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Diniego interpello disapplicativo: quando è impugnabile

Una società ha ricevuto un diniego interpello disapplicativo per disapplicare la normativa sulle società non operative. La Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito, stabilendo che il provvedimento di diniego è un atto autonomamente impugnabile, in quanto manifesta una pretesa tributaria definita. Il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria è stato rigettato.

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Pubblicato il 15 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Diniego Interpello Disapplicativo: la Cassazione Conferma l’Impugnabilità Immediata

Introduzione

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale per la tutela del contribuente: il diniego interpello disapplicativo è un atto immediatamente impugnabile davanti al giudice tributario. Questa pronuncia chiarisce che il contribuente non deve attendere un avviso di accertamento per difendere le proprie ragioni, potendo agire subito per ottenere certezza giuridica sulla propria posizione fiscale. Analizziamo insieme i dettagli di questa importante decisione.

I fatti del caso: la richiesta della società e il diniego dell’Agenzia

Una società a responsabilità limitata in liquidazione aveva presentato un’istanza di interpello per ottenere la disapplicazione della normativa sulle cosiddette “società di comodo” o non operative per l’anno d’imposta 2012. La società sosteneva che la sua condizione di perdita sistematica non derivava da finalità elusive, ma da una causa di forza maggiore: il fallimento dell’impresa costruttrice da cui aveva promesso di acquistare i lotti immobiliari destinati a diventare la propria sede operativa.

L’Amministrazione Finanziaria, tuttavia, ha rigettato l’istanza. Secondo il Fisco, il ritardo nella consegna degli immobili era un rischio prevedibile fin dall’inizio, data la complessità dell’operazione immobiliare, e non costituiva un’oggettiva situazione di impedimento all’esercizio dell’attività d’impresa. Di fronte a questo diniego, la società ha deciso di adire le vie legali.

L’impugnabilità del diniego interpello disapplicativo: il primo motivo di ricorso

La questione centrale del processo è stata l’ammissibilità del ricorso. L’Amministrazione Finanziaria sosteneva che il diniego non rientrasse nell’elenco tassativo degli atti impugnabili previsto dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. Secondo questa tesi, il contribuente avrebbe dovuto attendere l’emissione di un eventuale atto impositivo per poter contestare la posizione del Fisco.

La Corte di Cassazione ha respinto categoricamente questa interpretazione, confermando il suo consolidato orientamento. I giudici hanno chiarito che, sebbene l’elenco degli atti impugnabili sia tassativo, è possibile un’interpretazione estensiva. Qualsiasi atto che porti a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria ben definita, esplicitandone le ragioni, deve essere considerato impugnabile. Il diniego di disapplicazione ha esattamente questa natura: esprime il convincimento definitivo dell’Amministrazione su un determinato rapporto tributario. Pertanto, il contribuente ha il diritto, e non solo la facoltà, di chiedere immediatamente una verifica giurisdizionale per non rimanere in uno stato di incertezza.

La presunta carenza di motivazione: il secondo motivo di ricorso

In secondo luogo, l’Agenzia Fiscale ha lamentato la nullità della sentenza della Commissione Tributaria Regionale per carenza di motivazione. A suo avviso, i giudici di secondo grado non avevano spiegato adeguatamente come il fallimento della società costruttrice avesse concretamente pregiudicato il progetto imprenditoriale della contribuente.

Anche questo motivo è stato giudicato infondato. La Suprema Corte ha distinto tra “motivazione apparente” e motivazione semplicemente non condivisa dalla parte soccombente. Una motivazione è solo apparente quando, pur esistendo graficamente, è talmente generica o contraddittoria da non far comprendere il ragionamento del giudice. Nel caso specifico, la sentenza d’appello aveva chiaramente identificato nel fallimento del fornitore la causa esterna, oggettiva e imprevedibile che giustificava la situazione della società. La critica dell’Agenzia, quindi, non riguardava un vizio del processo logico del giudice, ma un disaccordo sulla valutazione delle prove, aspetto che non può essere riesaminato in sede di legittimità.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione fonda la sua decisione su due pilastri principali. Il primo riguarda la tutela del diritto di difesa del contribuente (art. 24 Cost.). Negare l’impugnabilità immediata del diniego significherebbe costringere il contribuente a vivere in una condizione di incertezza, in attesa di un futuro e solo eventuale atto impositivo. L’ordinamento, invece, riconosce l’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) per ottenere una pronuncia che chiarisca subito la legittimità della pretesa fiscale.

Il secondo pilastro è il richiamo ai principi del diritto dell’Unione Europea. La Corte, quasi a voler rafforzare la posizione della società, ricorda una recente sentenza della Corte di Giustizia UE (causa C-341/22) che ha dichiarato l’incompatibilità della disciplina italiana sulle società di comodo (art. 30, L. 724/1994) con la direttiva IVA. La normativa nazionale, infatti, viola il principio di neutralità dell’IVA perché presume in modo automatico il carattere non operativo di una società basandosi solo sul mancato raggiungimento di soglie di ricavi, limitandone indebitamente il diritto alla detrazione.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame è di grande rilevanza pratica. Essa consolida un principio garantista fondamentale: il contribuente può e deve potersi difendere immediatamente contro qualsiasi atto che definisca una pretesa del Fisco, senza dover attendere l’atto finale di accertamento. Questa decisione non solo ribadisce la piena ammissibilità del ricorso contro il diniego interpello disapplicativo, ma rafforza anche le tutele per le imprese che, per cause esterne e non per intenti elusivi, si trovano in situazioni di difficoltà economica, specialmente alla luce della crescente incompatibilità della normativa sulle società di comodo con i principi del diritto europeo.

È possibile impugnare subito il provvedimento con cui l’Amministrazione Finanziaria nega la disapplicazione di una norma antielusiva?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che il diniego definitivo all’istanza di interpello disapplicativo è un atto autonomamente impugnabile, anche se non è formalmente un avviso di accertamento. Questo perché porta a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria ben individuata, e il contribuente ha interesse a ottenere chiarezza sulla propria posizione.

La motivazione di una sentenza è considerata ‘apparente’ se non entra nel dettaglio di ogni singolo argomento della parte?
No. La motivazione è ‘apparente’ (e quindi la sentenza è nulla) solo se è graficamente esistente ma non rende percepibile il fondamento della decisione, risultando incomprensibile. Se, come nel caso di specie, la sentenza spiega il percorso logico-giuridico seguito dai giudici per arrivare alla loro conclusione, la motivazione è sufficiente, anche se una delle parti non condivide la valutazione dei fatti.

La normativa italiana sulle ‘società di comodo’ è compatibile con il diritto dell’Unione Europea?
Secondo la Corte di Cassazione, che richiama una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-341/22), la normativa italiana (art. 30 della L. 724/1994) si pone in contrasto con la direttiva IVA (2006/112/CE) nella parte in cui presume il carattere non operativo di una società sulla base di ricavi inferiori a una certa soglia, limitando il diritto alla detrazione dell’IVA. Tale normativa deve quindi essere disapplicata dal giudice nazionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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