Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 12463 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 12463 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 23678/2023 proposto da:
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
PEC: EMAIL
– ricorrente- contro
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante p ro tempore , rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME giusto mandato in calce al controricorso.
PEC: EMAIL
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA n. 2910/11/2023, depositata in data 4 maggio 2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso avente ad oggetto l’avviso di accertamento notificato in data 4 febbraio 2021, alla società RAGIONE_SOCIALE esercente attività di « commercio al dettaglio non specializzato elettronica, elettrodomestici », con il quale era stata accertata, ai fini IVA, un’imposta dovuta per euro 214.019,05 su un imponibile di euro 971.813,89 , in relazione all’anno d’imposta 2015.
I giudici di secondo grado, in particolare, hanno ritenuto che la società RAGIONE_SOCIALE aveva ricevuto dalla ditta RAGIONE_SOCIALE prima di emettere le fatture di vendita senza applicazione dell’Iva, la prescritta dichiarazione di intento già trasmessa telematicamente in data 2 luglio 2015 all’Agenzia delle Entrate , che, a sua volta, aveva rilasciato attestazione di corretta acquisizione e che la dichiarazione prevedeva la effettuazione di acquisti dal fornitore RAGIONE_SOCIALE per il periodo dal 2 luglio 2015 al 31 dicembre 2015; l’Amministrazione finanziaria, inoltre, in tali casi, non esercitava un controllo formale, ma un controllo sostanziale delle dichiarazioni di intento ricevute e poteva intervenire negando alla ditta RAGIONE_SOCIALE il diritto di acquistare senza l’applicazione dell’Iva, anziché limitarsi ad attestare la mera presentazione preventiva della dichiarazione di intento; in ogni caso, alla società contribuente non poteva essere richiesto un diverso e più diligente comportamento la quale, in buona fede ed avendo provveduto
a verificare con visura alla Camera di Commercio l’esistenza della ditta RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME, aveva agito in ossequio alla normativa vigente; gli elementi accertati dall’Ufficio a seguito di apposita indagine da parte degli organi competenti, quali l’assenza di organizzazione di impresa, l’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali e l’omesso versamento dell’Iva da parte della società RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME, non potevano essere richiesti alla società appe llata, non potendo esigere l’esecuzione di attività di indagini relativi al partner commerciale rivolte ad accertare l’adempimento degli obblighi di presentazione delle dichiarazioni fiscali e di versamento delle relative imposte.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi, cui resiste l’RAGIONE_SOCIALE con controricorso.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo mezzo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 8, comma 1, lett. c), e comma 2, del d.P.R. n.633 del 1972 e 2697 c.c. Il dato formale della presentazione della lettera d’intento non delegittimava affatto l’atto impositivo per cui era causa posto che la non imponibilità delle cessioni di beni asseritamente destinati all’esportazione, subordinata alla dichiarazione scritta di responsabilità del cessionario sulla destinazione del bene al di fuori del territorio comunitario e al possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla norma, veniva meno nell’ipotesi in cui si accert ava che i beni non fossero stati effettivamente esportati e che tale dichiarazione fosse ideologicamente falsa. L’invio della lettera d’intenti non eliminava la responsabilità del soggetto che operava la cessione di beni, all’uopo dovendo dimostrare di non essere consapevole della falsità della « dichiarazione d’intenti », emessa da una persona dichiaratasi
esportatore abituale in difetto della quale si legittimava in capo allo stesso cedente il recupero dell’imposta evasa. Nel caso in esame, il recupero si era fondato su un’utilizzazione strumentale da parte della cedente (stante l’assenza dei presupposti fissati dalla legge del sistema di non imponibilità previsto per le cessioni all’esportazione) della lettera d’intenti resa dal cessionario che, nella fattisp ecie, si era rilevata una mera società filtro («cartiera»), creata al solo scopo di evitare il pagam ento dell’imposta, come riscontrat o in particolare, dalla iscrizione alla C.C.I.A.A. di Napoli, dove risultava l’inizio dell’attività dal 25 febbraio 2015 e l’iscrizione nel Registro delle imprese solo dall’ 8 aprile 2015, sicché, in base alla normativa in vigore, non poteva ancora possedere lo status di esportatore abituale, per difetto del requisito temporale. Il giudice tributario di appello aveva erroneamente applicato le regole sul riparto dell’onere probatorio, posto che, con riferimento alle false dichiarazioni d’intento emesse dalle società cartiere, spettava alla società provare la mancanza di consapevolezza della falsità contestata.
Il secondo mezzo deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento ex art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. Era evidente l’erronea ricognizione del contenuto delle prove documentali acquisite agli atti di causa da parte dei giudici di secondo grado, avendo ritenuto che non poteva essere richiesto un diverso e più diligente comportamento alla società appellata, che in buona fede ed avendo provveduto a verificare con visura alla Camera di Commercio l’esistenza della ditta RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME, aveva agito in ossequio alla normativa vigente, mentre dalla visura camerale risultava che l’avvio dell’attività di commercio di materiale elettronico era avvenuta solo dal 25 febbraio 2015 e l’iscrizione nel registro delle imprese solo dall’8 aprile 2015.
L’esame delle esposte censure porta all’accoglimento del primo motivo, con assorbimento del secondo.
3.1 Va rilevato, in punto di fatto, che è pacifico, come riconosciuto dalla stessa CTR, che l’operazione era costituita dalla cessione di beni ad un esportatore abituale (la RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME), da cui il regime di non imponibilità ex art. 8, primo comma, lett. c), d.P.R. n. 633 del 1972.
3.2 Come già precisato da questa Corte « La complessiva fattispecie, nella vigenza del testo anteriore al 2014, era così delineata: a) il cessionario/committente, in caso di effettuazione di operazioni senza addebito d’imposta, era tenuto ad emettere la dichiarazione d’intento e, in mancanza, inc orreva nelle sanzioni previste dall’art. 7, comma 3, d.lgs. n. 471 del 1997; b) il fornitore (cedente/prestatore) poteva fornire la prestazione (in regime di non imponibilità) purché avesse ricevuto dall’esportatore la dichiarazione d’intento, che doveva inviare tempestivamente all’Agenzia delle entrate; in mancanza, incorreva nella medesima sanzione di cui al comma 3, richiamato dall’art. 7, comma 4 bis; c) il collegamento tra i due soggetti era poi precisato dall’ar t. 1, comma primo, lett. c) d.l. n. 746 del 1983 che imponeva al primo la trasmissione della dichiarazione d’intenti al cedente/prestatore. Le attività del cessionario/committente e del cedente/prestatore confluivano, dunque, in una unitaria, più ampia, fattispecie costituita dalla realizzazione di operazioni in regime di esonero d’imposta, con oneri ripartiti in relazione al ruolo ricoperto e con trattamento sanzionatorio mirato sulla mancanza della dichiarazione d’intenti, sia pure avuto riguardo alla specifica condotta rispettivamente attribuita. A seguito delle modifiche operate con il d.lgs. n. 175 del 2014 (e conservate con il d.lgs. n. 158 del 2015) la fattispecie risulta così articolata: a) l’obbligo fondamentale del cessionario/committente, che effe ttui operazioni senza addebito d’imposta, non è mutato: egli è tenuto ad emettere la dichiarazione d’intento e l’inosservanza è sanzionata ai sensi dell’art. 7, comma 3, d.lgs. cit.; b) tuttavia, a carico del cessionario/committente sussiste anche l’obblig o di provvedere che essa sia «trasmessa telematicamente all’Agenzia delle entrate, che rilascia apposita ricevuta telematica»; dopodiché deve consegnare al cedente/prestatore sia la dichiarazione d’intenti sia la ricevuta rilasciata dall’Agenzia delle entr ate (art. 1, comma primo, lett. c) d.l. n. 746 del 1983, come modificato dall’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2014); c) quanto al cedente/prestatore le modifiche precisano che egli non può
effettuare la cessione in regime di esenzione «prima di aver ricevuto» dal cessionario/committente «la dichiarazione d’intenti» e senza «aver riscontrato telematicamente l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate» di cui al su citato art. 1, comma primo, lett. c); d) tale norma, come modificata, rende in realtà ancora più stretto il rapporto tra i due soggetti, il quale è ulteriormente mediato con l’obbligatorio accesso, per entrambi, al sistema telematico e alla banca dati delle dichiarazioni d’intento dell’Agenzia delle entrate » (Cass., 28 luglio 2022, n. 23695).
Dunque, anche successivamente alla modifica di cui al d.lgs. n. 175 del 2014, le attività del cessionario/committente e del cedente/prestatore confluiscono nella stessa unitaria fattispecie di realizzazione di operazioni in regime di esonero d’imposta : « In evidenza, l’elemento differenziale tra le due situazioni ruota attorno allo spostamento di un unico adempimento, ossia l’invio della dichiarazione di intenti, prima a carico del fornitore e, dopo, direttamente gravante sul cessionario/committente. Giova sottolineare, invero, che l’inadempimento dell’invio della dichiarazione di intenti, pur sempre illecito, non è, in sé, più oggetto di una autonoma sanzione. Per quanto riguarda il cessionario/committente, infatti, resta incluso nella più ampia condotta a suo carico prevista dal comma 3 («Chi effettua operazioni senza addebito d’imposta, in mancanza della dichiarazione d’intento»). Quanto al cedente/prestatore, a cui il cessionario/committente ha inviato la dichiarazione e la relativa ricevuta, invece, la trasmissione della dichiarazione di intenti è sostituita dal diverso adempimento di riscontrare «telematicamente l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate» della stessa, ossia egli deve provvedere al riscontro che, effettivamente, l’operazione era stata corredata dalla dichiarazione di intenti. Si tratta, tuttavia, di adempimenti, per quest’ultimo, che sono differenti sul piano quantitativo e non su quello qualitativo. L’attività, infatti, era già necessariamente inclusa nella previgente indicazion e normativa, per la quale doveva essere effettuata: -la trasmissione al cedente/prestatore della dichiarazione di intenti dal cessionario/committente; – la comunicazione della dichiarazione così ricevuta all’Agenzia delle entrate; -la necessaria indicazi one, in tale comunicazione, degli estremi dell’atto ricevuto dal cedente/prestatore. Tale comunicazione, in altri termini, presupponeva, logicamente e fattualmente, la verifica della corrispondenza tra l’atto ricevuto e quello comunicato, e dunque richiedeva ciò che, nella nuova formulazione, è definito come riscontro, il quale prima integrava una attività necessaria e preliminare all’invio ed
ora assolve l’integrità delle verifiche in capo al soggetto: si tratta, dunque, di compiti tra loro omogenei e correlati alle medesime funzioni di controllo svolte dall’Agenzia delle entrate. A carico del cedente/prestatore, del resto, è sempre richiesta una azione che vede come destinataria l’Agenzia delle entrate, alla quale, prima, doveva inviare la dichiarazione e presso il cui sito, ora, deve accedere telematicamente per verificare se la dichiarazione sia stata effettivamente inviata » (Cass., 28 luglio 2022, n. 23695, in motivazione).
3.3 Ciò posto, questa Corte ha pure precisato che la non imponibilità contemplata dall’art. 8, primo comma, lettera c), del d.P.R. n. 633 del 1972, si differenzia dalle ipotesi previste dalle lettere a) e b) della medesima norma, le quali concernono la sussistenza del debito Iva o, meglio, la sua insussistenza; con la lettera c) il legislatore ha scelto di configurare come non imponibili le operazioni ivi elencate che altrimenti lo sarebbero, sicché la non imponibilità in quel caso non riguarda la sussistenza del debito Iva (né la relativa responsabilità, principale o solidale), bensì la esecutività di esso. E ciò in ragione della possibilità dell’estinzione satisfattiva di quel debito mediante compensazione con i crediti Iva dell’esportatore abituale. Il legislatore considera quindi non imponibili, sebbene si tratti di merci o prestazioni di servizi destinate a entrare o ad essere eseguite nel territorio dell’Unione, le cessioni di beni (tranne i fabbricati e le aree edificabili) e le prestazioni di servizi fatte a soggetti che abbiano compiuto abitualmente cessioni all’esportazione od operazioni intracomunitarie, e chiedano al loro fornitore di non applicare l’imposta sull’operazione di acquisto e/o di importazione (Cass. 15 giugno 2018, n. 15835).
Esclusa la qualità di esportatore abituale, viene meno anche il limite di esecutività, proprio al fine di non arrecare danno all’erario, poiché non può operare il meccanismo sopra descritto: ed è perciò che il 3° comma dell’art. 7 del d.lgs. n. 471 del 1997 stabilisce che qualora la dichiarazione d’intento «… sia stata rilasciata in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dell’omesso pagamento del tributo
rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa » (Cass., 15 luglio 2020, n. 14979).
Va, tuttavia, sottolineato che il sistema non consente l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite esecutivo correlato alla qualità di esportatore abituale qualora, anche in base a elementi presuntivi, emerga che il cedente disponesse di elementi tali, da sospettare l’esistenza di irregolarità e da sollecitare il suo onere di diligenza (Cass., 5 aprile 2019, n. 9586, che fa leva sull’adozione di tutte le ragionevoli misure disponibili).
Così è stato affermato che, in tema d’IVA, nelle cessioni all’esportazione in regime di sospensione d’imposta ex art. 8 d.P.R. n. 633 del 1972, se la dichiarazione d’intenti si riveli ideologicamente falsa, perché emessa da soggetto privo del requisito di esportatore abituale, al cedente non è consentito l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite di esecutività correlato alla suddetta qualità di esportatore abituale qualora, anche in base ad elementi presuntivi, disponga di elementi tali da sospettare l’esistenza di irregolarità, gravando sul medesimo un onere di diligenza mediante l’adozione di tutte le ragionevoli misure in proprio potere (Cass., 15 luglio 2020, n. 14979).
3.4 Nel caso in esame, la Corte di Giustizia tributaria di secondo grado, sulla premessa (errata) di una mancata continuità strutturale tra la previsione originaria e le modifiche sopravvenute con il d.lgs. n. 175 del 2014, ha valorizzato la regolare ricezione della dichiarazione di intento preventivamente inviata all’Agenzia delle Entrate, svilendo di significato istruttorio (oltre agli ulteriori elementi di natura presentiva posti dall’Ufficio a fondamento dell’atto impugnato, quali l’assenza di organizzazione di impresa, l’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali e l’omesso versamento dell’Iva , che riscontravano che il soggetto
cessionario che aveva rilasciato la lettera d’intenti era una mera società filtro, ovvero una «cartiera», creata al solo scopo di evitare il pagamento dell’imposta) anche l’ iscrizione alla C.C.I.A.A. di Napoli della società , dove risultava l’inizio dell’attività a partire dal 25 febbraio 2015 e l’iscrizione nel Registro delle imprese solo dall’ 8 aprile 2015, da cui derivava il difetto del requisito temporale per acquisire lo status di esportatore abituale. I giudici di secondo grado, dunque, per un verso, muovono dal convincimento che l’esistenza di una dichiarazione di intenti del cessionario esonera tout court il cedente dalla verifica in ordine alla effettiva consistenza della stessa quando sussistano elementi idonei a desumerne l’inattendibilità e ciò non conformemente ai principi espressi da questa Corte a proposito della corretta interpretazione dell’art. 8, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972 e, per altro verso, hanno tralasciato di esaminare gli elementi addotti dall’Ufficio in ordine all’esistenza del carattere fraudolento dell’operazione. Con ciò anche facendo una cattiva applicazione dei criteri di riparto dell’onere della prova secondo cui in tema d’IVA, la non imponibilità delle cessioni all’esportazione effettuate nei confronti di esportatori abituali, prevista dall’art. 8, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972, non può essere subordinata alla sola formale specifica dichiarazione d’intento dell’esportatore ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere (Cass., 5 ottobre 2016, n. 19896). Ed invero, occorre rammentare che per costante giurisprudenza di questa Corte la non imponibilità delle cessioni all’esportazione fatte nei confronti di esportatori abituali, prevista dall’art. 8, comma 1, lett. c),
del d.P.R. n.633 del 1972, è subordinata, all’emissione di specifica «dichiarazione d’intento» da parte dell’esportatore (art. 1, comma 1, lett. c), mentre il soggetto cedente, una volta riscontratane la conformità alle disposizioni di legge, non è tenuto ad eseguire alcun altro controllo, rimanendo a carico di chi emette tale dichiarazione la responsabilità, anche penale, derivante dall ‘ eventuale falsità; ma tale affermazione di base deve essere coniugata con gli ulteriori approfondimenti espressi in altre pronunzie di questa stessa Corte, dirette a sottolineare che il beneficio fiscale sopra ricordato non può essere correlato alla sola formale sussistenza della dichiarazione, occorrendo che il contribuente cedente dimostri, in caso di dichiarazioni ideologicamente false, l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta del cessionario. Si è, quindi, precisato che solo quando la dichiarazione stessa esista e non sia ideologicamente falsa o, comunque, il cedente non sia consapevole di tale falsità (cioè non abbia la consapevolezza che l’operazione non sia destinata all’esportazione, ma abbia una destinazione nazionale), per detto cedente l’operazione deve ritenersi non imponibile, a prescindere dalla prova dell’effettiva avvenuta esportazione della merce, non potendosi in caso contrario applicare la disciplina dell’art. 8 del d.P.R. n. 633 del 1972 per mancanza originaria dell’elemento che caratterizza quel modello legale. Si è in tal modo dato continuità all’indirizzo in forza del quale la non imponibilità delle cessioni di beni asseritamente destinati all’esportazione, subordinata alla dichiarazione scritta di responsabilità del cessionario sulla destinazione del bene fuori del territorio comunitario e al possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla norma, viene meno qualora si accerti che i beni non siano stati effettivamente esportati e che tale dichiarazione sia ideologicamente falsa. In questo caso l’obbligo del cedente di assolvere successivamente l’Iva su tali beni può essere escluso solo nella misura
in cui risulti provato che egli abbia adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere, al fine di assicurarsi che la cessione effettuata non lo conducesse a partecipare alla frode (Cass., 9 gennaio 2015, n. 176; Cass., 11 maggio 2012, n. 7389; Cass., 10 giugno 2011, n. 12751).
Per le ragioni di cui sopra, va accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo motivo; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa deve essere rinviata, in relazione al motivo accolto, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 27 marzo 2025.