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Dichiarazione d’intento: la diligenza del cedente

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12463/2025, ha stabilito che il fornitore che riceve una dichiarazione d’intento non può limitarsi a un controllo meramente formale. In presenza di indizi di anomalia (come la recente costituzione della società acquirente), il cedente ha un onere di diligenza e deve provare la sua buona fede e l’assenza di coinvolgimento nella frode per non essere ritenuto responsabile del versamento dell’IVA. La Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva esonerato da responsabilità una società, ritenendo insufficiente la semplice ricezione della dichiarazione d’intento telematicamente presentata all’Agenzia delle Entrate.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Dichiarazione d’intento: non basta il controllo formale per evitare responsabilità

L’utilizzo della dichiarazione d’intento è una prassi consolidata per gli esportatori abituali, ma quali sono le responsabilità per il fornitore che la riceve? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 12463 del 2025) ha ribadito un principio fondamentale: la semplice ricezione del documento e la verifica della sua presentazione telematica all’Agenzia delle Entrate non bastano a esonerare il cedente da responsabilità in caso di frode. È richiesto un onere di diligenza che va oltre il mero adempimento formale.

I Fatti del Caso

Una società operante nel commercio di elettronica vendeva merce a un’altra impresa, applicando il regime di non imponibilità IVA sulla base di una dichiarazione d’intento ricevuta da quest’ultima. Successivamente, l’Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento alla società venditrice, contestando l’imposta non versata. Le indagini avevano infatti rivelato che la società acquirente era una mera ‘società cartiera’, priva dei requisiti per essere considerata un esportatore abituale. Nello specifico, era stata iscritta al Registro delle Imprese solo pochi mesi prima dell’operazione, un lasso di tempo insufficiente per maturare lo status richiesto dalla legge. I giudici di merito avevano inizialmente dato ragione all’azienda venditrice, ritenendo che avesse agito in buona fede avendo verificato l’esistenza della società tramite visura camerale e ricevuto la dichiarazione trasmessa telematicamente all’Agenzia.

La Decisione della Corte di Cassazione e l’onere di diligenza

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, cassando la sentenza precedente. Il punto centrale della decisione è che il regime di non imponibilità IVA è subordinato non solo alla presentazione formale della dichiarazione d’intento, ma anche alla sua veridicità sostanziale. Il fornitore non può ignorare evidenti segnali di allarme che suggeriscono una possibile irregolarità.

I giudici hanno chiarito che, sebbene la responsabilità principale della falsità della dichiarazione ricada su chi la emette, il cedente ha il dovere di adottare ‘tutte le ragionevoli misure’ in suo potere per assicurarsi che l’operazione non lo coinvolga in una frode. L’esistenza di elementi presuntivi che possano far sospettare l’irregolarità fa sorgere in capo al fornitore un onere di diligenza più stringente.

Le Motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione sottolineando che i giudici di merito avevano erroneamente ritenuto sufficiente l’adempimento formale, trascurando elementi cruciali portati alla luce dall’Amministrazione Finanziaria. L’iscrizione alla Camera di Commercio e l’inizio attività avvenuti a ridosso dell’operazione erano indizi gravi che avrebbero dovuto insospettire il fornitore. Questi elementi, infatti, rendevano palese l’impossibilità per la società acquirente di possedere il requisito temporale per qualificarsi come esportatore abituale.

La Cassazione ha ribadito che, in tema di IVA, la non imponibilità delle cessioni a esportatori abituali non può essere garantita dalla sola dichiarazione formale se questa si rivela ideologicamente falsa. In tale ipotesi, spetta al contribuente cedente dimostrare l’assenza di un proprio coinvolgimento, provando di non essere stato a conoscenza della frode o di non aver potuto rendersene conto pur avendo agito con la dovuta diligenza. Ignorare segnali d’allarme e procedere con la transazione sposta l’onere della prova sul fornitore, che rischia di dover rispondere del tributo evaso.

Conclusioni

Questa ordinanza serve da monito per tutte le imprese che operano con clienti che si avvalgono delle dichiarazioni d’intento. La fiducia non può essere cieca e il controllo non può limitarsi all’aspetto burocratico. È essenziale implementare procedure di verifica della clientela (due diligence) che tengano conto di indicatori di rischio, come la storicità dell’azienda, la sua struttura e la coerenza del suo business. Affidarsi esclusivamente alla ricevuta telematica dell’Agenzia delle Entrate espone a un rischio fiscale significativo. La buona fede va dimostrata con i fatti, e l’adozione di un comportamento prudente e diligente è la migliore difesa contro il coinvolgimento in frodi carosello e il conseguente recupero dell’imposta da parte del Fisco.

È sufficiente per il venditore ricevere la dichiarazione d’intento per non applicare l’IVA?
No. La sola ricezione formale della dichiarazione, anche se regolarmente trasmessa all’Agenzia delle Entrate, non è sufficiente a esonerare il venditore da responsabilità se esistono elementi che possono far sospettare una frode. In questi casi, il venditore ha un onere di diligenza.

Chi deve dimostrare la buona fede in caso di dichiarazione d’intento falsa?
In caso di dichiarazione ideologicamente falsa, l’onere della prova si sposta sul venditore (cedente). Egli deve dimostrare di non essere stato coinvolto nell’attività fraudolenta e di aver adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere per accertare la regolarità dell’operazione.

Quali elementi possono far sorgere il sospetto di una frode?
L’ordinanza evidenzia che la recente costituzione della società acquirente e la sua iscrizione al Registro delle Imprese poco prima dell’operazione sono forti indizi di anomalia, in quanto rendono impossibile il possesso del requisito temporale necessario per acquisire lo status di esportatore abituale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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