Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19782 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 19782 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 5099/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso il cui Ufficio è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE
IRAP IRES IVA ACCERTAMENTO
-intimato –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia n. 1897/2022, depositata l’8 luglio 2022; udita la relazione svolta dal consigliere dott. NOME COGNOME nella pubblica udienza del 5 giugno 2025; dato atto che il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
A seguito di segnalazione proveniente dalla direzione regionale della Puglia e delle risultanze di indagini esperite dalla Procura della Repubblica di Taranto, l ‘Amministrazione finanziaria notificò un avviso di accertamento a RAGIONE_SOCIALE, esercente attività di raccolta di rifiuti solidi non pericolosi , con il quale riprendeva a tassazione maggiori redditi a fini Irap, Ires e Iva per l’anno d’imposta 2013 , oltre ad irrogare sanzioni.
Le riprese, in particolare, erano originate dal rilievo di alcune fatture emesse in relazione ad operazioni inesistenti (consistite nella sponsorizzazione di associazioni sportive dilettantistiche), dell’indebita riduzione della base imponibile ai fini Irap di cui all’art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2, 3 e 4, del d.lgs. n. 446 del 1997 (cd. taglio del cuneo fiscale) e dal fatto che tale ultima imposta era stata computata con aliquota erronea.
La società impugnò l’atto impositivo innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bari, che accolse parzialmente il ricorso, riconoscendo fondata la pretesa erariale solo per la parte inerente alle fatture per operazioni inesistenti.
La decisione fu oggetto di appello da parte dell’Ufficio, che -all’esito del giudizio nel contraddittorio con il fallimento della società, medio tempore intervenuto -venne respinto con la sentenza indicata in epigrafe.
I giudici regionali disattesero il motivo di gravame con il quale l’Amministrazione aveva sostenuto che la società non potesse fruire delle previste agevolazioni in materia di Irap, trattandosi di impresa che operava in regime di ‘concessione e a tariffa’ nel settore della raccolta e smaltimento dei rifiuti, sottratto, unitamente ad altri settori, alle suddette agevolazioni.
Rilevarono, infatti, che RAGIONE_SOCIALE operava mediante appalti con le pubbliche amministrazioni, e dalla normativa agevolatrice non emergeva alcuna assimilazione fra concessione di servizi (espressamente esclusa dai benefici) ed appalto; né, del resto, poteva sostenersi che i contratti conclusi dalla società fossero qualificabili come concessione e a tariffa, avuto riguardo al loro contenuto e alle modalità operative di erogazione del servizio di smaltimento dei rifiuti che ne derivavano.
La sentenza d’appello è stata impugnata dall’Agenzia delle entrate con ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Il fallimento della società contribuente è rimasto intimato.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo è rubricato «violazione e falsa applicazione dell’articolo 11, comma 1, D. Lgs. n. 446 del 15 dicembre 1997 in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 cpc».
L’Agenzia ricorrente assume che la C.T.R. avrebbe errato nell’interpretare la norma evocata, che esclude dalla fruizione delle deduzioni Irap «le imprese operanti in concessione e a tariffa nei settori dell’energia, dell’acqua, dei trasporti, delle infrastrutture, delle poste, delle telecomunicazioni, della raccolta e depurazione delle acque di scarico e della raccolta e smaltimento rifiuti».
Sostiene che in tale ottica dovrebbe propendersi «per una definizione ampia dell’istituto della concessione », ravvisabile ogni qual volta vi sia l ‘ affidamento di funzioni di interesse pubblico a un privato, a prescindere dal nomen juris dell’atto di affidamento, e perciò si dovrebbe ritenere che sussista un’ attività regolamentata «tutte le volte in cui un soggetto pubblico interviene, dall’esterno, sulle dinamiche interne del mercato», con rilievo esclusivo del fatto che «venga, di fatto, affidato al privato un servizio pubblico locale nei termini desumibili dall’articolo 112 D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267».
Ancora, svolge considerazioni in punto all’assimilabilità del concetto di ‘tariffa’ ad « ogni ipotesi di corrispettivo fissato o regolamentato dalla pubblica amministrazione in misura tale da assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’investimento e della connessa gestione»
Evidenzia, infine, le ragioni per le quali siffatti requisiti, come inquadrati, sussisterebbero nel caso di specie.
Il secondo motivo, rubricato «violazione e falsa applicazione degli artt. 16, comma 1-bis, lett. a), D. Lgs. n. 446/1997 e 3, comma 6, della legge (Regione Puglia) n. 40/2007 in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 cpc» ha ad oggetto la misura dell’aliquota Irap, che, coerentemente con le superiori considerazioni, andrebbe individuata con riferimento all’attività di impresa concessionaria anziché al contratto di appalto, come ritenuto dai giudici d’appello.
I motivi, meritevoli di scrutinio congiunto per la loro connessione, non sono fondati.
3.1. Sul tema della riduzione della base imponibile ai fini Irap nei confronti delle società che svolgono un’attività regolamentata, ottenuta in affidamento dalle amministrazioni locali, questa Corte
ha chiarito che la cd. riduzione del cuneo fiscale, prevista dall’art. 11, comma 1, lett. a ), nn. 2 e 4, del d.lgs. n. 446 del 1997, come modificato dall’art. 1, comma 266, della l. n. 296 del 2006, non si applica alle imprese che operano in forza di una concessione traslativa e a tariffa remunerativa, ossia capace di generare un profitto, essendo tale interpretazione del concetto di tariffa coerente con la ratio giustificatrice del cd. cuneo fiscale» (così Cass. n. 32633/2019).
Nel ribadire tale principio, Cass. n. 22062/2022 ha poi chiarito che le società in house providing non sono automaticamente escluse dall’applicazione del beneficio in parola, poiché la disposizione agevolatrice, postulando la concorrenza dei due presupposti della ‘concessione’ e della ‘tariffa’, «richiede che sia previamente verificata la natura del rapporto, se derivante da appalto o da concessione, avendo l’esclusione lo scopo di evitare la potenziale sovracompensazione conseguente al fatto che, nella determinazione della tariffa, si è già tenuto conto dell’onere fiscale».
3.2. Ed invero, in ordine al primo presupposto è stato ulteriormente rilevato che nella concessione il corrispettivo è costituito dal diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto con assunzione del rischio a carico del concessionario, mentre nel contratto di appalto esso consiste in un contributo economico erogato dalla stazione appaltante (cfr. Cass. n. 24977/2021; Cass. n. 16889/2020).
Le concessioni, infatti, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività̀ , ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente a una certa attività̀ in capo al soggetto privato; in altre parole, la concessione implica sempre il trasferimento al privato del rischio di non riuscire a recuperare gli
investimenti effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi, sicché la sua qualificazione deriva dal rilievo del fatto che il corrispettivo non è a carico dell’Amministrazione e l’erogazione del servizio, accompagnata dalla corresponsione di un canone, è compensata dalla concessione del diritto di sfruttarlo economicamente e in esclusiva (così, ancora, Cass. n. 22062/2022, con richiamo alla sentenza del Cons. Stato n. 1927/2016 e con ampi e nutriti riferimenti alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea).
3 .3. In quest’ultimo senso, peraltro, si sono espresse anche le Sezioni Unite di questa Corte (sia pure in tema di riparto di giurisdizione), chiarendo che «la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto di servizi»( Cass. Sez. U, n. 10080/2020).
Lo stesso criterio, del resto, è stato applicato da questa Corte con riguardo allo specifico settore della gestione e dello smaltimento dei rifiuti (cfr. Cass. Sez. U, n. 9965/2017).
3.4. Alle richiamate indicazioni si è attenuta la sentenza impugnata, che, nel ravvisare la sussistenza di un rapporto di appalto, anziché di una concessione come ritenuto dall’Ufficio, ha correttamente rilevato che in capo alla società contribuente non
vi è stato trasferimento del rischio d’impresa e che la non qualificabilità del rapporto come concessorio deriva da una serie di indicatori obiettivi, fra i quali il dato secondo cui l’atto negoziale che lo disciplina «non si presenta come un atto unilaterale, come invece accade per le concessioni» (pag. 5).
Consegue il rilievo dell’infondatezza di entrambe le censure, derivando la doglianza inerente all’aliquota dalla sola affermazione in base alla quale il rapporto non potrebbe qualificarsi come appalto.
4. Il ricorso va dunque respinto.
Nulla sulle spese, in assenza di attività difensiva da parte del fallimento.
Non si dà luogo alla condanna della parte soccombente al pagamento di un importo pari a quello previsto per il contributo unificato, trattandosi di amministrazione pubblica patrocinata dall’Avvocatura generale dello Stato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di