quanto pur avendo la parte attuale ricorrente specificato in ricorso le ragioni di fatto poste rispettivamente a fondamento della decisione di primo grado e di secondo grado, non ha dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 20 marzo 2024, n. 7442; Cass., 20 settembre 2023, n. 26934; Cass., 28 febbraio 2023, n. 5947; Cass., 9 marzo 2022, n. 7724; Cass., 26 gennaio 2021, n. 1562; Cass., 11 maggio 2018, n. 11439); con l’ulteriore precisazione che ricorre l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 348 ter , commi 4 e 5, cod. proc civ., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass., 9 marzo 2022, n. 7724).
6.1.1 Deve precisarsi, al riguardo, che sia i giudici di primo grado, che i giudici di secondo grado hanno posto a fondamento delle loro decisioni la perizia tecnica redatta dall’Arch. COGNOME su incarico della società immobiliare RAGIONE_SOCIALE (allegata al PVC), che aveva determinato il canone di affitto del compendio immobiliare in circa euro 213.600,00 all’anno. A tale voce, poi, la società concedente l’affitto aveva aggiunto due voci ulteriori, giungendo alla determinazione del
canone di affitto d’azienda in euro 420.000,00: il canone per la concessione in uso dei macchinari e delle attrezzature in circa euro 100.500,00 all’anno; il canone riferibile alla capacità dell’azienda affittata di produrre fin da subito dei redditi in circa euro 106.000,00 all’anno. L’Agenzia delle Entrate, invece, che pure aveva considerato la perizia allegata al PVC, non aveva considerato l’importo di euro 52.000,00 relativo all’ammortamento delle attrezzature e l’importo di euro 106.000,00 che rapprese ntava la capacità dell’azienda di produrre reddito.
6.1.2 I giudici di primo grado hanno tenuto conto del canone di affitto del fabbricato valutato in euro 213.600,00 annui e hanno, poi, ritenuta giustificata la pattuizione della parte di canone di euro 52.000,00 perché la società concedente era rimasta responsabile della manutenzione ordinaria e straordinaria dei beni facenti parte dell’azienda e anche il valore dell’avviamento (euro 106.000,00), così ritenendo congruo il cane di affitto di azienda di euro 420.000,00.
6.1.3 I giudici di secondo grado hanno rigettato l’appello dell’Agenzia delle Entrate precisando che quando il perito diceva che un canone annuo di affitto congruo era di euro 213.600,00, egli si riferiva solo alla struttura e non teneva conto delle attrezzature e dell’avviamento commerciale e hanno ritenuto che la valutazione sul «giusto» affitto di azienda era difficile e quindi non si poteva affermare, come aveva fatto l’Ufficio, che si trattava di un affitto eccessivo e fuori mercato, che serviva a celare una redistribuzione di utili, e che la stessa Guardia di Finanza aveva scritto che era possibile ritenere che il canone di affitto d’azienda in questione po tesse essere quantificabile in euro 262.100,00.
6.2 In conclusione, le statuizioni dei giudici del primo e del secondo grado sono fondate sui medesimi rilievi in fatto, che hanno disatteso i diversi argomenti, sostanziali e probatori, proposti dall’Agenzia delle Entrate, soccombente in ambedue i gradi del giudizio, ciò che fonda,
come già detto, l’inammissibilità della censura ai sensi dell’art. 348 ter cod. proc. civ. (cfr. Cass., 9 marzo 2022, n. 7724; Cass., 26 gennaio 2021, n. 1562).
Per le ragioni di cui sopra, va accolto il primo motivo, nei sensi di cui in motivazione, e dichiarato inammissibile il secondo motivo; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, nei sensi di cui in motivazione, e dichiara inammissibile il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 29 maggio 2025.