Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 6241 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 6241 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 09/03/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 33656-2018 R.G., proposto da:
RAGIONE_SOCIALE. DI COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME NOME COGNOME , cf 02148280593, in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , c.f. NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis -Controricorrente
AGENZIA DELLE ENTRATE -RISCOSSIONE persona del Presidente p.t. –
, c.f. NUMERO_DOCUMENTO, in
Intimata
Cartella di pagamento -36 bis
Avverso la sentenza n. 2356/07/2018 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 13 aprile 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 20 novembre 2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Alla società ricorrente fu notificata la cartella di pagamento, del l’ importo di € 68.779,24 a titolo di Iva, portata in detrazione nella relativa dichiarazione 2010 per l’anno d’imposta 2009, e ritenuta non spettante.
La cartella fu impugnata dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Latina, che con sentenza n. 2141/04/2014 dichiarò il ricorso inammissibile perché tardivo. L’appello proposto dalla società dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio fu rigettato con sentenza n. 2356/07/2018.
Il giudice regionale riconobbe la tempestività dell’appello, ma rigettò nel merito le ragioni della contribuente. In particolare ritenne di non accogliere le censure indirizzate alla declaratoria di nullità della notifica della cartella di pagamento, perché priva della relazione di notificazione e perché in ogni caso, considerata la tempestiva costituzione della contribuente, la notifica aveva raggiunto lo scopo; rigettò l ‘ eccezione di difetto di sottoscrizione del ruolo, perché questo costituiva un atto in terno all’amministrazione; l’eccezione di errata indicazione della ragione sociale della società, in considerazione dell’omessa comunicazione all’ufficio della sua variazione e, in ogni caso, perché raggiunto lo scopo; l’eccezione di difetto di motivazione della cartella di pagamento; negò quindi nel merito il diritto al riconoscimento della detrazione Iva, relativa all’anno 2005 laddove , per le annualità 2006/2008, la contribuente aveva omesso di presentare le dichiarazioni dei redditi e solo successivamente, richiesta la detrazione con la dichiarazione Iva 2010 per l’annualità 2009 , la mancata esibizione di regolare documentazione contabile non consentiva alla Amministrazione finanziaria di riconoscere e scomputare il credito maturato; rigettò infine la doglianza relativa alla declaratoria di compensazione delle spese processuali.
La società ha censurato la decisione con sei motivi, chiedendone la cassazione, cui ha resistito l ‘Agenzia delle entrate con controricorso. L’Agenzia delle entrate Riscossione è rimasta intimata.
Nell’Adunanza camerale del 20 novembre 2024 la causa è stata trattata e decisa. La ricorrente ha anche depositato memoria, ma tardivamente.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve rilevarsi che, nonostante la società contribuente sia costituita nelle forme della società di persone, la mancata estensione del contraddittorio anche ai soci non è motivo di vizio processuale per omessa costituzione del litisconsorzio.
Trattandosi infatti di contenzioso avente ad oggetto il recupero di detrazioni Iva, deve applicarsi il principio di diritto secondo cui in tema di accertamento ai fini Irap e Iva a carico di una società di persone, non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra la stessa ed i soci, atteso che l’atto impositivo non implica una rettifica del reddito dell’ente e, quindi, di quello dei soci; peraltro, sebbene non sia invocabile l’efficacia di giudicato della sentenza emessa nei soli confronti della società, ciò non esclude che l’Amministrazione finanziaria possa notificare l’avviso di mora per l’obbligazione dell’ente direttamente al socio, poiché il diritto di difesa dello stesso è garantito dalla possibilità di contestare la pretesa originaria, impugnando contestualmente gli atti presupposti, la cui notificazione sia stata omessa o risulti irregolare (cfr. Cass., 16 marzo 2018, n. 6531; 11 maggio 2016, n. 9527). Il principio, a maggior ragione, trova applicazione in tema di riscossione.
Esaminando ora partitamente i motivi di ricorso, con il primo la società si duole dell’«error in iudicando per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 26 DPR 602/1973, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 C.P.C.». Il giudice regionale, nel superare l’eccezione sollevata dalla società in merito alla irrituale notificazione della cartella esattoriale, non avrebbe tenuto conto delle modalità prescritte dall’art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 , che non prevede la notifica postale.
Il motivo è infondato perché non tiene conto della consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella di pagamento, eseguita ai sensi dell’art. 26, comma 1, seconda parte, del d.P.R. n. 602 del 1973, mediante invio diretto da parte dell’agente di una raccomandata con avviso di ricevimento, è regolata dalle norme concernenti il servizio postale ordinario e non da quelle della l. n. 890 del 1982, in quanto tale forma “semplificata” di notificazione si giustifica in relazione alla funzione pubblicistica svolta dall’agente per la riscossione, volta ad assicurare la pronta realizzazione del
credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato (da ultimo, Cass., 11 aprile 2024, n. 9866; cfr. anche 28 maggio 2020, n. 10131; 12 novembre 2018, n. 28872). D’altronde è stato anche chiarito che la notifica della cartella di pagamento, che può essere eseguita anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, ai sensi dell’art. 26, comma 1, seconda parte, del d.P.R. n. 602 del 1973, non esclude che il contribuente che assuma, in concreto, la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a sé non imputabile può chiedere, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 175 del 2018, la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. (Cass., 19 novembre 2018, n. 29710).
Il giudice regionale si è attenuto ai predetti principi di diritto e peraltro, a fronte della corretta e tempestiva impugnazione dell’atto da parte della società, appare incomprensibile la stessa doglianza formulata con il presente motivo, che va dunque rigettato.
Con il secondo motivo la ricorrente si duole dell’«error in iudicando per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 12 co. 4 e 42 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 e dell’art. 56 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n.. 633, nonché dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 C.P.C.». Ci si lamenta dell’erronea statuizione del giudice d’appello, laddove questi ha rigettato l’eccepita nullità del ruolo, non sottoscritto dal capo dell’ufficio, affermandone la valenza di atto interno, come tale privo di autonomo rilievo esterno.
Il motivo è infondato perché risulta corretta la pronuncia della Commissione regionale tributaria. Essa si è infatti attenuta al principio secondo il quale l’art. 12 del d.P.R. n. 602 del 1973 non prevede alcuna sanzione per l’ipotesi di omessa sottoscrizione del ruolo d’imposta, sicché non può che operare la presunzione generale di riferibilità dell’atto amministrativo all’organo da cui promana, con onere della prova contraria a carico del contribuente, che non può limitarsi ad una generica contestazione dell’esistenza del potere o della provenienza dell’atto, ma deve allegare elementi specifici e concreti a sostegno delle sue deduzioni. D’altronde, la natura vincolata del ruolo, che non presenta in fase di formazione e redazione margini di discrezionalità amministrativa, comporta l’applicazione del generale principio di irrilevanza dei vizi di invalidità del provvedimento, ai
sensi dell’art. 21 octies della l. n. 241 del 1990 (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27561; 8 luglio 2021, n. 19405; cfr. inoltre, 18 maggio 2018, n. 12243; 21 dicembre 2016, n. 26546). Si è anche evidenziato come, in tema di riscossione delle imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 1, comma 5-ter, del d.l. n. 106 del 2005, convertito con modificazioni dalla l. n. 156 del 2005, che è norma di interpretazione autentica dell’art. 12, comma 4, del d.P.R. n. 602 del 1973, i ruoli sono formati e resi esecutivi anche mediante la cd. validazione informatica dei dati in essi contenuti, eseguita in via centralizzata dal sistema informativo dell’Amministrazione creditrice, che deve considerarsi equipollente alla sottoscrizione del ruolo stesso (così Cass., 20 gennaio 2017, n. 1449).
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia l’«error in iudicando per violazione e/o falsa applicazione degli art. 7 l. 212/2000 per errata indicazione della ragione sociale in relazione all’a rt. 360, comma 1 n. 3, C.P.C.». La Commissione tributaria regionale non avrebbe tenuto conto che la cartella di pagamento aveva erroneamente identificato il destinatario, indicando ‘RAGIONE_SOCIALE snc di COGNOME NOME e COGNOME NOME‘ e non invece ‘ AgriRAGIONE_SOCIALE snc di COGNOME NOME e NOME‘ , con ciò incorrendo in vizio sostanziale dell’atto impositivo .
Anche tale motivo è privo di pregio, atteso che correttamente il giudice d’appello ha valorizzato la circostanza che l’errore non aveva inficiato la rituale destinazione della cartella al corretto indirizzo della società, che infatti si è regolarmente costituita, e che d’altro canto non si era neppure premurata di dimostrare di aver comunicato tempestivamente la variazione della ragione sociale all’ufficio, ex art. 35, comma 3, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
Con il quarto motivo la ricorrente ha formulato doglianza di «error in iudicando per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 L. 212/2000, nonché ai sensi dell’art. 42 D.P.R. 600/73 per carenza assoluta di motivazione in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 C.P.C.». Il giudice d’appello erroneamente avrebbe disatteso l’eccezione di difetto di motivazione della cartella per la sua conformità al modello standard.
Il motivo va rigettato perché la sentenza, in tema, richiamando la correttezza dell’utilizzo del modello standard di compilazione della cartella di pagamento, con descrizione del tributo, indicazione degli interessi di mora e di ogni altro elemento prescritto in materia, ha applicato i principi enunciati
RGN 33656/2018
in tema dalla giurisprudenza di legittimità. A tal fine, premessa la consolidata interpretazione resa dalla Corte di legittimità, secondo cui a norma dell’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta nell’osservanza dell’apposito modello approvato con d.m., che non contempla la sottoscrizione dell’agente ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (da ultimo, ex multis, Cass., 15 luglio 2024, n. 19327), essa, in ogni caso, allorché segua l’adozione di un atto fiscale che abbia già determinato il “quantum” del debito di imposta e gli interessi relativi al tributo, è congruamente motivata – con riguardo al calcolo degli interessi nel frattempo maturati – attraverso il semplice richiamo dell’atto precedente e la quantificazione dell’importo per gli ulteriori accessori, indicazione che soddisfa l’obbligo di motivazione prescritto dall’art. 7 della l. n. 212 del 2000 e dall’art. 3 della l. n. 241 del 1990; se, invece, la cartella costituisce il primo atto riguardante la pretesa per interessi, al fine di soddisfare l’obbligo di motivazione, essa deve indicare, oltre all’importo monetario richiesto, la base normativa relativa agli interessi reclamati -ciò per cui risulta sufficiente la loro implicita desunzione dalla individuazione specifica della tipologia e della natura degli interessi oggetto della pretesa ovvero del tipo di tributo a cui questi accedono – e la decorrenza dalla quale gli accessori sono dovuti, senza che sia necessaria la specificazione dei singoli saggi periodicamente applicati o delle modalità di calcolo (Sez. U, 14 luglio 2022, n. 22281).
Nel caso di specie si trattava di un preteso credito Iva attivato con dichiarazione 2010 per l’anno 2009, non riconosciuto e recuperato dall’ufficio con accertamento automatico ex art. 36 bis, d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis, d.P.R. n. 633 del 1972, così che il capitale, la data di decorrenza degli interessi (dal mancato versamento), la natura degli interessi e pertanto il tasso determinato ex lege, erano tutti elementi portati in cartella o ricavabili ex lege .
Con il quinto motivo la ricorrente lamenta l’«error in iudicando per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5, comma 1, d.lgs. 471/97, nonché del combinato disposto del D.P.R. 633/1972, artt. 19, 27, 28, 30 e 55 del DPR 443/97 art. 1, comma 2 nonché delle circolari 21/E/13 e 74/E/07
dell’Agenzia delle entrate e violazione degli artt. 112, 115 116 C.P.C., in
relazione all’art. 360 , comma 1 n. 3 C.P.C.». La Corte regionale avrebbe errato nel disconoscere il diritto della società alla detrazione del credito Iva portato nella dichiarazione iva 2010 per l’annualità 2009, sul mero assunto che esso non era opponibile all’agente della riscossione, difettandone la legittimazione passiva, e, quanto all’Agenzia delle entrate, valorizzando la difesa, secondo cui mancavano elementi da cui desumere a quale anno si riferisse il credito portato in detrazione nel 2009.
Anche tale motivo è palesemente infondato.
Sintetizzando le ampie motivazioni portate a sostegno della censura, la contribuente lamenta che il giudice regionale non avrebbe tenuto conto che il credito IVA dovesse essere riconosciuto pur in assenza di presentazione della dichiarazione, qualora desumibile dalle scritture contabili. Ciò in osservanza del principio, di derivazione unionale, della neutralità dell’imposta.
Il pur lungo motivo si infrange nella constatazione che il giudice regionale, pur riconoscendo il diritto del contribuente alla detrazione dell’ IVA passiva ancorché omessa la presentazione della dichiarazione dei redditi, ha evidenziato che « nella specie, tuttavia, la società vorrebbe scomputare per l’anno d’imposta 2009 un credito iva maturato nel 2005, avendo peraltro omesso di presentare le dichiarazioni relative agli anni intermedi e, in particolare, al 2008, ultimo anno in cui il credito poteva essere portato in detrazione. Tenuto conto della mancata esibizione di documentazione contabile regolare, mancavano all’Agenzia delle entrate e mancano a più forte ragione in questa sede -le condizioni per scomputare dall’imposta dovuta il credito maturato nel l’anno precedente ».
Dalla sintetica ma chiara motivazione, tenendo conto dei principi imposti dall’art. 19, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, e in particolare del principio secondo il quale in materia di IVA, il diritto del cessionario di beni o del prestatore di servizi alla detrazione di cui all’art. 19 cit. si fonda sull’esatto adempimento degli obblighi di fatturazione e di registrazione di cui agli artt. 21, 23, 24 e 25 del citato d.P.R. – secondo i quali il cedente deve emettere la fattura per l’operazione imponibile, annotarla nel registro delle fatture e trasmetterne copia, con addebito del tributo, al cessionario, il quale deve a sua volta annotarla nel registro degli acquisti -ciò che emerge dalle
valutazioni della commissione regionale è l’assenza di riscontri sulle operazioni in forza delle quali sarebbe emersa l’ IVA detraibile.
Le ragioni sono coerenti con il principio secondo il quale, in tema di IVA, il diritto alla detrazione deve essere riconosciuto anche nel caso di violazione di requisiti formali di cui agli artt. 18 e 22 della direttiva n. 77/388/CEE (cd. sesta direttiva) – quali la mancata redazione delle dichiarazioni periodiche o di quella annuale, ovvero l’omessa tenuta del registro IVA acquisti – qualora il contribuente dimostri, mediante fatture o altra idonea documentazione contabile, il rispetto dei requisiti sostanziali di cui all’art. 17 della citata direttiva, purché detto diritto venga esercitato entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello nel quale è sorto ai sensi dell’art. 8, comma 3, del d.P.R. n. 322 del 1998 (Cass., 27 luglio 2018, n. 19938; 31 gennaio 2019, n. 2906; cfr. anche 12 maggio 2022, n. 15060).
Nel caso di specie trattasi con evidenza di un accertamento in fatto, tanto più significativo ove si consideri che il diritto alla detrazione afferiva all’anno d’imposta 2005 , secondo le pacifiche prospettazioni emerse nel processo, e se ne pretendeva l’esercizio n el 2009, dopo che per tre annualità la società aveva totalmente omesso di presentare le dichiarazioni IVA (anni 2006, 2007 e 2008), senza per giunta allegare idonea documentazione, da cui dedurre il diritto medesimo.
In conclusione, quando non si voglia dichiarare il motivo inammissibile perché eccentrico rispetto alle ragioni espresse dal giudice regionale, esso si rivela infondato.
Inammissibile, infine, è il sesto motivo, con il quale la società ha lamentato l’«error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell’art. 60 DP 602/73 e dell’art. 47 d.lgs. in quanto vi è la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 C.P.C.», laddove il giudice regionale avrebbe erroneamente rigettato la richiesta di sospensione dell’esecutorietà della sentenza impugnata in sede d’appello.
Il motivo è inammissibile per totale carenza di interesse, pretendendo in sede di legittimità la formulazione di una censura afferente ad un provvedimento di natura cautelare richiesto in sede d’appello, peraltro,
secondo la disciplina ratione temporis vigente, neppure impugnabile (art. 47, comma 4, d.lgs. n. 546 del 1982).
In conclusione, il ricorso va integralmente rigettato. Le spese processuali seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo nei soli confronti dell’ Agenzia controricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, nella misura di € 5.800,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2024