Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9912 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 9912 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23224/2023 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende -ricorrente- contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in POTENZA INDIRIZZO COGNOME, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende (EMAIL
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA II GRADO BASILICATA n. 221/2023 depositata il 26/09/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/01/2025
dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Basilicata ( hinc: CGT2), con sentenza n. 221/2023 depositata in data 26/09/2023, ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la sentenza n. 170/2022, con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Potenza aveva accolto parzialmente il ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, sig. NOME COGNOME contro l’avviso di accertamento con il quale erano state eseguite le riprese a titolo di IVA, IRES e IRAP in relazione all’anno d’imposta 2015, per un totale di Euro 674. 886.
La CGT2, rilevato che non può essere riconosciuta la detrazione dell’IVA al cessionario che conosceva (o avrebbe dovuto conoscere) che l’operazione era riconducibile all’evasione commessa dall’emittente della fattura o da uno dei suoi subfornitori, ha ritenuto che tale ipotesi non ricorresse nel caso di specie. A tal fine ha evidenziato come l’Ufficio non avesse offerto elementi concreti per ritenere che l’omesso versamento dell’IVA fosse stato preordinato dalla società cedente, per poter evadere l’impos ta. Sul punto ha richiamato sia il rapporto commerciale decennale tra la RAGIONE_SOCIALE (cessionaria) e la RAGIONE_SOCIALE (cedente), sia gli importanti problemi di natura finanziaria che hanno interessato quest’ultima. L ‘omesso versamento dell’IVA non era, quindi, riconducibile a uno schema di evasione, posto che lo stesso amministratore della cedente aveva dichiarato, per l’anno 2015, l’imposta nella sua interezza, pur essendo consapevole di superare il limite di punibilità di cui all’art. 10 -ter legge n. 74 del 2000.
La sentenza della CTR è stata notificata all’Agenzia delle Entrata in data 28/09/2023.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso in cassazione, con tre motivi, con atto notificato in data 27/11/2023.
RAGIONE_SOCIALE in data 08/01/2024, si è costituita depositando controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è stata contestata la nullità della sentenza per grave carenza e mera apparenza della motivazione -Violazione dell’art. 111, comma 6, Cost., dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., art. 118 Disp. att. c.p.c., artt. 1, comma 2, 36, comma 2, n. 2 e 4, d.lgs. 31/12/1992 n. 546, nonché dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 , c.p.c.
1.1. Ad avviso della ricorrente la CGT, rifacendosi acriticamente agli assunti di controparte, non motiva per quali ragioni gli elementi -gravi, precisi e concordanti addotti dall’Ufficio (nemmeno menzionati nella motivazione), si intendano superati e non rilevanti ai fini del decidere. Inoltre, nella parte in cui la CTR afferma: « In realtà, nel periodo d’imposta 2015 la Società RAGIONE_SOCIALE è stata interessata da importanti problemi di natura finanziaria, per cui la società non ha versato le imposte pur regolarmente dichiarate» , la motivazione appare apodittica e generica e perciò inidonea a dare conto di reali difficoltà economiche della società.
1.2. Il motivo di ricorso è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte: « Ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. quando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture.(Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto affetta da tale vizio la sentenza impugnata che aveva dichiarato inammissibile l’appello
perché tardivo, senza indicare la documentazione esaminata e la valenza probatoria della stessa ai fini della decisione assunta). » (Cass., 23/05/2019, n. 13977).
La motivazione apparente deve essere distinta dalla motivazione sintetica, dal momento che nel primo caso, a differenza del secondo, resta totalmente oscuro e impenetrabile l’iter argomentativo che ha condotto il giudice a un determinato risultato decisorio. Non basta, quindi, che la decisione e le argomentazioni poste a suo fondamento non siano condivise dalla parte soccombente. Difatti, affinché la sentenza sia sufficientemente motivata è necessario che il giudice indichi le ragioni e gli elementi ritenuti dirimenti -sul piano probatorio e in esito a una valutazione comparativa delle prove portate dalle parti -ai fini della decisione.
Con il secondo motivo è stata contestata « la violazione o falsa applicazione dell’art. 19 e dell’art. 54 DPR n. 633 del 1972, in combinato disposto con gli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.»
2.1. La ricorrente concentra le proprie censure sulla seguente affermazione contenuta nella sentenza impugnata: « nel caso di specie non ricorrono elementi concreti offerti dall’Ufficio per ritenere il preordinato omesso versamento dell’iva a fini evasivi da parte della società cedente gli articoli di abbigliamento in favore della RAGIONE_SOCIALE» . Rileva, quindi, che in tal modo la CGT2 sembra addossare all’Ufficio l’onere della prova della collusione tra società cedente (che non ha versato l’IVA) e società cessionaria (che l’ha indebitamente detratta). Il giudice di seconde cure ha poi fatto riferimento a circostanze evocate solo in modo generico (la durata decennale dei rapporti commerciali e la situazione finanziaria della società cedente e la circostanza che quest’ultima avrebbe dichiarato integralmente
l’imposta dovuta , pur nella consapevolezza di incorrere nella violazione di cui all’art. 10 -ter legge n. 74 del 2000).
2.2. Ad avviso di parte ricorrente la sentenza è illegittima, nella misura in cui contrasta non solo con la normativa in materia di IVA, ma anche con i principi enunciati dalla consolidata giurisprudenza unionale.
Il diritto alla detrazione da parte dei soggetti passivi che concorrano con le proprie operazioni ad un’evasione d’imposta, senza tuttavia esserne i diretti attori, si deve intendere riconosciuto dalla Corte di Giustizia UE esclusivamente a favore di quanti ‘ non avevano e non potevano avere conoscenza ‘ che l’operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto.
La buona fede, intesa come mera ignoranza, non è sufficiente a fondare il diritto a detrarre l’imposta, potendo questo diritto essere negato qualora risulti che l’operatore, usando l’ordinaria diligenza richiesta per la sua attività, avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode.
Inoltre, con la sentenza 21/06/2012, Corte di Giustizia UE ha ribadito l’indetraibilità dell’imposta sul valore aggiunto da parte del soggetto passivo, che non dimostri di non sapere o che avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una evasione IVA commessa dall’ emittente della fattura o da un altro operatore intervenuto a monte nella catena di prestazioni. Viene, quindi, posto a carico del cessionario un obbligo di diligenza nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente, che non possono sfuggire ad un contraente onesto che operi in un determinato settore commerciale e che, in particolare, non devono sfuggire ad un imprenditore mediamente accorto.
2.3. Rileva, quindi, che nel caso di specie il rappresentante ed unico socio della società cessionaria (RAGIONE_SOCIALE e il legale rappresentante nonché socio del soggetto cedente (RAGIONE_SOCIALE sono la stessa persona. Tale circostanza non è, peraltro, sfuggita al giudice dell’appello , il quale ne ha tenuto espressamente conto al solo fine della compensazione delle spese del giudizio. La ricorrente ha, inoltre, evidenziato come la corrispondenza della sede legale della RAGIONE_SOCIALE con il domicilio del legale rappresentante e socio unico della società cessionaria, siano tutti elementi di per sé idonei a suffragare la conoscenza, da parte del cliente, dell’evasione di imposta generata ‘a monte’ dall’emittente le fatture, come richiesto dalla giurisprudenza unionale. Tanto più che si tratta di comportamento sistematico e protratto nel tempo e sono proprio i rapporti ultradecennali tra le due società a comprovare la consapevolezza da parte della cessionaria dell’evasione dell’IVA perpetrata dalla società cedente, che peraltro, nell’anno 2015, aveva già carichi a ruolo, relativi a periodi di imposta precedenti, per l’importo di Euro 843.000. È pertanto inverosimile che il legale rappresentante della società ricorrente, nonché socio e legale rappresentante della società (cedente) RAGIONE_SOCIALE non fosse a conoscenza di tale debito.
2.4. La ricorrente ha poi evidenziato il vantaggio fiscale (peraltro non necessario secondo la giurisprudenza europea) che, nel caso di specie, è in re ipsa in quanto si è realizzato ed ottenuto dal momento in cui RAGIONE_SOCIALE ha beneficiato di un risparmio di imposta (€ 265.049,22), consistente nel fatto che , da un lato, ha detratto IVA e, dall’altro lato, un altro soggetto – giuridicamente distinto, ma economicamente coincidente non l’ha versata.
2.5. Il motivo è fondato.
Le coordinate ermeneutiche che precludono il diritto alla detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti sono scolpite nella giurisprudenza unionale, dove è stato precisato che: « occorre ricordare che la lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso è un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva. Pertanto, spetta alle autorità e ai giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione se è dimostrato, alla luce di elementi obiettivi, che tale diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo (v. sentenze COGNOME, C -285/11, EU:C:2012:774, punti 35 e 37 nonché giurisprudenza ivi citata, e Maks Pen, C -18/13, EU:C:2014:69, punto 26). Tale situazione, così come ricorre nel caso di un’evasione fiscale commessa dal soggetto passivo, ricorre pure quando il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA. In circostanze del genere, il soggetto passivo interessato deve essere considerato, ai fini della sesta direttiva, partecipante a tale evasione, e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle (v., sentenze COGNOME, C -285/11, EU:C:2012:774, punti 38 e 39 nonché giurisprudenza ivi citata, e Maks Pen, C -18/13, EU:C:2014:69, punto 27).» (CGUE, 22/10/2015, C-277/14, §§ 47-48).
2.6. Nel caso di specie la sentenza impugnata richiama, da un lato, i principi espressi nella giurisprudenza europea (CGUE 12/01/2006, cause riunite C-354/03, C-355-03, C-484-03 e CGUE 11/05/2006, causa C-384/04), per poi ritenere , dall’altro lato, che: « non ricorrono elementi concreti offerti dall’Ufficio per ritenere il preordinato omesso versamento dell’iva a fini evasivi da parte della società cedente gli articoli di abbigliamento in favore della Gold Island.»
In sostanza, per avallare la tesi che non ci fosse alcun intento evasivo da parte della società cedente, viene fatto riferimento a una serie di elementi, invero, distonici, come l’esistenza di rapporti decennali con l’attuale parte ricorrente, i problemi di natura finanziaria e la circostanza che l’IVA fosse stata dichiarata per intero, sebbene di ammontare tale da superare, in caso di omesso versamento, la soglia di rilevanza di cui all’art. 10 ter legge n. 74 del 2000.
2.7. Tale incedere argomentativo -in cui la buona fede del cessionario viene impropriamente sovrapposta a un’asserita e, comunque, inesistente correttezza del cedente per aver dichiarato per intero l’IVA dovuta che non avrebbe versato, su cui v. infra -è in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, in tema di IVA, in virtù degli artt. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 e 17 della Direttiva CEE 17 maggio 1977, n. 388, osta al riconoscimento del diritto alla relativa detrazione da parte del cessionario, non soltanto la prova del suo coinvolgimento nella frode fiscale, ma anche quella della mera conoscibilità dell’inserimento dell’operazione in un fenomeno criminoso, volto all’evasione fiscale, la quale sussiste ove il cessionario, pur essendo estraneo alle condotte evasive, ne avrebbe potuto acquisire consapevolezza mediante l’impiego della specifica diligenza professionale richiesta all’operatore economico, avuto riguardo alle concrete modalità e alle condizioni di tempo e di luogo in cui si sono svolti i rapporti commerciali, mentre non occorre anche il conseguimento di un effettivo vantaggio (Cass., 30/05/2018, n. 13545).
Considerato che la giurisprudenza unionale (CGUE, 22/10/2015, C277/14 cit. ) evoca quale scopo della sesta direttiva « la lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso» , ai fini del disconoscimento del diritto alla detrazione previsto nell’art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972
è sufficiente la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario di una possibile condotta evasiva del cedente.
Nel caso di specie sono proprio gli elementi posti alla base del ragionamento per presunzioni da parte della CGT -i.e. l’omesso versamento dell’IVA per un importo tale da determinare la soglia di rilevanza penale della condotta prevista nell’art. 10 ter legge n. 74 del 2000 e la situazione di difficoltà finanziaria – a far ritenere certo il mancato versamento dell’IVA add ebitata in rivalsa dalla società cedente e a porre al centro della decisione sull’ an della detraibilità dell’IVA la conoscenza o la conos cibilità del legale rappresentante della società cessionaria (odierna parte controricorrente) – allo stesso tempo (anche) socio della società cedente – delle condizioni finanziarie di quest’ultima . Se è vero, infatti, che il cessionario non è, in generale, obbligato ad accertarsi del versamento dell’IVA che gli è addebitata in rivalsa dal cedente, è altrettanto vero che il valore di tale regola trova il proprio fondamento e limite nel principio di neutralità dell’IVA. Di conseguenza, nelle ipotesi connotate da assoluta estraneità e assenza di legami (familiari o riconducibili a partecipazioni azionarie), la necessità di dare effettività e concreta applicazione al principio appena evocato impone di riconoscere il diritto alla detrazione ex art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972, anche nelle ipotesi in cui il cedente non versi l’IVA applicata in rivalsa al cessionario.
Rispetto all’ipotesi appena menzionata deve essere , tuttavia, distinto nettamente il caso in cui i rapporti di partecipazione societaria o i legami personali possano consentire -sulla base di una valutazione complessiva del quadro probatorio alla luce dei requisiti di gravità, precisione e concordanza ex art. 2729, comma 2, c.c. – di riferire al cessionario un atteggiamento soggettivo connotato dalla piena certezza (o doverosa conoscibilità) del mancato versamento dell’IVA
addebitata in rivalsa dal cedente. In tale ipotesi viene, infatti, a delinearsi una situazione riferibile, comunque, alla nozione di evasione cui fa riferimento la giurisprudenza unionale sopra richiamata, da ancorare non tanto alle soglie di rilevanza penale previste nella legislazione di ciascuno Stato membro, quanto alla rottura del principio di neutralità che connota l’applicazione del tributo.
2.8. Alla luce di quanto sin qui rilevato gli elementi posti dalla CGT2 alla base del ragionamento presuntivo, si pongono palesemente fuori dai criteri che, ai sensi dell’art. 2729 c.c., governano la prova per presunzioni. Secondo questa Corte, infatti, in tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia -di regola -desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, al fine di scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, al fine di verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può
basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (Cass. 21/03/2022, n. 9054).
2.9. Nel caso di specie viene dato rilievo a elementi non precisi e non gravi, come l’esistenza di rapporti decennali tra le parti (elemento indicato genericamente e di per sé privo di correlazione significativa con il fatto ignoto da provare) e non concordanti (la situazione di difficoltà finanziaria della società). È peraltro illogica -oltre che contraria alle regole e ai principi fondamentali in ambito tributario e, in particolare, quello di neutralità dell’IVA la pretesa buona fede della società cedente (tale da avvantaggiare anche la società cessionaria, con il medesimo legale rappresentante della prima che era altresì socio della seconda), derivante dalla circostanza di dichiarare un’IVA il cui omesso versamento integra l’ipotesi di reato prevista dall’art. 10 ter legge n. 74 del 2000. Tanto più che l’ipotesi di omesso versamento prevista nella norma appena richiamata riguarda un’imposta già riscossa dal fornitore, in quanto applicata in rivalsa sui clienti. Non solo: il mancato versamento dell’impos ta da parte di chi si trovi nelle condizioni di difficoltà finanziaria evocate dal giudice d’appello implica una forma di indebito finanziamento dell’imprenditore in crisi (che in ragione di tale stato non ha più accesso ai canali di finanziamento bancario) a carico della collettività e delle finanze erariali e unionali, rendendo, anche sotto tale aspetto, necessaria la valutazione della posizione del cessionario che sia, al contempo, anche socio del cedente.
2.10. Il secondo motivo di ricorso è, pertanto, fondato e deve essere accolto.
Con il terzo motivo è stata contestata la « nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (infra -petizione) -Omessa pronuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. »
3.1. La ricorrente evidenzia come la CGT2 abbia completamente omesso di pronunciarsi sul recupero a tassazione dell’imposta Iva dovuta di Euro 13.772,00, relativa ai ricavi/operazioni non contabilizzati e non dichiarati pari ad Euro 62.600,00 relativi al finanziamento socio ripreso a tassazione. Riporta, a tal fine, le contestazioni contenute a pag. 1012 dell’atto d’appello.
3.2. Il motivo è fondato e deve essere accolto, non essendo stato dato alcun riscontro alla questione posta dalla parte appellante (odierna parte ricorrente) nell’atto d’appello, i cui contenuti sono stati puntualmente riportati nel ricorso.
Alla luce di quanto sin qui rilevato devono essere accolti il secondo e il terzo motivo, mentre deve essere rigettato il primo motivo di ricorso.
La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione e rigetta il primo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, il 16/01/2025.
Il Presidente
NOME COGNOME