Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32423 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32423 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 13/12/2024
Oggetto: accertamento – rilevanza costi e iva a debito
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 572/2024 R.G. proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore e rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato con domicilio in Roma, INDIRIZZO (PEC: EMAIL
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentate pro tempore – intimata – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 5792/20/2022 depositata in data 08/08/2022, non notificata;
Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 22/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
-la società RAGIONE_SOCIALE impugnava l’avviso di accertamento n. TF7030403635/2019 con il quale l’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Caserta aveva rettificato il reddito d’impresa per l’anno 2016 elevandolo da € 55.012,00 ad € 333.423,00 a seguito di una verifica della Guardia di Finanza di Aversa intrapresa nei confronti della RAGIONE_SOCIALE;
-in particolare, da un controllo sulla RAGIONE_SOCIALE, si rilevavano discrasie tra i ricavi contabilizzati e quelli indicati in bilancio (ricavi per € 215.534,24 indicati in contabilità a fronte dei 485.633,00 riportati in bilancio): la differenza di € 270.279,00 veniva considerata cessione senza fatturazione;
la CTP rigettava il ricorso; appellava la società;
-con la pronuncia qui impugnata il giudice dell’appello ha accolto il gravame;
-ricorre a questa Corte l’Agenzia delle Entrate con atto affidato a due motivi;
la società contribuente è rimasa intimata nel presente giudizio di Legittimità;
Considerato che:
il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, c. 1 e c. 2, 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 360, c. 1 n. 3 c.p.c.; secondo l’Agenzia delle Entrate ricorrente, non controvertendosi, nel caso di specie, di accertamento induttivo c.d. ‘puro’, i costi recuperati legittimamente a tassazione non potevano e non dovevano essere riconosciuti in maniera forfettaria, in quanto la prova della loro esistenza, certezza e determinatezza o determinabilità spettava alla contribuente che, al proposito, non ha mai prodotto documentazione tale da giustificare il riconoscimento dei costi ai fini delle imposte sul reddito e delle
detrazioni ai fini IVA né durante la verifica, né durante i diversi gradi del processo;
-il motivo, quanto all’imposizione reddituale, è infondato;
-secondo l’orientamento espresso tradizionalmente da questa Corte «in tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo ‘puro’ ex art. 39, c. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie), è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario» (da ultimo, Cass. 28/11/2022, n. 34996);
recentemente (Cass. 23/02/2023, n. 5586) si è evidenziato che tale opzione interpretativa deve essere rivisitata alla luce della pronuncia di Corte Cost. n. 10 del 2023, cui la Commissione tributaria provinciale di Arezzo, con ordinanza del 26 aprile 2021, aveva rimesso la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario;
la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale essendo possibile un’interpretazione adeguatrice della norma. Ha osservato che, in caso di accertamento induttivo in senso stretto (o puro), l’impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, la generalizzata inattendibilità della stessa) ha da tempo indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio -cui ha fatto riferimento la stessa Corte nella sentenza n. 225 del 2005 -secondo il quale deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche
in misura percentuale forfettaria, precisando che è lo stesso Ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi. L’accertamento analitico -contabile (che aveva originato l’incidente di legittimità costituzionale) si caratterizza -invece – per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare) e dall’esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come le risultanze delle movimentazioni bancarie. Presupposto dell’utilizzo del metodo analitico o misto è l’attendibilità complessiva della contabilità, che consente la rettifica di singole componenti reddituali: in sostanza, la determinazione del reddito è compiuta nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, dei quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza;
– proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile, e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole poste della stessa, implica che ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola ritraibile dall’art. 109 TUIR in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l’onere della prova è a carico del contribuente. Da tale sistema, secondo il giudice delle leggi, deriverebbero esiti irragionevoli perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi;
-in conclusione, sul punto, alla stregua dell’interpretazione adeguatrice fornita dalla Consulta, si rivela dunque errata la decisione impugnata nella parte in cui afferma che non è possibile riconoscere, in mancanza di idonea documentazione, una incidenza percentuale di costi presunti a fronte di maggiori ricavi;
-il motivo va dunque rigettato, quanto all’imposizione IRES e IRAP, avendo la CTR pronunciato in modo conforme ai suddetti principi;
-diversamente, quanto all’IVA, il motivo si rivela fondato;
in tema di IVA, questa Corte è invece ferma nel chiarire che nel caso di determinazione in via induttiva dei ricavi, è onere del contribuente provare i fatti modificativi della pretesa esercitata dall’Amministrazione finanziaria, mediante l’allegazione degli elementi reddituali idonei a incidere negativamente sulla stessa, senza che tale obbligo possa essere sostituito da un apprezzamento discrezionale operato d’ufficio dal giudice tributario, vincolato a pronunciare la propria decisione iuxta alligata et probata partium (in termini si veda Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 37260 del 29 novembre 2021 ma in argomento anche Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24778 del 04 dicembre 2015);
invero, con riguardo al tributo IVA la violazione degli obblighi formali di contabilità e dichiarazione incide sull’esercizio del diritto alla detrazione allorché il contribuente ometta di richiedere la detrazione dell’IVA sugli acquisti a monte nel termine di decadenza di cui all’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass. civ., 30 luglio 2020, n. 16367) ovvero sempre che tali condizioni sostanziali emergano con certezza dalla documentazione in possesso del contribuente, esibita all’Amministrazione finanziaria in sede di verifica (Cass. civ., 24 febbraio 2016, n. 3586);
-pertanto, limitatamente all’IVA, in accoglimento del motivo nei termini sopra detti, la sentenza impugnata è viziata da errore di diritto e va conseguentemente cassata;
il secondo motivo denuncia la nullità della sentenza e/o del procedimento ex artt. 1 e 2 del d. Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c. in quanto la sentenza non doveva condurre all’accoglimento dell’appello tout court, essendo specifico onere del giudice tributario determinare i costi -sia pure forfettariamente detraibili – come, peraltro, espressamente richiesto, subordinatamente, dalla società nell’atto di gravame;
secondo parte ricorrente la CTR non si è attenuta ai principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata poiché, pur riconoscendo che l’unico vizio dell’atto era costituito dal fatto che l’Agenzia non aveva riconosciuto parte dei costi, si è limitata ad accogliere l’impugnazione, omettendo di procedere alla necessaria quantificazione dei costi forfettari dei quali aveva ritenuto di riconoscere la spettanza;
– il motivo è fondato;
-invero, il giudice di merito ha dapprima ritenuto che ‘le considerazioni svolte portano a concludere che l’azione accertatrice dell’Ufficio risulta carente riguardo le disposizioni che regolano l’accertamento induttivo contenute nell’art. 39 ed in particolare nell’aver accertato i maggiori ricavi sulla base dei dati indicati in bilancio rispetto a quanto indicato in contabilità mentre per i costi venivano utilizzati esclusivamente i dati riportati in contabilità ignorando quanto esposto nel bilancio, utilizzando una metodica analitica fuori dalla previsione del comma 2 del citato articolo 39’ e ha poi concluso che ‘la sentenza appellata va pertanto riformata per non aver considerato il necessario vaglio anche delle spese nell’accertamento induttivo ‘puro’ e per l’impossibilità di prescindere dalla incidenza delle componenti negative nella ricostruzione reddituale operata dall’Ufficio’;
ebbene, tale statuizione conclusiva risulta viziata da errore di diritto, poiché secondo la giurisprudenza del tutto monocorde – sia recente, sia risalente – di questa Corte (tra molte, si vedano Cass.
Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 26157 del 21 novembre 2013; ancora in termini sono Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24611 del 19 novembre 2014; Cass. n. 13296 del 28 giugno 2016; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27574 del 30 ottobre 2018; tra le più recenti Cass. n. 39660 del 13 dicembre 2021) il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio. Ne consegue che il giudice tributario, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formali), è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte;
pertanto, il secondo motivo di ricorso va accolto;
la pronuncia impugnata è quindi cassata, nei termini di cui si è detto in motivazione, con rinvio al giudice del merito limitatamente ai profili oggetto di accoglimento; tale giudice nella sua decisione si adeguerà alle sopra esposte statuizioni e ai nominati principi;
p.q.m.
accoglie il primo ed il secondo motivo, nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania in diversa composizione, che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di Legittimità.
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2024.