Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 26056 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 26056 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/09/2025
AVVISO DI ACCERTAMENTO -IRPEF-IVA 2011.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 472/2022 R.G. proposto da: COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore protempore, domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ex lege ;
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia n. 9455/2021, depositata il 25 ottobre 2021; udita la relazione della causa svolta nell’adunanza in camera di consiglio del 17 giugno 2025 dal consigliere relatore dott. NOME COGNOME
– Rilevato che:
La Guardia di Finanza di Enna notificava, in data 9 maggio 2013, a La Scala Maria (titolare dell’omonima ditta individuale), processo verbale di constatazione, con il quale determinava il valore di avviamento relativamente ad una cessione di azienda (atto di vendita del 22 settembre 2011, registrato il 24 settembre 2011, serie 1T n. 1921).
Successivamente, esaminate le risultanze del p.v.c., l’Agenzia delle Entrate -Direzione provinciale di Enna notificava, in data 9 novembre 2015, a La Scala Maria avviso di accertamento n. TYU01B700421/2015, con il quale accertava un maggior reddito d’impresa, per l’anno 2011, in € 42.293,00, con rideterminazione delle imposte IRPEF, IVA ed IRAP.
Tale accertamento, oltre a recuperare l’avviamento riguardante l’azienda ceduta (determinato in € 3.456,00), si fondava anche sul computo di un ‘ applicazione al venduto in quell’anno di una percentuale di ricarico del 175% .
Avverso tale avviso di accertamento La Scala Maria proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Enna la quale, con sentenza n. 1228/2017, pubblicata il 18 settembre 2017, lo accoglieva parzialmente, rideterminando la percentuale di ricarico sul venduto nella misura del 30%, e quindi riducendo il maggior imponibile accertato.
Interposto gravame dalla contribuente, la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, con sentenza n. 9455/2021, pronunciata l’11 ottobre 2021 e depositata in segreteria il 25 ottobre 2021 , rigettava l’appello, confermando la decisione di
primo grado e condannando la contribuente al pagamento delle spese di lite.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione (notificato il 27 dicembre 2021) La Scala Maria, sulla base di sei motivi.
Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Nelle more del giudizio di legittimità, la ricorrente presentava domanda per la definizione agevolata della controversia con istanza ex art. 5 l. 31 agosto 2022, n. 130.
Con provvedimento notificato il 7 febbraio 2023 l’Agenzia delle Entrate -Direzione provinciale di Enna rigettava la domanda di definizione agevolata.
Avverso tale provvedimento di diniego COGNOME Maria proponeva ricorso dinanzi a questa Corte, sulla base di due motivi.
Resisteva con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Con decreto del 14 marzo 2025 è stata fissata la discussione del ricorso dinanzi a questa sezione per l ‘adunanza in camera di consiglio del 17 giugno 2025, ai sensi degli artt. 375, comma 2, e 380bis .1 c.p.c.
– Considerato che:
Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a sei motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e 115 c.p.c., nonché degli artt. 113 e 114 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), dello stesso codice.
Deduce, in particolare, che, con riferimento alla percentuale di ricarico sul venduto applicata dalla C.T.P. e confermata dalla
C.T.R., tale percentuale era stata individuata con giudizio equitativo, vietato in sede tributaria.
1.2. Con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546/1992 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, num. 4), dello ste sso codice, nonché violazione dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
Rileva la ricorrente che la sentenza impugnata ometteva totalmente la ‘concisa esposizione dello svolgimento del processo’, nonché le ‘richieste delle parti’, ed espone va in modo eccessivamente con ciso i ‘motivi in fatto ed in diritto’, impedendo l’intelligibilità della decisione e la comprensione delle ragioni poste a suo fondamento.
1.3. Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta la mancanza di motivazione della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 5), c.p.c.
Rappresenta, in particolare, la ricorrente che, con riferimento alla determinazione della percentuale di ricarico sul venduto, la C.T.R. ha omesso di motivare sul punto, avendo fatto ricorsi soltanto a criteri di determinazione equitativa.
1.4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 del d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Rileva che l’Ufficio aveva ritenuto, senza alcuna giustificazione, inattendibile la documentazione contabile dell’azienda, senza averla mai visionata e nonostante che, in sede di verifica, la G.d.F. avesse evidenziato la regolarità contabile, contestando solamente la mancanza del valore dell’avviamento.
1.5. Con il quinto motivo parte contribuente lamenta, ancora, la violazione e falsa applicazione dell’art. 33 del d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’ar t. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Deduce, in particolare, che erroneamente la C.T.R. aveva ritenuto legittima l’acquisizione della documentazione contabile della ditta La Scala presso l’abitazione della titolare, senza l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica.
1.6. Con il sesto motivo di ricorso, infine, si fa valere la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della l. 7 gennaio 1929, n. 4, e dell’art. 12 della l. 27 luglio 2000, n. 212, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Rileva, in particolare, la ricorrente che, nel caso di specie, era stata omessa l’instaurazione del contraddittorio preventivo, che invece avrebbe permesso alla contribuente di spiegare le ragioni della illegittimità del recupero posto in essere dall’Ufficio.
Con riferimento, invece, al ricorso avverso il diniego della definizione agevolata del giudizio tributario pendente dinanzi alla Corte di cassazione, esso è articolato in due motivi.
2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 212/2000 , e dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Deduce la ricorrente che l’atto di diniego impugnato era privo di adeguata motivazione, in quanto non era esplicitata la modalità di calcolo attraverso cui l’Agenzia delle Entrate era pervenuta ad un risultato diverso rispetto a quello indicato dal contribuente.
2.2. Con il secondo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 10 della legge n. 212/2000 e degli artt. 3, 23,
53 e 97 Cost., nonché dell’art. 15 -ter del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e dell’art. 5 , comma 2, della l. n. 130/2022, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Rileva che l’Amministrazione finanziaria, nel caso di specie, ha violato i principi di collaborazione e buona fede ai quali devono essere improntati i rapporti con il contribuente, in quanto il diniego è stato motivato per avere la ricorrente versato un importo inferiore di soli € 25,20 rispetto al dovuto (20% del valore della controversia).
Così delineati i motivi di ricorso, ed iniziando lo scrutinio -per ragioni di ordine logico-giuridico -dal ricorso avverso il diniego di definizione agevolata, la Corte osserva quanto segue.
3.1. Il primo motivo di tale ricorso è infondato.
Rileva la ricorrente che l’atto di diniego dell a definizione agevolata impugnato sarebbe privo di adeguata motivazione, in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato, in quanto non viene esplicitata la modalità di calcolo attraverso cui l’Agenzia delle Entrate perviene ad un risultato diverso rispetto a quello calcolato dalla contribuente.
Deve, al contrario, rilevarsi che l’atto impugnato è invece adeguatamente motivato, in quanto viene chiaramente indicato sia il valore della controversia sulla base della quale calcolare il quantum dovuto (€ 27.666,00), sia l’importo versato (€ 5.508,00), sia il 20% del valore della controversia, e cioè la somma che la contribuente avrebbe dovuto versare ex art. 5, comma 2, l. n. 130/2022 (€ 5.533,20).
L’atto di diniego, dunque, indica chiaramente quali sono le ragioni per le quali alla contribuente non è stato consentito di accedere alla definizione agevolata.
3.2. Anche il secondo motivo del ricorso avverso il diniego della definizione agevolata è infondato .
Risulta pacifico che la contribuente abbia versato all’Erario una somma inferiore rispetto al 20% del valore della controversia, determinato ai sensi dell’art. 16, comma 3, della l. 27 dicembre 2002, n. 289.
Orbene, la sig.ra COGNOME ritiene che, stante l’esiguità della differenza tra il versato ed il dovuto e alla stregua del l’avvenuto versamento di tale differenza, compresi gli interessi, non appena ricevuta la comunicazione del diniego, l’Ufficio avrebbe comunque violato i principi di buona fede e correttezza nei rapporti con i contribuenti, ex art. 10 della l. n. 212/2000, trattandosi di errore scusabile, ed in violazione, peraltro, dell’art. 15 -ter d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, che consente di mantenere valide le dilazioni e le definizioni, in presenza di errori o dimenticanze del contribuente non gravi.
Si deve, tuttavia, rilevare che il pagamento della differenza riscontrata dell’Ufficio è avvenuto successivamente al provvedimento di diniego, che pertanto era perfettamente legittimo, avendo riscontrato una differenza, sia pur minima, di quanto versato rispetto a quanto dovuto.
Né, d’altronde, è ravvisabile, nella specie, una violazione dei principi di buona fede e correttezza nei rapporti tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, posto che l’azione dell’Erario è del tutto vincolata , basata su un calcolo di facile esecuzione e, pertanto, agevolmente comprensibile anche per il contribuente.
Quanto alla eventuale ‘tolleranza’ da parte dell’Ufficio, in realtà solo una previsione normativa potrebbe consentire una
tale forma di agevolazione, con riferimento a possibili errori di forma, tempo o quantum .
Del tutto improprio è, poi, il richiamo dell’art. 15 -ter d.P.R. n. 602/1973. Tale previsione, lungi dal costituire un’ enunciazione generale -cioè lungi dall’essere una norma sulla tollerabilità in ogni circostanza -è ad hoc prevista nel caso di rateazioni ai sensi dell’art. 3 -bis del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 462, e dell’art. 8 del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, per le ipotesi di mancato pagamento della prima o della successiva rata nonché per lievi inadempimenti, sempre nell’ambito dei citati articoli, circa tempi e importi.
Nel caso che ci occupa, non v’è rateazione e si esula dal campo delle richiamate norme.
Ne discende, pertanto, che soltanto in virtù di espresso rimando del legislatore all’archetipo della giustificazione rimando invece non sussistente nell’art. 5 della L. n. 130/2002 -si sarebbe potuto ipotizzare la scusabilità.
D’altronde, questa Corte ha già da tempo affermato che la natura eccezionale delle norme in materia di condono e di definizione agevolata risulta ostativa una interpretazione analogica di dette disposizioni a fattispecie similari (Cass. 14 ottobre 2021, n. 27952; Cass. 6 luglio 2018, n. 17996; Cass. 8 novembre 2013, n. 25238).
Irrilevante è anche la circolare n. 1/E del 13 gennaio 2023, indicata dalla contribuente in ricorso. Il godimento della scusabilità ex art. 15ter del d.P.R. n. 602/1973 è rammentato dall’Agenzia delle Entrate, proprio perché è stato il legislatore a stabilirlo ma non nell’ambito della definizione di cui all’art. 5 della l. n. 130/2022 in parola, bensì per la successiva normativa,
di diversa tipologia, ex art. 1, commi da 153 a 159, della legge 29 dicembre 2022, n. 197.
Infatti, mentre nella fattispecie in esame si è innanzi alla ‘definizione agevolata del giudizio tributario pendente innanzi alla Corte di Cassazione’ (art. 5 della l. n. 130/2022), l’art. 1, commi da 153 a 159, della l. n. 197/2022, cui attiene la circolare n. 1/E del 2023, concerne il ‘definire in modo agevolato le somme dovute a seguito del controllo automatizzato delle dichiarazioni’. E, ad avvalorare quanto sopra detto circa la indispensabilità di espressa previsione del legislatore -e la non valenza generale del più volte citato art. 15ter d.P.R. n. 602/1973, bisogna evidenziare che la scusabilità, per tale secondo tipo di definizione, deriva proprio dal legame con la dinamica del d.lgs. n. 462/1997, a sua volta compendiato dall’art. 15 -ter del d.P.R. n. 602/1973.
I rrilevante è anche il richiamo alla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 17/E del 31 marzo 2010, che riguarda le novità della giustizia civile di cui alla l. 18 giugno 2009, n. 69.
3.3. Il ricorso avverso il diniego di definizione agevolata deve, pertanto, essere rigettato.
Venendo, quindi, ad esaminare il ricorso principale proposto da La Scala Maria, esso, come si è detto, è articolato in sei motivi.
4.1. Il primo motivo è infondato.
La ricorrente sostiene che la C.T.R., nel confermare la determinazione della percentuale del 30% di ricarico nella quantificazione dei ricavi riferiti al periodo d’imposta oggetto del periodo di accertamento (in luogo della percentuale del 175%, indicata dall’Ufficio con l’avviso di accertamento) , abbia
operato un giudizio di tipo equitativo, inammissibile in sede tributaria.
La Corte territoriale, tuttavia, nel confermare la riduzione della percentuale di ricarico, in realtà non ha operato alcun giudizio di equità, avendo semplicemente proceduto ad una riquantificazione di detta percentuale, sulla base di quanto proposto dall’Ufficio in sede di accertamento con adesione: possibilità pienamente riconosciuta alle corti di merito, in considerazione del fatto che spetta a loro anche l’eventuale rideterminazione dell’imposta (c.d. giudizio di impugnazione -merito).
4.2. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, e sono infondati.
Come è noto, il sindacato di legittimità sulla motivazione è circoscritto alla verifica del rispetto del c.d. minimo costituzionale, nel senso che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce – con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza – nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Infatti, dopo la riformulazione dell’art. 360, comma 1, num. 5), c.p.c. (ad opera dell’articolo 54 del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni,
dalla legge 11 agosto 2012, n. 134), non è più consentito censurare in sede di legittimità la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione, essendo evidente che ammettere, in sede di legittimità, la verifica della sufficienza o della razionalità della motivazione in ordine alle quaestiones facti significherebbe consentire un inammissibile raffronto tra le ragioni del decidere espresse nella sentenza impugnata e le risultanze istruttorie sottoposte al vaglio del giudice del merito (da ultimo, Cass. 28 aprile 2023, n. 11263; Cass. 7 aprile 2023, n. 9543).
A tal proposito, la violazione del principio del c.d. minimo costituzionale è individuabile nei soli casi – che si tramutano in vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all’articolo 132, comma 2, num. 4) c.p.c., e, nel processo t ributario, all’art. 36, comma 2, num. 4), d.lgs. n. 546/1992 -di «mancanza assoluta di motivi sotto il profilo materiale e grafico», di «motivazione apparente», di «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili» e di «motivazione perplessa od incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza della mera «insufficienza» o «contraddittorietà» della motivazione (Cass. 18 agosto 2023, n. 24808).
Nel caso di specie, tale minimo costituzionale risulta pienamente rispettato, in quanto la sentenza della C.T.R. contiene la giustificazione logico-giuridico del rigetto dei vari motivi di appello (esaminati a gruppi, con riferimento alle singole questioni trattate), esplicitando tutte le ragioni per le quali l’impugnazione è stata rigettata.
Con particolare riferimento, poi, al punto motivazionale riguardante l’indicazione della percentuale di ricarico
(rideterminata al 30%, in luogo del 175%), va rilevato che la C.T.R. ha confermato il giudizio già operato dalla C.T.P., che ha richiamato, a tal proposito, ai fini della congruità di tale percentuale, quanto proposto dall’Ufficio in sede di accertamento con adesione.
Peraltro, nella motivazione in parte qua della sentenza impugnata la C.T.R. ha escluso la configurabilità, nella specie, di un giudizio equitativo ed ha ritenuto corretta la percentuale di ricarico già indicata dalla C.T.P., così richiamando quando statuito dal primo giudice; la sentenza è, quindi, sufficientemente motivata, sia pure per relationem .
4.3. Il quarto motivo è, invece, inammissibile.
Sostiene la ricorrente che erroneamente l’Agenzia delle Entrate avrebbe ritenuto la sua contabilità inattendibile, pur non avendo mai controllato la documentazione contabile della ditta La Scala, e che non sarebbero stati esplicitati i requisiti di gravità, precisione e concordanza tali da legittimare un accertamento induttivo, in quanto l’unica contestazione operata dalla G.d.F. riguardava un mero recupero dell’avviamento.
Le censure del motivo, tuttavia, si appuntano essenzialmente nei confronti dell’avviso di accertamento, e non già verso la sentenza impugnata.
Sotto altro profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, nella parte in cui non avrebbe tenuto conto delle circostanze di fatto allegate, e cioè il periodo di puerperio nell’anno precedente a quello oggetto di accertamento, l’assunzione di una collaboratrice, e la chiusura per lungo periodo dell’attività.
Trattasi, tuttavia, di contestazioni che attengono al merito dell ‘analisi in fatto operata dalla C.T.R., prospettando una diversa valutazione del materiale probatorio, e come tale inammissibile in sede di legittimità.
4.4. Il quinto motivo è infondato.
La ricorrente contesta la sentenza della C.T.R., nella parte in cui ha ritenuto non necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica pe r l’acquisizione di documentazione presso la propria abitazione personale.
Dalla sentenza impugnata emerge che la contribuente abbia spontaneamente consegnato la documentazione richiesta, e che comunque non si sia opposta all’accesso.
Orbene, deve considerarsi ormai consolidato, al riguardo, nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui «in tema di accertamento delle imposte, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di IVA dall’art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, è richiesta soltanto nel caso di apertura coattiva e non anche ove l’attività di ricerca si svolga con il libero consenso del contribuente, senza che ai fini della valida espressione di tale consenso sia necessario che il contribuente sia stato informato della sussistenza di una previsione di legge che, in caso di sua opposizione, consente l’apertura coattiva solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, non rinvenendosi un obbligo in tal senso né nell’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, né nell’art. 12, comma
2, della l. n. 212 del 2000» (v., per tutte, Cass., sez. un., 2 febbraio 2022, n. 3182).
4.5. Anche il sesto motivo è infondato.
La ricorrente lamenta la violazione del contraddittorio preventivo rispetto all’emissione dell’avviso di accertamento, soprattutto con riferimento alla violazione in materia di IVA, che è un tributo c.d. ‘armonizzato’.
A tal proposito, è noto che, per la giurisprudenza di questa Corte, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale -la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa -esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24823; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27421; Cass. 11 maggio 2018, n. 11560).
L a violazione dell’obbligo di contraddittorio procedimentale, pertanto, non comporta l’invalidità dell’atto, purché, quindi, il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto gli elementi in fatto che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, fittizia o strumentale, tale essendo quella non idonea, secondo una valutazione probabilistica ex ante spettante al giudice di merito, a determinare un risultato diverso del procedimento impositivo.
Nel caso di specie, la contribuente non ha indicato gli elementi in fatto ed in diritto che avrebbe potuto far valere in sede di eventuale contraddittorio preventivo, al fine di conseguire un risultato diverso in materia di verifica IVA, ragion per cui correttamente la C.T.R. ha escluso l’invalidità dell’avviso di accertamento impugnato.
5. In definitiva, va respinto anche il ricorso principale.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza della ricorrente, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.
Ricorrono i presupposti processuali per dichiarare COGNOME Maria tenuta al pagamento di una somma di importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P. Q. M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi.
Condanna COGNOME NOME alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in € 900,00 per onorari, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per dichiarare La Scala Maria tenuta al pagamento di una somma di importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
Così deciso in Roma, il 17 giugno 2025.
Il Presidente Dott. NOME COGNOME