Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33251 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33251 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17290/2016 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
nei confronti di
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che li rappresenta e difende -resistente- e di
RAGIONE_SOCIALE ISERNIA, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-resistenteavverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del MOLISE n. 14/2016 depositata il 13/01/2016. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/12/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Commissione Tributaria Regionale del Molise ( hinc: CTR), con la sentenza n. 14/2016 depositata in data 13/01/2016, ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE contro la sentenza n. 181/2013, con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Isernia aveva accolto solo parzialmente il ricorso proposto dalla società contribuente, ritenendo deducibile l’IVA indicata nelle fatture del 22/02/2008, conferma ndo, per il resto, l’avviso di accertamento impugnato. La CTR ha, inoltre, accolto l’appello incidentale, come confermato dal decreto emesso in data 30/05/2016 a seguito di istanza di correzione materiale, dove risulta il seguente dispositivo: « rigetta l’appello del contribuente e, in accoglimento dell’appello incidentale, conferma la legittimità dell’avviso di accertamento».
Considerato che le censure proposte con il ricorso in cassazione riguardano la contestazione afferente all’indebita detrazione dell’IVA per l’importo di Euro 27.600, relativamente alla fattura 22/2008 emessa da RAGIONE_SOCIALE soc. consortile cooperativa, in quanto riferita non a un acconto sul prezzo, ma a una caparra e, come tale, esclusa dal
campo di applicazione dell’IVA, occorre richiamare, in sintesi, le parti della sentenza impugnata che riguardano i motivi di ricorso proposti dalla società contribuente.
2.1. In particolare, la CTR ha ritenuto che in relazione alla fattura n. 22/2008 (all. 9 al PVC), pari a Euro 165.600, emessa da CEIR Società Consortile Cooperativa e avente ad oggetto un acconto pari al 30% dell’importo contrattuale non può riconoscersi il rim borso IVA, trattandosi di caparra e non di acconto. A tal fine la CTR richiama sia la corrispondenza tra la società verificata e il fornitore per la risoluzione bonaria del contratto di fornitura, sia le condizioni di vendita indicate nella commessa d ‘ordine, dove si menziona esplicitamente la caparra e non l’ acconto. Ha richiamato il punto 9 delle condizioni di vendita, dove si legge che: « salvo diversa previsione le somme versate dalla Controparte al momento della conclusione del contratto e/o prima dell’inizio dell’esecuzione devono intendersi pagate a titolo di caparra; rimane escluso il diritto della controparte ad esigere il doppio della caparra in caso di inadempimento o recesso del Ceir S.c.c. »
Inoltre, l’avv. NOME COGNOME nella corrispondenza del 14/10/2009, affermava che RAGIONE_SOCIALE si dichiarava disponibile alla risoluzione consensuale, previa restituzione della somma di Euro 165.600 versata a titolo di caparra e l’avv. COGNOME per CEIR, nella corrispondenza del 23/10/2009, riferiva che « la caparra di euro 138.000,00 oltre IVA a suo tempo corrisposta da RAGIONE_SOCIALE, viene legittimamente trattenuta da CEIR il quale con la presente comunica formalmente il proprio recesso dal contratto 15 aprile 2008 ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1385 cod. civ.» .
Contrariamente alle conclusioni del giudice di primo grado (secondo il quale il disconoscimento della detrazione avrebbe comportato un
indebito arricchimento per l’amministrazione finanziaria, considerato il versamento dell’IVA da parte del cedente) rileva che:
-la normativa tributaria sancisce che le somme pagate a titolo di caparra sono escluse dal campo di applicazione IVA, purché tale titolo risulti inserito nel contesto del contratto. Tali somme, a differenza dell’acconto non costituiscono, infatti, il corrispettivo di un servizio;
-la caparra, considerata la sua funzione risarcitoria, non rappresenta il corrispettivo della cessione di un bene o della prestazione di un servizio. Considerato che l’imputazione di una somma a titolo di caparra, anziché di acconto o anticipo, sottrae tale operazione all’imposizione IVA, nel caso in esame quest’ultima , indebitamente detratta per l’anno 2008, non poteva confluire nell’annualità 2009;
-la giurisprudenza di legittimità (Cass., 25/01/2008, n. 1607) ha affermato che il diritto alla detrazione può essere esercitato solo con riferimento a imposte effettivamente dovute, cioè corrispondenti a un’operazione soggetta all’iva e versate in quanto dovute e non si estende all’imposta non dovuta, ancorché sia stata pagata.
Contro la sentenza della CTR la società contribuente ha proposto tempestivo ricorso in cassazione con due motivi , consegnando l’atto all’ufficiale giudiziario in data 11/07/2016, come risulta dal timbro di ricezione atti dell’UNEP.
L’Agenzia delle Entrate non si è costituita, nei termini di legge, mediante controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è stata contestata la violazione/falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 c.c. in
relazione all’art. 2697 c.c. e all’art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
1.1. La ricorrente, richiamate le motivazioni della CTR evidenziate supra (sub 2.1) sostiene che la ricostruzione della « comune intenzione delle parti» ad opera del giudice di seconde cure è implausibile, perché condotta in contrasto con i canoni ermeneutici generali.
1.2. Rileva che la clausola n. 9) (v. supra ) iniziava con l’inciso « salvo diversa previsione», con la conseguenza che le somme versate al momento della conclusione del contratto e prima dell’inizio dell’esecuzione dovevano intendersi pagate a titolo di caparra, solo se le parti non avessero attribuito al pagamento un titolo diverso.
1.3. Anche il punto 2 (rubricato ‘diritto di recesso’) prevede che, prima dell’esecuzione del contratto, possono essere versate somme a titolo di caparra o di acconti: è infatti previsto che: « il diritto di recesso può essere esercitato anche dopo il pagamento di acconti e/o caparre».
1.4. La fattura registrata in contabilità al n. 22/2008 descrive l’operazione così: « Rif. Conferma d’ordine n. AG -27-08 DEL 15/04/2008. Acconto pari al 30% importo contrattuale ».
Di conseguenza, il senso letterale e logico delle clausole contrattuali, da interpretarsi le une per mezzo delle altre ex art. 1363 c.c., rivela con chiarezza e sufficienza che al momento della conclusione del contratto o prima della sua esecuzione potevano essere pagati acconti oltre che caparre. Già attraverso questo criterio si individua la comune intenzione delle parti, travisata dalla CTR. Senza alcuna ambiguità e in perfetta coerenza con quanto concordato, la fattura esprime la scelta, operata di comune accordo tra le parti, di attribuire al pagamento il titolo di acconto e non di caparra, al punto che la somma è stata assoggettata a IVA e non è stata emessa o richiesta
alcuna nota di credito. Entrambe le parti hanno, peraltro, continuato a dare esecuzione coerente a tale scelta, adempiendo gli obblighi contabili e tributari: l’emittente ha pagato l’IVA e la ricevente ha portato quest’ultima in detrazione. Così, anche il canone ermeneutico relativo alla condotta delle parti (art. 1362, comma 2, c.c.) e quello dell’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.) portano a ritenere che le parti avevano voluto il pagamento di un acconto e non di una caparra. Era quindi preclusa al giudice la ricerca di una diversa volontà dei contraenti, sulla base di canoni di interpretazione soggettiva diversi da quelli stabiliti dal codice civile, ricorrendo alle diverse espressioni usate dai legali.
1.5. Passando all’esame del motivo di ricorso occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte: « Posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata. (in applicazione di tale principio la RAGIONE_SOCIALE ha rigettato il ricorso ritenendo che correttamente il giudice di merito nell’interpretazione della disposizione statutaria, secondo cui l’ingresso del nuovo socio deve essere previamente approvato dall’assemblea, avesse valorizzato il dato letterale invece
che accogliere soluzioni ermeneutiche alternative o conferire rilievo a condotte successive al trasferimento delle partecipazioni sociali, non essendo stato dedotto come le stesse potessero elidere il dato letterale). » (Cass., 09/04/2021, n. 9461).
È stato inoltre precisato che: « L’interpretazione dei contratti da parte del giudice di merito è censurabile in sede di legittimità per vizi di motivazione e per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ed incombe alla parte che denuncia la violazione di tali regole l’onere di dimostrare specificamente il modo in cui il ragionamento seguito dal giudice abbia deviato dalle regole stesse, non potendo invece limitarsi a prospettare una interpretazione contrattuale diversa da quella adottata nella decisione impugnata (Nella specie, nella sentenza di merito, l’accordo contrattuale riguardante una promessa del fatto del terzo era stata ricostruita in termini derogatori rispetto al modello legale di cui all’art. 1381 cod. civ., attraverso la limitazione della responsabilità del promittente, in caso d’insuccesso dell’iniziativa condotta presso il terzo – P.A., alla sola restituzione della somma data a titolo di caparra, oltre interessi, senza l’obbligo del pagamento dell’indennizzo). » (Cass., 15/07/2004, n. 13105).
Nel caso di specie, la lettura della sentenza impugnata (v. pag. 5) evidenzia come il giudice di seconde cure abbia tratto il proprio convincimento sulla qualificazione della somma pagata dalla ricorrente come caparra piuttosto che come acconto da indici di natura letterale (punto 9) riconducibili alle condizioni di vendita sottoscritte da entrambe le parti, peraltro confermate dalle trattative intercorse tra i legali di queste ultime, successivamente alla risoluzione consensuale del contratto. Tale interpretazione -essendo precluso al giudice di legittimità verificare la comune intenzione delle parti , che costituisce un accertamento riservato al giudice di merito
-non contrasta né con il canone di interpretazione letterale scolpito nell’art. 1362, comma 1, c.c., né con quello relativo al comportamento complessivo tenuto dalle parti, anche successivamente alla conclusione del contratto, ex art. 1362, comma 2, c.c. (che può essere ricostruito anche in relazione alle trattative intercorse tra i loro legali successivamente alla risoluzione del rapporto contrattuale, tanto più che nella specie non risulta neppure evocata la circostanza che gli stessi si siano discostati dalle istruzioni dei propri clienti).
La fattura evocata dalla parte ricorrente, con la dicitura «acconto» non costituisce, peraltro, elemento del testo contrattuale rilevante ai fini dell’art. 1362, comma 1, c.c., ma può rilevare, al più, come condotta successiva delle parti, tenendo, pur sempre conto che si tratta di un documento di natura fiscale. La condotta delle parti rilevante ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c. deve essere valutata, peraltro, nel suo complesso, spettando al giudice di merito, l’individuazione degli elementi più signi ficativi per corroborare il proprio convincimento nella ricostruzione della comune volontà delle parti. Sul punto le conclusioni della CTR e il rilievo dato al comune riferimento dei legali delle parti contrattuali al termine caparra è esente da censure di ordine logico e giuridico, anche alla luce della preparazione professionale in ambito legale e alla consapevolezza dei termini impiegati nella corrispondenza tra due avvocati rispetto alle diciture inserite in un documento fiscale di parte come la fattura.
1.6. Alla luce di quanto sin qui evidenziato il motivo è, pertanto, inammissibile, dal momento che la parte ricorrente non propone, in realtà, specifiche censure afferenti alla violazione dei criteri di interpretazione del contratto posti a fondamento del ricorso, ma bensì un’interpretazione della comune intenzione delle parti alternativa a quella recepita nella sentenza impugnata.
Con il secondo motivo di ricorso è stato contestato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.
2.1. Ad avviso della ricorrente la CTR ha valutato unicamente la corrispondenza intercorsa tra i legali delle società contraenti (che menzionavano la caparra più IVA) e il contenuto della clausola contenuta nell’art. 9 del contratto, omettendo di prendere in esame altri fatti più decisivi e in particolare, l’intero contenuto di quest’ultima clausola unitamente alle altre previsioni contrattuali dalle quali si evinceva che prima dell’esecuzione del contratto potevano eseguirsi anche pagamenti di acconti, l’i mputazione del pagamento esplicitata in fattura (dove è previsto che la somma era indicata a titolo di acconto), la circostanza dell’esecuzione del pagamento e l’adempimento degli obblighi contabili e tributari e, infine, la mancata emissione di una nota di credito in sede di verifica. Tali circostanze -non esaminate in quanto non si fa cenno alle stesse in sede i motivazione -hanno valore preminente rispetto a quelle evidenziate nella motivazione della CTR, con la conseguente rilevanza del vizio contestato.
2.2. Il motivo è inammissibile, in quanto tende a veicolare una diversa valutazione delle risultanze processuali inerenti alla qualificazione di un pagamento, invero, non contestato da nessuna delle parti, quale fatto inteso in senso storico-naturalistico. Sul punto deve essere data continuità a quanto recentemente affermato da questa Corte: « L’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. » (Cass., 20/06/2024, n. 17005).
Alla luce di quanto sin qui evidenziato il ricorso deve essere rigettato, senza alcuna statuizione sulle spese di lite, considerata la mancata costituzione in termini della parte intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo un ificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 12/12/2024.