Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 7701 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 7701 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 23/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 30180/2022, proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso da se stesso ed elettivamente domiciliato presso il proprio studio in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliata a ROMA, in INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 2140/2022 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata l’11 maggio 2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 marzo 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
NOME COGNOME ricevette la notifica di una cartella di pagamento per la somma di € 532,12, derivante da rettifica ai fini Irpef per l’anno di imposta 2014, a sua volta disposta a seguito di controllo formale ex art. 36ter del d.P.R. n. 600/1973 e concernente la detrazione, in misura superiore al consentito, degli interessi sul mutuo contratto per l’acquisto dell’abitazione principale.
Il contribuente impugnò la cartella innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, che respinse il ricorso.
Il successivo appello del Porfidia subì identica sorte.
I giudici regionali ritennero corretta la rettifica operata dall’Ufficio, in quanto il contribuente aveva detratto per intero gli interessi di un mutuo relativo ad un immobile di sua esclusiva proprietà, ma cointestato con la propria coniuge (fiscalmente non a carico), fattispecie che consentiva la sola detrazione degli interessi pro quota .
La sentenza d’appello è stata impugnata dal contribuente con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
L’Amministrazione finanziaria ha depositato controricorso.
Considerato che:
Il primo motivo è rubricato «violazione ed erronea applicazione dell’art. 1813 c.c. e dell’art. 15, lett. b) del TUIR, in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod. proc. civ.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 1° comma, n. 5, cod. proc. civ.».
Secondo il ricorrente, la C.T.R. avrebbe errato nel non considerare adeguatamente le diverse circostanze da lui dedotte a significare il fatto che la cointestazione del mutuo alla propria coniuge aveva rivestito mera funzione di garanzia della restituzione della somma alla banca mutuante.
Tali circostanze, in particolare, consistevano nel fatto che egli era il proprietario esclusivo dell’immobile, che i coniugi avevano adottato il regime di separazione dei beni, che le somme mutuate erano state versate sul solo conto corrente a lui intestato (dal quale provenivano i ratei riversati alla banca a titolo di restituzione) e che la polizza assicurativa contratta sull’immobile lo indicava come unico mutuante.
Il rilievo delle stesse, a detta del contribuente, avrebbe dovuto condurre i giudici d’appello a ritenere il mutuo «non giuridicamente valido nei confronti del coniuge» e perciò iniquo il trattamento fiscale riservatogli.
1.1. La censura non è fondata.
L’art. 15 del TUIR, nell’annoverare le fattispecie di oneri detraibili dall’imposta lorda, comprensive de gli «interessi passivi e relativi oneri accessori pagati a soggetti residenti nel territorio dello Stato o di uno Stato membro della Comunità europea ovvero a stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti in dipendenza di mutui garantiti da ipoteca su immobili contratti per l’acquisto dell’unità immobiliare da adibire ad abitazione principale» (comma 1, lett. a ), stabilisce, alla successiva lett. b ), che «se il mutuo è intestato ad entrambi i coniugi, ciascuno di essi può fruire della detrazione unicamente per la propria quota di interessi; in caso di coniuge fiscalmente a carico dell’altro la detrazione spetta a quest’ultimo per entrambe le quote».
Di tale chiara disposizione normativa non può essere data interpretazione diversa da quella adottata dai giudici d’appello, i quali hanno conseguentemente rilevato, sulla base del contratto di mutuo ipotecario, che nella specie si verteva in ipotesi di mutuo cointestato e che, pertanto, il RAGIONE_SOCIALE poteva usufruire della detrazione soltanto per la metà degli interessi.
1.2. Una tale interpretazione, del resto, appare conforme alla ratio della norma, che è ispirata da finalità di detassazione degli investimenti operati per finanziare l’acquisto di un immobile destinato a dimora abituale della famiglia e prescinde, perciò, dalla formale intestazione dello stesso a soggetti diversi dal mutuatario.
Né, d’altro canto, possono trovare ingresso in questa sede gli argomenti del ricorrente che conducono a una diversa interpretazione del contratto di mutuo, nell’ambito del quale la posizione della coniuge andrebbe riletta come quella di semplice garante; in tal senso, infatti, la censura mira ad ottenere una rivalutazione delle prove documentali già apprezzate dai giudici di merito e, pertanto, sollecita un sindacato della sentenza impugnata che non può essere consentito in questa sede.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia «violazione dell’art. 112 c.p.c. ovvero erronea applicazione dell’art. 29 del D.L n. 78/2010, in relazione all’art. 360 1° comma, n. 3, cod. proc. civ».
Sostiene, in proposito, che la C.T.R. avrebbe omesso di statuire sulla sua eccezione di nullità della cartella esattoriale in quanto non preceduta dalla notifica di un atto preventivo, contenente l’ intimazione ad adempiere anche a titolo provvisorio e l’ indicazione di un termine alla cui scadenza avrebbe avuto luogo l’iscrizione a ruolo delle somme.
Osserva, inoltre, che l’avviso bonario originariamente inviatogli recava la sola indicazione di una rettifica inerente alla deduzione di interessi passivi di mutuo, senza nulla specificare in ordine al fatto che essa concerneva i limiti connessi alla cointestazione con il coniuge.
2.1. Anche tale motivo è infondato.
Come correttamente rilevato dall’Amministrazione, infatti, è del tutto inconferente il richiamo all ‘art. 29 del d.l. n. 78/2010, il quale disciplina la materia degli avvisi di accertamento c.d. esecutivi, estranea alla presente fattispecie.
Qui, infatti, ricorre un’ipotesi di cartella di pagamento notificata ed emessa ai sensi e per gli effetti dell’art. 36 -ter del d.P.R. n. 600/1973 e non di avviso di accertamento giusta rettifica dei dati erroneamente riportati dal contribuente in sede dichiarativa.
In ogni caso, l’amministrazione finanziaria risulta aver invitato il RAGIONE_SOCIALE a esibire la documentazione inerente alla quota degli interessi passivi dedotti, di seguito inviando un avviso di riliquidazione; siffatta ricostruzione non è contestata dal ricorrente ed esclude la sussistenza della lamentata violazione di legge.
È infatti solo la comunicazione dell’esito del controllo, in quanto assolve ad una funzione di garanzia e realizza la necessaria interlocuzione tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente prima dell’iscrizione al ruolo, che, ove omessa, può incidere sull’esercizio del diritto di difesa di quest’ultimo e determina così la nullità dell’atto successivo (v. Cass. n. 15311/2014 e numerose altre seguenti).
Il terzo motivo denunzia l’inesistenza della notifica della cartella esattoriale, in quanto effettuata attraverso l’indirizzo di p.e.c.
notificaEMAILagenziariscossioneEMAILgovEMAILit, non presente nei pubblici registri.
3.1. Neppure tale censura è fondata.
In relazione alle modalità di notificazione a mezzo di posta elettronica delle cartelle esattoriali, la giurisprudenza di questa Corte prende le mosse dalla previsione di cui all’art. 3 -bis della l. 21 gennaio 1994, n. 53, che consente tale forma di notificazione degli «atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali» e contiene previsioni specifiche concernenti il mittente e il destinatario dell’atto.
Il primo comma della disposizione in parola, in particolare, stabilisce che «la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi».
Come questa Corte ha successivamente osservato (cfr. Cass. n. 2460/2021), sulla scorta delle indicazioni provenienti dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 23620/2018, l’entrata in vigore dall’art. 66, comma 5, del D. Lgs. n. 217 del 2017, ha previsto che, a decorrere dal 15.12.2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale, si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 6bis , 6quater e 62 del D. Lgs. n. 82 del 2005, nonché dall’articolo 16, comma 12, dello stesso decreto, dall’articolo 16, comma 6, del D. L. n. 185 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 2 del
2009, nonché il Re.G.Ind.E, registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della Giustizia.
3.2. Tale essendo il tessuto normativo di riferimento, il ricorrente deduce quale fatto idoneo a determinare l’inesistenza della notifica della cartella esattoriale la circostanza che l’indirizzo p.e.c. donde la stessa provenne non risultava inserito «nei pubblici registri informatici».
Al riguardo, va osservato che l’obbligo di utilizzo di un indirizzo presente in tale registro appare testualmente riferito solo al destinatario della notifica e non al notificante, in relazione al quale è previsto unicamente l’utilizzo «di un indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi».
Pertanto, la norma speciale prevista per le notifiche in ambito tributario degli atti dell’Agente della riscossione differisce dalla previsione generale di cui al citato articolo 3bis della legge n. 53/1994 solo con riferimento al soggetto che riceve la notificazione.
Siffatta diversità di trattamento normativo non configura alcuna disparità; l e prescrizioni che ineriscono all’indirizzo del mittente non vanno, infatti, assoggettate alle stesse regole previste per il destinatario dell’atto, con riguardo al quale va fatta applicazione della disciplina propria dell’elezione di domicilio, cui dev’es sere equiparato l’indirizzo di p.e.c. inserito, diversamente da quanto accade per il mittente.
3.3. In ogni caso, questa Corte ha affermato che, laddove l’agente della riscossione abbia effettuato la notifica per mezzo di un indirizzo p.e.c. non risultante nei pubblici registri (RegInde, INI-Pec e Ipa), non si verifica alcuna nullità della notifica.
Viene infatti in rilievo il rispetto dei canoni di leale collaborazione e buona fede che informano il rapporto fra Amministrazione e
contribuente; di conseguenza, poiché l’estraneità dell’indirizzo del mittente dal registro INI-Pec non inficia ex se la presunzione di riferibilità della notifica al soggetto da cui essa risulta provenire, testualmente ricavabile dall’indirizzo del mittente, occorre che la parte contribuente evidenzi quali pregiudizi sostanziali al diritto di difesa siano dipesi dalla ricezione della notifica della cartella di pagamento da un indirizzo diverso da quello telematico presente in tale registro, del quale però, come nella specie, sia evidente ictu oculi la provenienza (così Cass. n. 982/2023).
Di tale concreto pregiudizio il contribuente non ha dato sufficiente indicazione nella specie; consegue l’infondatezza della censura.
Infine, con il quarto motivo il ricorrente si duole della statuizione sulle spese di lite, liquidate in misura esorbitante i parametri di riferimento.
4.1. Quest’ultimo motivo appare fondato.
Com’è noto, sul tema questa Corte ha da tempo affermato il principio secondo cui la decisione del giudice di merito è insindacabile ove contenuta fra i minimi e i massimi tariffari, anche se non motivata (così, fra le numerosissime altre, Cass. n. 10343/2020; Cass. n. 26608/2017).
È stato, per vero, precisato che, non sussistendo più il vincolo legale dell’inderogabilità dei minimi tariffari, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica e gli standard del valore della prestazione professionale; pertanto, il giudice è tenuto a specificare i criteri di liquidazione del compenso solo in caso di scostamento apprezzabile dai parametri medi (in tal senso, si vedano
ad es., oltre alle pronunzie già richiamate, Cass. n. 30286/2017 e, in motivazione Cass. n. 6296/2019).
Tuttavia, permane prevalente, anche a seguito dell’abrogazione dei minimi tariffari, l’indirizzo giurisprudenziale che, circoscrivendone l’operatività ai soli rapporti fra professionista e cliente, ritiene che l’esistenza della tariffa mantenga la propria efficacia quando il giudice debba procedere alla regolamentazione delle spese di giudizio in applicazione del criterio della soccombenza (Cass. n. 26706/2019).
4.2. In ogni caso, la sentenza impugnata non si è conformata ad alcuno dei due indirizzi.
I giudici d’appello, infatti, una volta respinto il gravame del contribuente, hanno proceduto alla liquidazione delle spese di lite in dispositivo, nella misura complessiva di € 2.000,00, che appare notevolmente superiore al massimo tariffario stabilito in ragione del valore della controversia.
4 .3. Quest’ultimo, in particolare, andava determinato, in base all’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992 (vertendosi qui in ipotesi di liquidazione giudiziale), in € 532,12, somma corrispondente «l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato».
Rispetto a tale importo, la liquidazione operata dai giudici regionali supera il doppio dell’importo massimo stabilito dal d.m. 5 marzo 2014, n. 55, come modificato dal d.m. 8 marzo 2018, n. 37, applicabile alla liquidazione relativa al giudizio di secondo grado, conclusosi con sentenza del maggio 2022, data anteriore all’applicazione del successivo d.m. 13 agosto 2022, n. 147.
In considerazione di quanto esposto, il quarto motivo di ricorso va accolto e la sentenza d’appello va cassata per la parte oggetto di impugnazione, con rinvio al giudice a quo il quale, decidendo in
diversa composizione, procederà ad un nuovo esame della censura accolta e liquiderà le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo ricorso, respinti i restanti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, in relazione al motivo accolto, alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado del Lazio anche per le spese.
Così deciso in Roma, il 7 marzo 2025.