Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 13573 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 13573 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26234/2018 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso SENTENZE di COMM.TRIB.REG. EMILIA-ROMAGNA nn. 128, 132, 134, 135 depositate il 18.1.2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
NOME COGNOME, medico specialista, ha proposto ricorso per cassazione delle sentenze in epigrafe della Commissione Tributaria Regionale (CTR) dell’Emilia -Romagna che avevano rigettato i suoi appelli contro sentenze della Commissione Provinciale (CTP) di COGNOME che avevano respinto i suoi ricorsi contro dinieghi di rimborso IVA per gli anni 2005, 2007, 2008 e 2009.
Le richieste di rimborso si riferivano ad IVA su operazioni passive non detratta in quanto le operazioni attive erano esenti.
Il ricorso si fonda su quattro motivi.
Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 19 comma 5 e 19 bis d. P.R. n. 633/1972 con riferimento alle operazioni esenti di cui all’art. 10 comma 1 del medesimo decreto, osservando che le esenzioni IVA sono per l’operatore e per lo stesso paziente uno ‘svantaggio’, in quanto, non potendo detrarre l’IVA sulle operazioni passive, il primo è costretto ad « alzare i propri onorari al fine di mantenere costante un margine di guadagno », posto che l’IVA indetraibile diventa un elemento di costo.
Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 4 D.M. n. 55/2014 e dell’art. 29 d.lgs. n. 546/1992, perché le sentenze impugnate avevano liquidato le spese a carico dell’appellante soccombente considerando separatamente i ricorsi; si invoca l’applicazione del principio secondo cui, in caso di difesa di più parti aventi identifica posizione processuale e costituiti con lo stesso avvocato, è dovuto un compenso unico, salva possibilità di aumento, secondo quanto si ricava dagli artt. 4 e 8 del d.m. n. 55/2014.
Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione « dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., carenza e illogicità di motivazione in merito alla richiesta di remissione della vertenza alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia», lamentandosi che la questione della grave violazione del Trattato della Unione Europea, derivante dal fatto che in alcuni Paesi membri l’IVA sugli acquisti sostenuti dagli operatori sanitari è detraibile, a danno di quelli operanti nei Paesi in cui è esclusa la detrazione, tra cui quelli italiani, sia stata risolta dal giudice del merito con l’osservazione
che mancavano « dettagliati elementi sia di fatto che di diritto…sulla scorta dei quali poter apprezzare il fondamento delle questioni e ..superare l’impasse della stessa Corte di Giustizia, esplicitato al punto 28 dell’ordinanza citata » (ci si riferisce alla CGUE ordinanza del 13.12.2012 causa C-560/11).
Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 13 comma 1 quater d.P.R. n. 115/2002 al processo tributario avendo i giudici d’appello errato nello stabilire l’applicazione del cd. ‘doppio contributo’ a carico del soccombente.
Il primo e il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente e sono inammissibili e comunque privi di fondamento.
5.1. Il primo motivo è inammissibile ex art. 360-bis n. 1 c.p.c. perché il provvedimento impugnato ha deciso la questione di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e la censura non offre elementi per mutare orientamento della stessa. Invero, « In tema di Iva, per le prestazioni sanitarie riconducibili ai nn. 18 e 19 dell’art. 10 del d.P.R. n. 633 del 1972 è esclusa la detrazione dell’Iva versata in rivalsa per l’acquisto di beni o servizi finalizzati alle prestazioni sanitarie esenti e, laddove il contribuente esegua sia prestazioni esenti che non esenti, la detrazione spetta nei limiti del “pro rata”, secondo la disciplina dettata dagli artt. 19, comma 5, e 19 bis del d.P.R. n. 633 del 1972, mentre nei limiti dell’indetraibilità dell’Iva, versata in rivalsa, all’operatore non spetta il diritto al rimborso» (Cass. n. 13279 del 2023; Cass. n. 27947 del 2021; Cass. n. 9076 del 2021; in generale, la detraibilità dell’IVA è esclusa in caso di acquisti afferenti ad operazioni esenti o comunque non soggette ad imposta, v. Cass. n. 25531 del 2014 e Cass. n. 34957 del 2021) . Tale orientamento segue la giurisprudenza unionale secondo cui « Gli articoli 17, paragrafi 2 e 5, e 19 della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli
Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari -Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, la quale non autorizzi la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto pagata a monte per l’acquisto di beni e servizi utilizzati ai fini di attività esenti e che preveda, di conseguenza, che il diritto alla detrazione dell’imposta suddetta di un soggetto passivo misto venga calcolato sulla base di un prorata corrispondente al rapporto tra l’ammontare delle operazioni che danno diritto a detrazione e l’ammontare complessivo delle operazioni effettuate nel corso dell’anno, ivi comprese le prestazioni medico-sanitarie esenti » (CGUE, ordinanza del 13 dicembre 2012, C-560/11, Debiasi ).
5.2. La censura più che proporre argomenti in punto di diritto, nel tentativo di superare tale orientamento, pone questioni fattuali quali le asserite conseguenze economiche svantaggiose che deriverebbero dall’indetraibilità dell’IVA sulle operazioni passive e che costringerebbero l’operatore sanitario ad aumentare le proprie tariffe, al fine di non veder eroso il proprio margine di guadagno, provocando un maggior costo dell’assistenza sanitaria. Queste controindicazioni sono state già state considerate e respinte dalla Corte « a) perché si tratta di un interesse che non può rilevare per il contribuente contraddittore della presente causa, risolvendosi in un mera ed eventuale conseguenza, priva di espressione giuridica idonea a incidere sulla interpretazione della disciplina; b) perché si tratta di una scelta discrezionale del legislatore; c) perché, soprattutto, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, anche recente, ‘L’IVA indetraibile per effetto del pro rata generale di cui all’art. 19, quinto comma, dPR 633/1972 è deducibile per cassa nell’anno del pagamento quale componente negativo del
reddito di impresa’ (Cass., 19 luglio 2021, n. 20435) » (Cass. n. 13279 del 2023).
5.3. La terza censura posta sotto il paradigma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. è inammissibile, sia perché ricorre una ‘doppia conforme’ sia perché la questione dibattuta non costituisce ‘fatto storico’. Come noto, nell’ipotesi di c.d. ‘doppia conforme’, prevista dall’art. 348 -ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione -per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5947 del 2023); inoltre, la censura deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio ( ex multis , v. Cass. n. 10525 del 2022; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 5795 del 2017).
5.4. Comunque, la specifica questione sollevata dal ricorrente, della « disparità di trattamento esistente tra gli operatori sanitari italiani, ritenuti ‘consumatori finali’ (con gravame dell’IVA), e gli operatori sanitari di altri Stati membri …. con diritto alla detrazione dell’IVA », è già stata sottoposta al giudice unionale, che l’ha
disattesa perché « le informazioni contenute nella decisione di rinvio non consentono di stabilire con certezza la natura della differenza di trattamento prospettata dal giudice nazionale» (CGUE, ordinanza del 13 dicembre 2012, causa C-560/11, COGNOME, punto 28 ) ; il ricorrente non si confronta con l’osservazione del giudice di merito secondo cui non erano stati offerti elementi più puntuali in grado di sostenere un nuovo vaglio della questione da parte della Corte in Lussemburgo, limitandosi ad affermare genericamente di aver invece « ampiamente rappresentato » tale disparità in contrasto con il diritto dell’Unione.
5.5. Giova sottolineare, peraltro, che la Corte di giustizia dell’Unione europea è tornata sul punto, in relazione alla normativa italiana, e, nel ribadire il proprio precedente reso nella causa C560/11, ha specificato che « In ogni caso, data l’assenza, allo stato attuale del diritto dell’Unione, di un’armonizzazione completa delle legislazioni nazionali in materia di IVA, gli Stati membri conservano un certo margine di discrezionalità in questo settore e possono quindi adottare normative che sottopongano gli operatori contemplati dalle rispettive legislazioni IVA a regimi parzialmente divergenti, cosicché un giudice nazionale non può giungere a stabilire la rilevanza, dal punto di vista di tale diritto, di un’eventuale disparità di trattamento che esso ritenga di riscontrare» (CGUE, ordinanza del 14 aprile 2021, causa C-573/20, Casa di Cura Città di Parma s.p.a., punto 35).
6. Il secondo motivo è infondato perché il principio invocato riguarda il caso di più parti del medesimo giudizio mentre in questo caso si trattava di giudizi separati che non erano stati riuniti, ciò che, oltretutto, non costituisce un esito obbligato dovendo comunque il giudice valutare che la riunione possa ritardare o rendere più gravosa la trattazione dei processi (v. art. 29, comma 3, d.lgs. n. 546/1992). Sul punto le Sezioni Unite n. 31030 del 2019, superando i precedenti di segno contrario citati in ricorso,
hanno stabilito che « In tema di onorari di avvocato, l’art. 4, comma 2, del d.m. n. 55 del 2014 non si applica nel caso in cui il professionista difenda più parti aventi la stessa posizione processuale ovvero una sola parte contro più parti ma in processi introdotti separatamente e non riuniti, ancorché aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto e di diritto».
Il quarto motivo, infine, è fondato ma può essere oggetto di ‘correzione’.
7.1. Questa Corte, attesa la natura di carattere amministrativo della relativa statuizione (cfr. Cass. n. 2017 del 2017), che non attiene alla sfera della decisione sullo ius litigatoris, riguardando il rapporto del contribuente con l’Erario relativamente alle condizioni per l’accesso alla giustizia, sarebbe tenuta comunque a rilevare anche d’ufficio l’erroneità della suddetta statuizione. Di ciò va dato atto, dunque, in questa sede come da dispositivo, avendo il giudice tributario erroneamente ritenuto applicabile al processo tributario d’appello l’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il quale prevede che « Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma della comma 1bis ». Si tratta di una norma avente carattere di misura eccezionale e lato sensu sanzionatoria, la cui operatività deve intendersi circoscritta al processo civile, secondo l’esegesi della norma indirettamente avallata dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 18 depositata il 2 febbraio 2018, e condivisa da questa Corte. Ciò diversamente da quanto dovuto per la soccombenza nel presente giudizio di legittimità, stante la natura di ordinario processo civile, disciplinato dalle norme del codice di rito, del giudizio di cassazione avente ad oggetto l’impugnazione di pronuncia resa da Commissione tributaria regionale, come ribadito
da Cass., sez. un. 7 aprile 2014, n. 8053 (cfr. Cass., n. 25612 del 2023; Cass., n. 15111 del 2018 e Cass., n. 20018 del 2018, entrambe in motivazione).
Le spese, liquidate come in dispositivo, vanno regolate secondo soccombenza.
p.q.m.
rigetta il ricorso dando atto che, con riguardo al giudizio di secondo grado, non ricorrono le condizioni di cui all’art. 13 comma 1 quater d.lgs. n. 115 del 2002;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.400,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 26/02/2025.