Inammissibilità per Sopravvenuto Difetto di Interesse: Quando la Causa Perde la sua Ragion d’Essere
L’interesse ad agire è una delle condizioni fondamentali dell’azione legale: senza un interesse concreto e attuale a ottenere una pronuncia del giudice, il processo non può proseguire. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 6923 del 14 marzo 2024, offre un chiaro esempio di come questo principio operi nella pratica, portando a una declaratoria di inammissibilità del ricorso per un sopravvenuto difetto di interesse. Analizziamo insieme questo caso emblematico.
I Fatti del Caso: Una Richiesta di Definizione Agevolata
La vicenda processuale giungeva dinanzi alla Suprema Corte a seguito di un ricorso. Tuttavia, durante il corso del giudizio di legittimità, emergeva un fatto nuovo e decisivo: la parte ricorrente aveva presentato una richiesta di “definizione agevolata”, una sorta di accordo transattivo con l’amministrazione finanziaria per chiudere la pendenza. Sebbene al momento della decisione l’esito di tale richiesta non fosse ancora noto, la sua stessa presentazione ha modificato radicalmente il quadro processuale.
La Decisione della Corte: il Rilievo del Difetto di Interesse
La Corte di Cassazione ha ritenuto che la richiesta di definizione agevolata, condivisa anche dalle controparti, dimostrasse il venir meno dell’interesse concreto e attuale della ricorrente a ottenere una decisione sulla controversia. L’interesse ad agire, infatti, deve sussistere non solo al momento dell’instaurazione del giudizio, ma per tutta la sua durata.
Di conseguenza, il Collegio ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso non per un vizio originario, ma per un difetto di interesse manifestatosi in un momento successivo all’impugnazione.
Le Motivazioni della Sentenza
La Corte ha chiarito un punto fondamentale: la richiesta di definizione agevolata, il cui esito era incerto, non era sufficiente per dichiarare la “cessata materia del contendere”. Tuttavia, tale iniziativa era una manifestazione inequivocabile della volontà della parte di risolvere la lite al di fuori delle aule di giustizia. Questo comportamento ha fatto venir meno la prima condizione dell’azione, ovvero l’interesse a una pronuncia di merito.
Un altro aspetto cruciale della motivazione riguarda le sanzioni. La legge prevede un meccanismo sanzionatorio per scoraggiare impugnazioni dilatorie o pretestuose. La Corte ha specificato che tale meccanismo si applica solo in caso di inammissibilità originaria del ricorso, cioè quando l’impugnazione è viziata fin dal principio. Nel caso di specie, trattandosi di un’inammissibilità sopravvenuta, derivante da un fatto accaduto durante il processo, le sanzioni non sono state applicate. Questa distinzione è essenziale per comprendere la ratio della norma, volta a punire l’abuso del processo e non le vicende che possono legittimamente estinguerlo.
Infine, proprio in virtù della verosimile definizione extragiudiziale della lite, che ha portato all’inammissibilità, la Corte ha ritenuto giusto compensare integralmente le spese di lite tra le parti.
Le Conclusioni
La sentenza n. 6923/2024 ribadisce un principio cardine del nostro ordinamento processuale: il processo è uno strumento per risolvere controversie reali e attuali. Quando le parti, attraverso i loro comportamenti, dimostrano di aver intrapreso strade alternative per la composizione del conflitto, il giudizio perde la sua funzione. La declaratoria di inammissibilità per sopravvenuto difetto di interesse non è una sanzione, ma la logica conseguenza del venir meno dello scopo stesso del processo. La decisione illumina anche la corretta applicazione delle norme sanzionatorie, distinguendo nettamente tra vizi originari dell’atto e vicende estintive sopravvenute, garantendo un equilibrio tra efficienza della giustizia e tutela delle parti.
Quando un ricorso diventa inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse?
Un ricorso diventa inammissibile quando, nel corso del giudizio, la parte che lo ha proposto compie un’azione che dimostra di non avere più un interesse concreto e attuale a una decisione nel merito, come ad esempio avviare una procedura di definizione agevolata della lite.
La richiesta di definizione agevolata comporta automaticamente la cessazione della materia del contendere?
No. Secondo la Corte, se l’esito della richiesta di definizione non è noto, non si può dichiarare la cessazione della materia del contendere. Tuttavia, la semplice presentazione della richiesta è sufficiente per dimostrare il venir meno dell’interesse alla decisione e, quindi, a determinare l’inammissibilità del ricorso.
Si applicano sanzioni in caso di inammissibilità per un motivo sopravvenuto?
No. La sentenza chiarisce che il meccanismo sanzionatorio previsto per le impugnazioni dilatorie o pretestuose si applica solo all’inammissibilità originaria del ricorso, non a quella sopravvenuta a causa di un difetto di interesse manifestatosi durante il processo.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 6923 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 6923 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CANDIA COGNOME
Data pubblicazione: 14/03/2024
di condivisione della suddetta richiesta ad opera dei controricorrenti, il riferimento ad una imprecisata definizione agevolata, con ultima
rata di 26.412,07 € già da tempo scaduta (il 28 febbraio 2019), ma di cui non si conosce l’esito, esclude la possibilità di dichiarare cessata la materia del contendere.
Nondimeno, la richiesta della ricorrente dimostra il sopravvenuto venir meno del concreto ed attuale interesse alla decisione e con essa della prima condizione dell’azione, che deve sussistere sino al momento della decisione
Il predetto rilievo consente allora di decidere la causa dichiarando l’inammissibilità del ricorso per il (sopravvenuto) difetto di interesse alla decisione (cfr., tra le tante, Cass., Sez. T. 28 febbraio 2024, n. 5011 e la giurisprudenza ivi citata).
Le delineate circostanze e segnatamente la verosimile definizione in ambito extragiudiziario della lite giustificano la compensazione delle spese di lite del presente grado giudizio.
Non sussistono, poi, le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2015, n. 115, la cui ratio va individuata nella finalità di scoraggiare impugnazioni dilatorie o pretestuose, sicché tale meccanismo sanzionatorio si applica per l’inammissibilità originaria del gravame, ma non per quella sopravvenuta, come in caso di sopravvenuto difetto di interesse (cfr., tra le tante, Cass., Sez. T., 28 febbraio 2024, n. 5011 e la giurisprudenza ivi citata).
P.Q.M.
la Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 novembre 2023.