Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 27042 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 27042 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24256/2016 R.G. proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME , già soci e l’ultima anche ex legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, cancellata dal registro delle imprese il 28 gennaio 2010, rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. NOME COGNOME (pec: EMAIL) e dall’avv. NOME COGNOME (pec: EMAIL) ed elettivamente domiciliati presso lo studio legale del primo difensore, sito in Roma alla INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
Oggetto : TRIBUTI – IVA – operazioni soggettivamente inesistenti – detrazione
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato (pec: EMAIL), presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1398/06/2016 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata in data 17/03/2016; udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24 giugno 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle entrate emise un avviso di accertamento di un maggior reddito d’impresa ai fini IVA ed IRAP per l’anno d’imposta 2005 nei confronti della RAGIONE_SOCIALE operante nel settore della compravendita di autovetture, successivamente cancellata dal registro delle imprese, nonché due avvisi di accertamento nei confronti dei soci, NOME COGNOME e NOME COGNOME per i redditi di partecipazione nella predetta società di persone, ex art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, contestando alla società l’utilizzo di fatture emesse dalle società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE di COGNOME che l’amministrazione finanziaria riteneva essere relative ad operazioni soggettivamente inesistenti.
La CTP di Roma, dinanzi alla quale la società ed i soci impugnarono gli atti impositivi, accolse i ricorsi.
La CTR del Lazio ha, invece, accolto l’appello dell’Ufficio riformando la sentenza di primo grado.
3.1. Hanno sostenuto i giudici di appello che, avendo l’Agenzia delle entrate emesso dei provvedimenti in autotutela, parziale con riferimento all’avviso di accertamento societario, annullando la pretesa ai fini IRAP, e totale nei confronti dei soci, il giudizio era limitato alla sola pretesa ai fini IVA nei confronti della società, che era fondata in quanto erano molteplici
gli elementi addotti dall’Ufficio (nella specie, il ricarico irrisorio praticato dal fornitore, la frequenza dei rapporti commerciali, il consistente volume di affari realizzato, il pagamento in contanti di gran parte delle fatture, la mancanza di prova documentale, ovvero di ordini di acquisto e documenti di trasporto, circa la provenienza della autovetture) che stavano a dimostrare la consapevolezza da parte della società contribuente di partecipare ad una frode. Pertanto, disconosceva la detraibilità dell’IVA di cui alle fatture oggetto di contestazione e di ripresa a tassazione.
Avverso tale sentenza i soci della cessata società contribuente propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente rilevata l’inammissibilità del ricorso proposto da NOME COGNOME nella qualità di legale rappresentante di società estinta.
1.1. Nel caso di specie, la RAGIONE_SOCIALE è stata cancellata dal registro delle imprese in data 28/01/2010, ovvero anteriormente al 13/12/2014, data di entrata in vigore dell’art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 175 del 2014, che ha previsto, senza effetti retroattivi, il differimento quinquennale degli effetti dell’estinzione, che in ogni caso sarebbero cessati alla data di proposizione del ricorso in esame. Orbene, la cancellazione di una società dal registro delle imprese determina l’estinzione dell’ente e la cessazione della sua capacità processuale ad agire e a essere convenuta in giudizio in persona del legale rappresentante, il quale, pertanto, essendo cessato dalla carica, non ha legittimazione a proporre impugnazione in nome e per conto dell’ente che rappresentava (arg. da Cass., Sez. U, n. 3625/2025, § 3.3).
Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 6, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 e 17, paragrafo 2, lett. a), della Direttiva del Consiglio 17/05/1977 n. 388.
2.1. I ricorrenti censurano la statuizione d’appello là dove si legge che «ad avviso del Collegio, le doglianze dell’Ufficio appaiono fondate in quanto i Giudici di primo grado avrebbero dovuto considerare (quanto meno ai fini dell’IVA), che la società RAGIONE_SOCIALE in qualità di acquirente di autoveicoli dalle società incriminate, per godere del diritto alla detrazione dell’IVA sugli acquisti relativamente alle fatture afferenti operazioni soggettivamente inesistenti, avrebbero dovuto dimostrare la propria estraneità ai fatti e, soprattutto, la propria buona fede».
2.2. Sostengono che la sentenza impugnata non si era attenuta al principio affermato dalla Corte di giustizia europea, nella sentenza del 22/10/2015, nella causa C-277/14, secondo cui «le disposizioni della sesta direttiva devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale, quale quella di cui al procedimento principale, che neghi ad un soggetto passivo il diritto di detrarre l’IVA dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’IVA, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».
Il motivo è manifestamente infondato proprio alla stregua del principio ricordato dalla ricorrente che è costantemente applicato da questa Corte che reitera in materia il principio in base al quale «In tema di detrazione dell’IVA, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, anche in via indiziaria, non solo che il fornitore era fittizio, ma anche che il destinatario era consapevole, disponendo di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente
esperto, che l’operazione era finalizzata all’evasione dell’imposta, essendo sostanzialmente inesistente il contraente; incombe, invece, sul contribuente la prova contraria di aver agito nell’assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi» (Cass., Sez. 5, sentenza n. 24471 del 09/08/2022, Rv. 665800 02; conf., ex multis , Cass. n. 9851 del 10/04/2018; Cass. n. 5339 del 27/02/2020; Cass. n. 15369 del 20/07/2020; Cass. n. Cass. 25891/2023; in linea con Corte di giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, causa C-277/14 v., recentemente, Corte di giustizia 11 novembre 2021, RAGIONE_SOCIALE, causa C-281/20).
3.1. Orbene, nella specie i giudici di appello hanno accertato ed in ricorrenti non hanno neppure contestato la piena «consapevolezza della società RAGIONE_SOCIALE che gli acquisti effettuati erano riconducibili ad attività criminose», per come emergeva dai «molteplici» elementi addotti dall’Ufficio, elencati nella parte relativa allo svolgimento del processo. Pertanto, sulla base della stessa giurisprudenza unionale citata dai ricorrenti, oltre che da quella sopra riportata, discende l’indetraibilità dell’IVA ripresa a tassazione.
Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 2697 cod. civ.
4.1. I ricorrenti, con riferimento alla ripartizione dell’onere della prova sulla buona fede della contribuente, censura la sentenza impugnata là dove ha affermato che « sul punto è ormai consolidato, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l’onere della prova incombe sull’attore in senso sostanziale, in base al principio stabilito dall’art. 2697 c.c., secondo cui
spetta al soggetto attivo l’onere di dare giustificazione di quanto contestato ovvero dimostrarne l’estraneità. Nello specifico, il processo verbale redatto dalla Guardia di Finanza prima e l’avviso di accertamento poi hanno dettagliatamente riportato in motivazione gli esiti dell’attività investigativa ed a tali rilievi la società nulla ha opposto, limitandosi semplicemente a delle semplici affermazioni ».
Il motivo, incentrato sulla violazione da parte dei giudici di appello del riparto dell’onere probatorio, è manifestamente infondato.
5.1. Si è già detto, esaminando il primo motivo di ricorso, come opera il riparto dell’onere probatorio in ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti e che la CTR si è scrupolosamente attenuta ai principi enunciati. Infatti, la parte motivazionale della sentenza impugnata censurata nel motivo in esame dà atto dell’assolvimento da parte dell’amministrazione finanziaria della prova, sulla stessa incombente, della fittizietà del fornitore e della consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, come ha poi dettagliatamente esposto in sentenza, e dà altresì atto della mancanza di idonea prova contraria fornita dalla società contribuente, la quale si era limitata a «semplici affermazioni».
Con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. «per aver considerato non avvenuta la produzione di documentazione probatoria versata in atti, sin dalla fase amministrativa, dai contribuenti ».
6.1. Lamentano i ricorrenti che la CTR aveva erroneamente ritenuto che l’onere probatorio gravante sulla società contribuente, «di dimostrare l’effettiva sussistenza dell’attività esercitata» non era stato soddisfatto «per la mancanza di idonea documentazione», invece prodotta in giudizio e consistente nelle fatture di acquisto e di vendita, nonché nelle quotazioni tratte dalla rivista ‘RAGIONE_SOCIALE‘ afferenti alla tipologia di autovetture compravendute.
7. Il motivo è inammissibile.
7.1. Va ribadito che il vizio specifico denunciabile per cassazione in base alla nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (come modificato dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis ) concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. e dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass. n. 14324 del 2015 Cass. n. 1451 del 2022). L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 134 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., sez. 2, 14/06/2017, n. 14802; n. 2785 del 2021). Nella specie, la censura formulata dal ricorrente non riguarda l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ma sollecita un inammissibile diverso apprezzamento della documentazione
che deduce di aver prodotto in giudizio. Peraltro, la statuizione resa sul punto dalla CTR si pone in linea con la giurisprudenza di questa Corte che esclude che sia invocabile, nelle ipotesi come quella in esame, la regolarità della contabilità, come invece pretenderebbero i ricorrenti, in quanto circostanza già insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente (e relative a dati e documenti facilmente falsificabili).
Con il quarto motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., sostenendo che la CTR ha pronunciato ultrapetita disconoscendo i costi che non costituivano oggetto del presente giudizio.
Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.
9.1. Invero, precisato preliminarmente che l’amministrazione finanziaria ha annullato in autotutela tutte le riprese a tassazione operate nei confronti della società contribuente diverse dall’IVA, è la stessa CTR a dare espressamente atto in sentenza che «il presente giudizio attiene solo alla legittimità ed alla fondatezza della pretesa IVA, di cui all’accertamento societario».
9.2. Ne consegue che l’imprecisa motivazione resa nella parte finale della sentenza impugnata (in cui si legge: «Da quanto evidenziato, ne consegue il mancato riconoscimento dei costi, nonché l’indebita deduzione di componenti negativi »), non è di per sé idonea a recare un qualche pregiudizio alla parte ricorrente.
In estrema sintesi il ricorso proposto dai ricorrenti nella qualità di soci della società cessata va rigettato ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso proposto da NOME COGNOME in qualità di legale rappresentante della cessata RAGIONE_SOCIALE; rigetta il ricorso proposto da NOME COGNOME e NOME COGNOME nella qualità di soci
della predetta società e li condanna al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.900,00 per compensi oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2025.
La Presidente NOME–NOME COGNOME