Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 17112 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 17112 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23517/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante del direttore pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME con elezione di domicilio presso lo Studio dei suddetti in INDIRIZZO, 00187 Roma;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria n. 388/2023, depositata il 23 maggio 2023.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 aprile 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito l’ avv. NOME COGNOME e l’avv. dello Stato NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
-Nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE veniva emesso l’avviso di accertamento n. TL303T2035662018 relativo all’anno d’imposta 2013 , con il quale veniva accertata una maggior imposta IVA ritenuta indebitamente detratta in violazione dell’art. 19 d .P.R. 633/1972. In particolare, l’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Genova, contestava alla società di aver contabilizzato e dedotto spese sostenute per la difesa in giudizio di amministratori, dirigenti e altri dipendenti coinvolti in alcuni procedimenti penali. Secondo l’Ufficio, tali spese, in conformità a quanto previsto dai contratti collettivi nazionali, potevano essere dedotte soltanto ai fini delle imposte dirette e non ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.
La società impugnava l’ avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Provinciale di Genova che, con sentenza n. 17/2020 depositata in data 21 gennaio 2020, rigettava il ricorso e confermava l’atto impugnato.
-Avverso tale pronuncia la contribuente proponeva atto di appello.
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, con sentenza n. 388/2023 depositata il 23 maggio 2023, ha rigettato l’appello.
-La contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.
L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso. La contribuente ha depositato una memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 19 d.P.R. n. 633/1972, 62 d.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c., per aver la Corte di giustizia tributaria ritenuto che un costo inerente ai fini delle imposte dirette possa essere, al contempo, non inerente ai fini IVA.
Con il secondo motivo si prospetta l’omesso esame di un fatto decisivo che ha formato oggetto di discussione tra le parti, in relazione agli artt. 62 d.lgs. n. 546/1992 e 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per aver la Corte di giustizia tributaria affermato che i costi sostenuti da RAGIONE_SOCIALE per le parcelle forensi riferite alla difesa dei propri dipendenti non sarebbero in relazione immediata e diretta con l’attività di impresa, avendo completamento omesso esaminare la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Napoli che escludeva la responsabilità di Fisia nel procedimento penale R.G. n. 231/2001 quale conseguenza immediata e diretta dell’assoluzione dei dipendenti. Secondo la prospettazione del ricorrente, tale circostanza di fatto è decisiva perché dimostra che la società aveva sostenuto costi per utilità direttamente inerenti la propria attività d’impresa.
Con il quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 D.P.R. n. 633/1972, 288 Tfue, 62 d.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per aver la Corte di Giustizia Tributaria disconosciuto l’inerenza solo ai fini Iva attingendo ad un concetto di inerenza più restrittivo tratto dalla direttiva Iva, senza considerare che le direttive comunitarie non possono essere invocate in via diretta dalle Autorità italiane a danno dei cittadini comunitari.
1.1. -I motivi, da trattarsi congiuntamente, sono infondati.
Secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. V, 6 agosto 2019, n. 20945), affinché l’amministratore di una società di capitali ottenga il rimborso delle spese è necessario che abbia sostenuto tali spese a causa, e non semplicemente in occasione, del proprio
incarico. Tale principio si ricava dall’applicazione analogica dell’art. 1720 c.c., prevista in tema di mandato, alla gestione societaria, con la puntualizzazione, imposta dalla peculiarità della fattispecie, che, in assenza di una preventiva e rigida determinazione, all’atto del conferimento dell’incarico, delle modalità di comportamento dell’amministratore, il criterio discretivo per distinguere fra atti compiuti dall’amministratore immediatamente necessari al perseguimento del detto scopo ed atti che con lo scopo medesimo si pongono solo in legame di occasionalità risiede nello scopo sociale che conforma la discrezionalità di cui gode l’amministratore. L’ambito di operatività dell’art. 1720 c.c. si estende, dunque, alle sole spese effettuate per espletamento di attività che il mandante ha il potere di esigere, ossia a quelle spese che, per la loro natura, si collegano necessariamente all’esecuzione dell’incarico conferito, nel senso che rappresentino il rischio inerente all’esecuzione dell’incarico, mentre esulano dall’ambito applicativo della norma quelle spese sostenute per attività svolte in occasione del mandato stesso (Cass., Sez. III, 22 gennaio 2019, n. 1557; Cass., sez. Un., 14 dicembre 1994, n. 10680).
Tra le attività occasionali, e dunque non trasferibili in termini di costi alla società, rientra anche l’ipotesi in cui le spese siano state effettuate dall’amministratore allo scopo di difendersi in un processo penale per fatti connessi all’incarico, anche se questo si conclude col proscioglimento, poiché quel che rileva è l’assenza del nesso causale, insussistente anche in tale ipotesi. Infatti, la necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in nesso di causalità diretta con l’adempimento del mandato, ma tra l’uno e l’altro fatto si inserisce un elemento intermedio, dovuto all’attività di una terza persona, pubblica o privata, costituito dall’accusa poi rivelatasi infondata (Cass., Sez. V, 14 dicembre 2012, n. 23089; Cass., Sez. I, 9 marzo 2012, n. 3737).
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di IVA, la detrazione dei costi richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, secondo una valutazione qualitativa e non quantitativa o utilitaristica, la cui prova, in caso di contestazioni dell’amministrazione finanziaria, è a carico del contribuente, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività di impresa e non ai ricavi in sé (Cass., Sez. V, 13 febbraio 2025, n. 3747; Cass., Sez. V, 18 gennaio 2025, n. 1239; Cass., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 18904).
La valutazione della strumentalità di un acquisto rispetto all’attività imprenditoriale va effettuata in concreto, tenendo conto dell’effettiva natura del bene o del servizio, in correlazione agli scopi dell’impresa (Cass., Sez. V, 19 maggio 2021, n. 13571; Cass., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 18904). È stato, inoltre, evidenziato che, ai fini della detraibilità del tributo assolto sulle operazioni passive, le previsioni statutarie non presentano un valore vincolante, ma solo meramente indiziario circa l’inerenza dei relativi costi all’effettivo esercizio dell’impresa, essendo, altresì, necessario che la prestazione non sia isolata e che sia inserita in una specifica attività imprenditoriale (Cass., Sez. V, 18 febbraio 2015, n. 3205; Cass., Sez. V, 29 gennaio 2014, n. 1859).
Con riferimento a fattispecie analoghe, questa Sezione ha escluso la deducibilità delle spese legali sostenute da una società per la difesa di propri dipendenti in procedimenti penali originati dal rapporto di lavoro, ritenendo che, ai fini dell’inerenza all’attività d’impresa, non è sufficiente che il costo sia conseguente in senso generico all’esercizio dell’impresa, ma è necessaria la sua
correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (Cass., Sez. V, 6 agosto 2019, n. 20945; Cass. 10 marzo 2017, n. 6185).
In applicazione dei richiamati principi, deve concludersi che l’assunzione delle spese per la difesa penale di dipendenti della società non è qualificabile come costo di operazioni sociali legittime ovvero rientranti nell’oggetto sociale, per cui la decisione espressa sul punto dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, che ha negato la detrazione dell’IVA assolta sulle stesse, si presenta immune dal vizio prospettato.
Inammissibile risulta la deduzione riguardante la pretesa violazione ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., sotto forma di ‘omesso esame di un fatto decisivo che ha formato oggetto di discussione tra le parti’, con riferimento alla responsabilità amministrativa della società ex art. 24 d.lgs. 231/2001 e alla esclusione che ne è derivata a seguito della insussistenza del reato in capo ai dipendenti, dichiarata dal Tribunale di Napoli.
Ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, l’omesso esame del fatto decisivo oggetto di discussione nel giudizio afferisce a dati materiali, ad episodi fenomenici rilevanti, e alle loro ricadute in termini di diritto, aventi portata idonea a determinare direttamente il giudizio (Cass., Sez. II, 20 giugno 2024, n. 17005; Cass., Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5133; Cass., Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7983), dovendosi escludere che tale omesso esame possa riguardare l’argomentazione della parte la quale, svolgendo le proprie tesi difensive, non fa che manifestare il proprio pensiero sulle conseguenze di un certo fatto o di una determinata situazione giuridica (Cass., Sez. II, 6 febbraio 2025, n. 2961; Cass., Sez. I, 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass., Sez. II, 14 giugno 2017, n. 14802), per cui la valutazione dell’incidenza di una pronuncia di assoluzione sulla vicenda in esame non costituisce un preciso
accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (Cass., Sez. VI-1, 6 settembre 2019, n. 22397).
Nel caso di specie, inoltre, si è di fronte a una “doppia conforme’ , in cui le pronunce di primo e secondo grado risultano del tutto concordi sotto il profilo della mancanza di inerenza del costo che si intende detrarre (Cass., Sez. III, 28 febbraio 2023, n. 5947; Cass., Sez. VI-2, 15 marzo 2022, n. 8320).
Nessun rilievo riveste nel caso di specie la questione degli effetti della sentenza penale di assoluzione riguardo all’art. 21 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, trattandosi dell’inerenza delle spese affrontate per la difesa nel giudizio e non di fattispecie tributaria in cui l’assoluzione può far venire meno la stessa violazione tributaria.
2. -Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 36 e 62 n. 546/1992, 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per aver la Corte di giustizia tributaria reso una motivazione meramente apparente che non espone i presupposti di fatti e le ragioni giuridiche che sorreggono il percorso logico-giuridico seguito. Secondo la prospettazione del ricorrente, i giudici di appello si sarebbero limitati a rilevare, con un’ affermazione astratta priva di riferimenti al caso di specie, l’assenza di una relazione immediata e diretta tra il costo sostenuto e l’esercizio dell’attività di impresa senza accompagnare tale declamazione di principio alla disamina dei numerosi elementi introdotti dalla contribuente per dimo strare l’inerenza delle parcelle forensi.
2.1. -Il motivo infondato.
In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola
verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. (Cass., Sez. I, 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., Sez. IV, 17 agosto 2020, n. 17196; Cass., Sez. IV, 5 agosto 2019, n. 20921), che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. I, 3 marzo 2022, n. 7090).
Nel caso di specie non vi è violazione del ‘minimo costituzionale’, non essendosi la Corte di giustizia tributaria limitata a una valutazione astratta di principio, avendo ritenuto che nel caso portato alla sua attenzione i costi sostenuti dalla società – a fronte di spese legali per reati contestati agli amministratori – non fossero in relazione immediata e diretta con l’esercizio dell’attività d’impresa. Sul punto la motivazione risulta chiara e corretta è l’applicazione delle norme richiamate.
-Con il quinto motivo si contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 d.lgs. n. 472/1997, 62 d.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per aver la Corte di giustizia tributaria reso una pronuncia che confonde le condizioni legittimanti il disconoscimento del diritto alla detrazione dell’IVA assolta sulle parcelle forensi con quelle previste per la disapplicazione delle sanzioni.
Con il sesto motivo si adombra la nullità della sentenza per violazione degli artt. 36 e 62 D.lgs. 546/1992, 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per aver la Corte di giustizia tributaria reso, in ogni caso, una pronuncia meramente apparente in ordine alla valutazione, del tutto omessa, sull’assenza degli indici di obiettiva incertezza
3.1. -Entrambi i motivi, da trattarsi congiuntamente, sono infondati.
In tema di sanzioni per violazioni delle norme tributarie, l’obiettiva “incertezza normativa tributaria” – desumibile, da parte del giudice, da una serie di “fatti indice” -è caratterizzata dall’impossibilità di individuare con sicurezza, al termine di un procedimento interpretativo corretto, la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile, e va distinta dalla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto – il cui accertamento è demandato esclusivamente al giudice e non può essere operato dall’Amministrazione – come emerge dall’art. 6 del d.lgs. n. 472 del 1997, che distingue le due figure pur ricollegandovi i medesimi effetti (Cass., Sez. VI-5, 9 dicembre 2019, n. 32082; Cass., Sez. V, 12 aprile 2019, n. 10313).
La contribuente evidenzia che, nel caso di specie, sarebbe evidente che il concetto di inerenza tratto dal giudice di secondo grado, se confermato con riguardo alla richiesta di un collegamento diretto tra il costo e ricavo imponibile, anziché di un collegamento tra il primo e l’attività d’impresa più ampiamente intesa, si porrebbe in senso contrario rispetto ad una giurisprudenza ormai in via di consolidamento e sarebbe addirittura innovativo laddove distingue tra inerenza ai fini delle imposte dirette e dell’IVA.
In realtà, tali elementi non costituiscono alcuna ipotesi di ‘incertezza normativa’ rilevante, vertendosi più semplicemente in una valutazione circa l’inerenza dei costi ai sensi del d.P.R. n. 633/1972, né si ravvisa alcun contrasto di giurisprudenza ma un orientamento consolidato.
Sotto altro profilo non sussiste alcuna violazione del ‘minimo costituzionale’, così come recepito dalla giurisprudenza di questa S.C., avendo il giudice del gravame fornito una sua motivazione al riguardo.
-Nella memoria, la contribuente chiede di applicarsi, in relazione alle sanzioni, il diritto sopravvenuto di cui al d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 o, in alternativa, rimettere gli atti alla Corte
Costituzionale o alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per violazione degli artt. 3, 25 e 117 Cost. (e, in via mediata, degli artt. 7 Convezione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, 49, primo e terzo paragrafo, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e 15, Patto internazionale sui diritti civili e politici).
4.1. -La richiesta di applicazione delle sanzioni nella misura più favorevole al contribuente, così come prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 87 del 2024, non può trovare accoglimento, né le difese della società hanno allegato ragioni sufficienti a evidenziare la non manifesta infondatezza della denuncia di illegittimità costituzionale della disciplina derogatoria.
L’applicazione della sanzione più favorevole è preclusa da una espressa previsione normativa, e in particolar modo all’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024, secondo cui la rivisitazione delle sanzioni amministrative in materia fiscale, complessivamente favorevole al contribuente, va applicata a partire dalle violazioni commesse dal 1° settembre 2024. La scelta del legislatore di derogare espressamente al generale principio di retroattività della legge più favorevole non appare in contrasto con i principi costituzionali, né con quelli di diritto dell’Unione europea (Cass., Sez. V, 19 gennaio 2025, n. 1274).
L’oggetto del contendere si inserisce nel quadro della ampia revisione dell’intero sistema sanzionatorio tributario, coinvolgendo in pratica l’intero impianto regolato dai d.lgs. n. 471 e 472 del 18 dicembre 1997. Tuttavia, proprio questo ampio ripensamento della disciplina, come di tutto il sistema tributario, secondo la delega apprestata dal legislatore con la l. n. 111 del 2023 dall’art. 20 quanto alle sanzioni, con i conseguenti principi e criteri direttivi, specie, per quanto qui di interesse, quelli elencati nelle lett. a (per gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali) e c, punti da 1 a 5 (per le sanzioni amministrative) – consente di leggere la deroga
alla lex mitior disposta dal legislatore delegato in un quadro coerente con i principi costituzionali e sovranazionali.
Secondo quanto riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, poiché le sanzioni fiscali differiscono dal nocciolo duro del diritto penale, le garanzie dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non si applicano necessariamente con il loro pieno rigore (Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 novembre 2022, RAGIONE_SOCIALE Belgio , n. 49812/09, § 76; 7 giugno 2012, Segame SA c. Francia , n. 4837/06, §§ 56-60; 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia , n. 73053/01, § 43).
La riprova, in tema, è data dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, laddove la norma prevede che « Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile ». Si tratta di una regola che, pur prevedendo una deroga al principio della sopraggiunta non punibilità di una condotta, non è stata mai posta in discussione, tanto meno nel panorama dottrinale e giurisprudenziale se ne è denunciato il contrasto con i principi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o con quelli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ebbene, è pur vero che il terzo comma del medesimo articolo, che disciplina l’applicazione della lex mitior , non prevede, al contrario, alcuna espressa deroga, limitandosi invece a disporre che « Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo », avendo dunque quale solo limite la definitività della sanzione applicata.
Ma, sebbene sia diffusa l’opinione che il silenzio normativo, a differenza della espressa previsione nel comma 2, escluda in radice
eccezioni al principio del favor rei , non può ignorarsi che l’ipotesi trattata nel comma 2 è ben più radicale di quella disciplinata dal comma 3 (perché la prima ipotesi riguarda una fattispecie per la quale la legge successiva esclude del tutto il disvalore della condotta prima sanzionata, la seconda afferisce ad ipotesi per le quali la condotta resta invece sempre punibile, ma con una sanzione meno grave, così che il suo disvalore scema ma non scompare).
Può allora dedursi che l’esclusione assoluta della derogabilità della lex mitior incontra innanzitutto dei limiti proprio sul piano logico. Infatti, se è possibile che una sanzione continui ad essere applicata a fattispecie successivamente escluse dal regime sanzionatorio, non è dato comprendere perché ciò non possa parimenti accadere, ovviamente sempre in via di eccezione, per fattispecie ritenute con una legge successiva solo meno gravi. Ciò è quanto induce a considerare una interpretazione coerente con le fattispecie contemplate nel secondo e nel terzo comma dell’art. 3 cit., in un approccio ermeneutico che tenga conto di una lettura complessiva dei due commi, nei quali i principi della riserva di legge (comma 2) e quello della lex mitior (comma 3) non possono essere tenuti nettamente separati.
La conseguente considerazione è che le ragioni che sottendono la disciplina sanzionatoria apprestata in tema di obbligazioni tributarie, quando leggi successive escludano in radice il disvalore di una condotta, ma anche quando lo affievoliscano semplicemente, possono giustificare deroghe all’applicazione del principio del favor rei .
Queste considerazioni hanno una chiara copertura proprio in precedenti della Corte costituzionale.
Nella sentenza 16 aprile 2021, n. 68, la Corte Costituzionale, nell’esaminare la questione della legittimità della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida, quale sanzione accessoria alla condanna per il reato di omicidio colposo per
violazione delle regole sulla circolazione stradale, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (art. 30, quarto comma, della l. 11 marzo 1953, n. 8), richiamando altra sentenza della Corte (21 marzo 2019, n. 63) -che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui escludeva l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per gli illeciti di cui agli artt. 187-bis e 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998 – ha evidenziato che « la stessa Corte costituzionale ha equiparato le sanzioni amministrative di tipo afflittivo a quelle formalmente penali ai fini dell’applicazione del principio di retroattività della lex mitior : principio di minor forza rispetto a quello di legalità costituzionale. Nell’occasione, la Corte ha affermato che, laddove la sanzione amministrativa abbia natura punitiva, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicarla, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento: ciò, salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo vaglio positivo di ragionevolezza, alla cui stregua debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius».
Nella sentenza n. 63 del 2019, la Corte costituzionale, dopo essersi diffusa sulla copertura costituzionale della lex mitior in materia penale, da ricercarsi non già nell’art. 25 Cost. ma nell’art. 3 Cost., e averne perimetrato l’applicazione, esaminando il principio con riferimento alle sanzioni amministrative ‘punitive’, ossia sostanzialmente equiparabili alle sanzioni penali, avverte che « Se poi, ed eventualmente in che misura, il principio della retroattività della lex mitior sia applicabile anche alle sanzioni amministrative, è questione recentemente esaminata funditus dalla sentenza n. 193
del 2016. In quell’occasione, questa Corte ha rilevato come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia ‘mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale’. In difetto, pertanto, di alcun ‘vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative’, la sentenza n. 193 del 2016 ha g iudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito ‘per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel’. Rispetto, però, a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior , nei limiti appena precisati (supra, punto 6.1.) – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni. . L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3
Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale » (Corte cost., sentenza n. 63 del 2019, punto 6.2).
Riguardo al diritto dell’Unione europea, a differenza della tutela del principio di legalità, che resta assoluto e mai recessivo, quanto al rispetto della lex mitior , la Corte di giustizia riconosce che il medesimo principio può risultare recessivo nella comparazione con altri interessi – di pari rango e che nel caso di specie si concretizza in quello di apprestare un efficace sistema sanzionatorio idoneo al contrasto a reati di frode grave ai danni degli interessi finanziari dell’Unione europea -, con sue conseguenti deroghe (Corte giust., 24 luglio 2023, PPU -Lin , causa C-107/2023). Il principio, elaborato in tema di sanzioni penali, va applicato al sistema sanzionatorio amministrativo, quando equivalente a norma penale.
La deroga al principio della applicazione della legge più favorevole, come si desume dai precedenti richiamati, ha il suo comune denominatore nella esigenza di comparazione con altri principi di pari rango , comparazione all’esito della quale la lex mitior può risultare recessiva, giustificandosene dunque la deroga.
Nel caso di specie , l’irretroattività disposta dall’ art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 8 del 2024 per le nuove sanzioni, complessivamente più favorevoli per il contribuente, si colloca in un contesto che accompagna la rimeditazione dell’intero sistema sanzionatorio, sul
piano qualitativo e quantitativo. Al di là della pertinenza delle ragioni esposte nella relazione illustrativa di accompagnamento, in ordine alla previsione dell’art. 5, il tratto comune che giustifica l ‘ irretroattività delle sanzioni più favorevoli è la emersione di diritti o finalità di pari o superiore livello alla garanzia sacrificata. È sufficiente la lettura dell’art. 20 della legge delega, e degli ampi obiettivi che con essa sono stati assunti dal legislatore, per comprendere come la riforma non si limita a rideterminare le sanzioni in senso favorevole al contribuente, ma si accompagna a un ripensamento del ruolo stesso della sanzione, implementando un contesto di collaborazione tra Amministrazione e contribuente (art. 20, comma 1, lett. a, n. 4), e persino prevedendo forme di compensazione tra sanzioni comminate e crediti maturati nei confronti delle amministrazioni (art. 20, comma 1, lett. a, n. 2), oppure valorizzando la condotta successiva o pregressa del contribuente in uno spirito radicalmente rivoluzionato rispetto al passato, quanto meno in termini di obiettivi (art. 20, comma 1, lett. 2 e 3). Un simile riassetto giustifica la scelta del legislatore delegato. Basti considerare che un intervento di tale portata, e la previsione di sanzioni più leggere, con conseguente riduzione di risorse già preventivate, al di là delle esigenze di rispetto dei principi di equilibrio di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico, ex art. 97 Cost., riversa direttamente i suoi effetti sul raggiungimento di prestazioni standard in materie di rango costituzionale altrettanto sensibili, quali le prestazioni sanitarie (art. 32 Cost.), scolastiche (art. 34 Cost.), di sicurezza pubblica, ecc.
Una riforma del sistema tributario, nel quale la previsione di un minor carico sanzionatorio si relaziona a una modifica radicale del rapporto tra fisco e contribuente, giustifica una irretroattività della nuova disciplina sanzionatoria, senza con ciò poter essere tacciata di violazione dei diritti presidiati dagli artt. 3 e 53 Cost. E d’altronde, che la deroga sia ‘pensata’ con estrema ponderazione lo si ri nviene
nella constatazione che l’irretroattività non è coincidente con il momento di entrata in vigore della legge, ma con una data ulteriormente successiva, a comprova della necessità che anche l’attenuazione delle sanzioni necessita di una ‘tempo’ per l’attuazione dell’intero ripensamento dell’impianto sanzionatorio. Ne discende anche che è parimenti priva di fondamento la denuncia di eccesso di delega del legislatore delegato. È proprio la complessa revisione della disciplina che in sé porta a reputare come il legislatore delegato, nella ponderazione complessiva dei valori e degli interessi di rilevanza costituzionale, abbia agito nel legittimo perimetro della delega conferita.
In definitiva, questo collegio ritiene che non sussistano ragioni che inducano ad applicare le sanzioni secondo la disciplina più favorevole introdotta dal d.lgs. n. 87 del 2024 o a riconoscere la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 87 del 2024, o in relazione ai principi di diritto dell’Unione o della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
5. -Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore del l’Agenzia delle entrate in euro 10.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione