Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 2795 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 2795 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19338 -20 17 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME), in persona del legale rappresentante pro tempore , socio accomandatario RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio del predetto ultimo difensore (pec: EMAIL);
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME , quale socio dell’allora RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, rappresentata e difesa, per procura
Oggetto: TRIBUTI -contraddittorio endoprocedimentale -interessi passivi -deducibilità -inerenza
speciale a margine del ricorso successivo, dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio del predetto ultimo difensore (pecEMAIL;
– intimato e ricorrente incidentale -e contro
COGNOME NOME , quale socia dell’allora RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso successivo, dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio del predetto ultimo difensore (pecEMAIL;
– intimata e ricorrente incidentale –
e contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 32/33/2017 della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, depositata in data 16/01/2017; udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15 gennaio 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
A seguito di verifica fiscale condotta nei confronti della RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME (ora RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE), l ‘Agenzia delle entrate notificava alla predetta società, con riferimento all’anno d’imposta 2008, un avviso di accertamento ai fini IVA ed IRAP con cui accertava
induttivamente maggiori ricavi non dichiarati e recuperava a tassazione costi ritenuti indeducibili.
Emetteva, inoltre, separati avvisi di accertamento ai fini IRPEF nei confronti dei soci NOME COGNOME e NOME COGNOME per i maggiori redditi di partecipazione nella predetta società di persone (rispettivamente nella misura del 95% e del 5%).
La società ed i soci impugnavano separatamente i predetti atti impositivi e la CTP di Milano, con sentenza n. 10439/01/2014, riuniti i ricorsi, li accoglieva.
L’appello proposto dall’Agenzia delle entrate veniva accolto dalla CTR della Lombardia con la sentenza in epigrafe indicata.
4.1. Premettono i giudici di appello che « L’accertamento trova la sua origine nella segnalazione della DPI Monza e Brianza relativa all’acquisto effettuato dal socio COGNOME NOME Antonio, il 1 / 10/2007 di un immobile a Biassono ( Mb) per il prezzo di 960 mila euro che era stato pagato tramite concessione di un finanziamento di 800 mila euro da parte della società RAGIONE_SOCIALE a fronte del comodato gratuito da parte della società di parte dell’immobile in questione . L’Ufficio ha , quindi , proceduto ad un controllo della contabilità della società per verificare gli importi relativi al mutuo erogato e alla restituzioni del finanziamento da parte del socio e ha riscontrato una incongruenza nei mastrini prodotti rispetto ai dati di bilancio , nonché la produzione di un mastrino ” rimaneggiato ” per ottenere la quadratura dei saldi . Dal controllo analitico -induttivo è successivamente emersa l’imputazione di interessi passivi relativi al finanziamento concesso al socio per l’acquisto dell’immobile che è stata ripresa a tassazione in quanto non inerente alla attività della società nonché una variazione in aumento di € 7.917,00 in quanto non dimostrata ».
4.2. Ritenevano, quindi, infondata sia l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalle parti contribuenti in quanto
«Nel caso di esame l’appello reca la censura specifica alla motivazione resa dai primi giudici e tutti gli elementi argomentativi a contrario»; sia l’eccezione di irregolarità della notifica degli atti impositivi; sia la dedotta violazione del contraddittorio endoprocedimentale di cui all’art . 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 trattandosi di accertamento c.d. a tavolino sicché non ricorreva « l’ipotesi del mancato rispetto dei 60 giorni prima dell’emissione degli avvisi in quanto non vi sono stati accessi o ispezioni bensì la segnalazione da parte della OPI di Monza e Brianza e il successivo invio ·del questionario per la produzione documentale richiesta dall’Ufficio a seguito della quale i contribuenti sono stati posti nella condizione di contrapporre documenti idonei a contrastare i rilievi mossi dall’uffici o»; sia, infine, l’eccezione di difetto di motivazione degli atti impositivi risultando « dalla lettura degli accertamenti l’esplicazione dei motivi specifici che hanno condotto l’ufficio a contestare le riprese effettuate e a procedere con l’accertamento induttivo che trova il suo presupposto nella irregolarità della tenuta delle scritture contabili evidenziata dalla differenza tra i dati esposti nel bilancio e i mastrini relativi ai finanziamenti C/soci ».
4.3. Infine, il Collegio d’appell o osserva nel merito che « è corretta la ripresa a tassazione degli interessi passivi dedotti dalla società in relazione al finanziamento concesso al socio per l’acquisto, a titolo personale , dell’immobile a Biassono in considerazione del fatto che l’attività sociale consiste nell’elaborazione elettronica di dati fiscali e non nell’attività immobiliare e che , pertanto, non è dato riscontrare alcuna inerenza del costo con l’attività d’impresa rimarcato che la concessione in comodato gratuito di una marginale parte dei locali dell’immobile avrebbe dovuto compensare i costi sostenuti dalla società per erogare ai soci il finanziamento necessario per l’acquisto dell’immobile ».
4.4. Riteneva, quindi, assorbito ogni altro motivo.
Avverso tale statuizione la società ed i soci propongono separati ricorsi per cassazione affidati ciascuno ad otto identici motivi, cui l’Agenzia delle entrate r eplica con un unico controricorso.
I ricorrenti depositano separate memorie in cui, tra l’altro, chiedono l’applicazione del regime sanzionatorio più favorevole introdotto dal d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87.
RAAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente premesso che la società ed i soci hanno proposto separati ricorsi avverso la medesima sentenza d’appello con atti spediti per la notificazione lo stesso giorno (17/07/2017) e pervenuti ai destinatari lo stesso giorno (28/07/2017), pertanto, essendo stato iscritto per primo al ruolo generale il ricorso proposto dalla società, lo stesso va considerato principale mentre quelli proposti dai due soci vanno considerati ricorsi incidentali.
Con il primo motivo di ricorso, come detto identico per tutti i ricorrenti, così come gli altri a seguire, viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, 10 della legge n. 241 del 1990, 24 e 97 Cost., 41 CDFUE, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
2.1. Si legge nel ricorso che «La questione di diritto qui sottoposta all’esame di codesta ecc.ma Corte è la seguente: se, in un caso in cui l’atto impositivo reca un accertamento, anche ai fini IV A, di maggiori ricavi quantificati su base induttiva ex art. 39, secondo comma, lett. d), d.P.R. n. 600, citato, sussiste (o meno) in capo all’Amministrazione finanziaria l’obbligo di attivare il contraddittorio preventivo con il contribuente, rendendolo edotto dell’esito dell’istruttoria, così da porlo in condizione di “manifestare utilmente” il suo punto di vista anteriormente all’emissione dell’atto impositivo. Con la conseguenza che la violazione del predetto obbligo affetta unitariamente e totalmente la pretesa “de qua”, ovvero, solo quella formulata ai fini IV A, posto che il contribuente ha formulato ampie
ragioni di merito a giustificazione della non correttezza dell’operato dell’Agenzia».
2.2. Sostengono i ricorrenti che «la Società, nel giudizio di merito, ha protestato la nullità dell’avviso di accertamento “in parte qua” per violazione dell’art. 12, L n. 212, citata, nonché del diritto- di rilevanza comunitaria del contraddittorio preventivo all’emissione dell’atto impositivo, osservando che (i) la summenzionata norma positiva prevede un periodo di moratoria di sessanta giorni tra la formalizzazione dell’esito dell’attività istruttoria (che, di regola, si estrinseca nella notifica al contribuente del processo verbale di constatazione) e l’emissione dell’avviso di accertamento, al fine di consentire al contribuente di esplicare, in via anticipata rispetto a quest’ultimo atto, le proprie osservazioni e, che (ii) tale norma costituisce positiva espressione di un generale diritto del contribuente all’instaurazione di un contraddittorio con il Fisco, preventivo all’emissione di un atto impositivo, ormai pacifico nell’ordinamento nazionale e comunitario, che si pone quale necessaria espressione di un più ampio principio di civiltà giuridica, vale a dire il diritto alla difesa».
Il motivo, che è ammissibile in quanto correttamente incentrato su un error in iudicando non implicante un diverso accertamento dei fatti, peraltro pacifici, è comunque manifestamente infondato.
3.1. Precedentemente all’introduzione nello Statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge n. 212 del 2000, operata con il d.lgs. n. 219 del 2023, de ll’art. 6 -bis che prevede un obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo, non applicabile però alla fattispecie ratione temporis in quanto in vigore dal 18 gennaio 2024, nell’ordinamento tributario italiano non vi era un principio immanente che imponesse il contraddittorio procedimentale antecedente alla notifica dell’atto impositivo essendo ciò previsto solo in caso di
accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività.
3.2. Orbene, nella specie, vertendosi pacificamente in ipotesi di accertamento c.d. ‘a tavolino’ e, quindi, in assenza di accessi, ispezioni o verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio dell’attività commerciale, correttamente la sentenza impugnata ha statuito che non trova applicazione il disposto di cui al comma 7 dell’art. 12 citato, per cui l’amministrazione finanziaria non era tenuta al ris petto del termine dilatorio di sessanta giorni tra il rilascio di copia del processo verbale di constata zione e l’emissione dell’atto impositivo.
3.3. Ciò posto, seppur con l’originario ricorso, richiamato in quello qui in esame ed allo stesso allegato, la società aveva lamentato solo ed esclusivamente il mancato rispetto del disposto di cui al comma 7 del più volte citato art. 12 legge n. 212 del 2000, con conseguente irrilevanza di ogni altra questione pur deducibile in materia di contraddittorio endoprocedimentale, ritiene il Collegio opportuno precisare che, in ogni caso, l’amministrazione finanziaria non era tenuta ad espletare alcun contraddittorio nella fase amministrativa con riferimento ai tributi non armonizzati (nella specie, IRAP ed IRPEF). Le Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 24823 del 2015, i cui principi sono stati costantemente ribaditi da questa Sezione, hanno, infatti, posto una basilare distinzione, a seconda che si tratti o meno di tributi armonizzati, questi ultimi soggetti al diritto dell’Unione europea, chiarendo che « in tema di tributi c.d. non armonizzati, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, p ena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi cd. armonizzati, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazi one del contraddittorio endoprocedimentale da
parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto » (tra la successiva giurisprudenza conforme si vedano, tra le altre, Cass. sez. 5, 3 febbraio 2017, n. 2875; Cass. sez. 6-5, ord. 20 aprile 2017, n. 10030; Cass. sez. 6-5, ord. 5 settembre 2017, n. 20799; Cass. sez. 6-5, ord. 11 settembre 2017, n. 21071).
3.4. Ne consegue che, con riferimento ai tributi non armonizzati (nella specie, IRAP per la società ed IRPEF, invece, per i soci), non essendo previsto normativamente l’obbligo del contraddittorio nella fase amministrativa, l’amministrazione finanziaria non aveva nessun obbligo di attivarlo, sicché gli atti impositivi emessi nei confronti della società non potevano essere annullati con riferimento alle riprese a tassazione operate nei confronti della società contribuente ai fini IRAP e ai fini IRPEF nei confronti dei soci.
3.5. Quanto , invece, all’IVA, recuperata nei confronti della società, osserva il Collegio che è ben ero che il diritto eurounitario da tempo conosce un generale obbligo di attivazione del contraddittorio nella fase del procedimento amministrativo, fondato sull’art. 41, §§ 1 e 2 , della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che consacra il diritto ad una buona amministrazione declinandolo, al paragrafo 2, nel «diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un
provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio» (al riguardo, numerose le sentenze della Corte di Giustizia che hanno interpretato tale disposizione, tra cui le sentenze 24 febbraio 2022, C-582/20, RAGIONE_SOCIALE; 4 giugno 2020, C-430/19, RAGIONE_SOCIALE; 16 ottobre 2019, C-189/18, Glencore; 9 novembre 2017, C-298/16, Ispas; 3 luglio 2014, C-129/13 e C-130/13, Kamino e Datema). In buona sostanza, ai destinatari incisi dai provvedimenti dell’Amministrazione finanziaria rientranti nel perimetro d’applicazione del diritto dell’Unione dev’essere assicurato di poter esporre utilmente il proprio punto di vista in merito agli elementi posti a fondamento dell’atto medesimo (cfr. Corte di giustizia 18 dicembre 2008, C-349/07, Soprop é , § 37 e giurisprudenza ivi citata). Orbene, tali principi sono stati calati nel nostro ordinamento dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sopra citata sentenza n. 24823 del 2015, successivamente sempre confermata da questa Sezione (cfr., ex multis , Cass. n. 701 del 2019; Cass. n. 22644 del 2019, Cass. n. 33818 del 2024, non massimata), nel senso che vi è necessità di operare, per i tributi armonizzati, una “prova di resistenza” ai fini della valutazione del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale. Infatti, in tal caso l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa. Onere nella specie non assolto, posto che la società contribuente non ha neppure allegato quale sarebbe la concreta menomazione subita per la mancata attivazione del contraddittorio.
3.6. Va, da ultimo, osservato che non coglie nel segno la tesi, pure sostenuta dai ricorrenti, secondo cui «l’obbligo di contraddittorio preventivo deve essere sicuramente riconosciuto
quantomeno nel caso di accertamenti basati su meri dati statistici (quale è, appunto, l’atto impositivo emesso nei confronti della Società, in quanto formulato ex art. 39, secondo comma, lett. d), d.P.R. n. 600, citato, e quelli emessi nei confronti dei soci, che derivano dal primo)», così come affermato da questa Corte nella sentenza n. 14105 del 2010 la quale «ha evidenziato l’imprescindibile rilevanza del contraddittorio preventivo con riferimento alla materia degli accertamenti basati sugli studi di settore». Anche a voler prescindere dalla novità, e conseguente inammissibilità della questione in esame, non avendo le parti dato evidenza della sua prospettazione con l’originario ricorso ( in cui, come sopra detto, era stata posta soltanto la violazione del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000), deve rilevarsene l’assoluta infondatezza, posto che , da un lato, l’accertamento induttivo non è basato su dati meramente statistici (arg. da Cass., Sez. U., n. 26635 del 2019, secondo cui « l’accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui all’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili») e, dall’altro, per l’accertamento fondato sull’applicazione degli studi di settore l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale è espressamente previsto a pena di nullità dal comma 3bis dell’art. 10 della legge 146 del 1998, introdotto dall’art. 1, comma 409, lett. b), della legge finanziaria 2005, n. 3011 del 2004, come interpretata dalle Sezioni unite di questa Corte nella sentenza appena sopra citata).
4. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 2, lett. d), del d.P.R. n. 600 del
1973 e 55, comma 2, n. 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, ponendo a questa Corte la seguente questione di diritto: «se a norma degli artt. 39, secondo comma, lett. d), d.P.R. n. 600, citato e 55, secondo comma, n. 3), d.P.R. n. 633, citato, possa, o meno, essere esercitato un accertamento induttivo – che prescinde completamente dalla contabilità – sulla base di un unico presupposto, dato dall’aver riscontrato un’unica inesattezza nella contabilità in ragione del fatto che l’importo indicato in una voce dell’attivo dello stato patrimoniale non coincide (invero solo apparentemente) con l’importo risultante dal saldo della scheda contabile relativa al corrispondente conto patrimoniale».
Con il terzo e quarto motivo viene dedotto , ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, e precisamente:
quanto al terzo motivo, «del fatto che, (a) nonostante la dicitura semplificata del conto “crediti vs COGNOME“, la Società vantava un credito nei confronti non solo del socio NOME COGNOME, ma anche nei confronti del socio NOME COGNOME, essendo il predetto conto patrimoniale stato alimentato da movimenti finanziari da/verso un conto corrente cointestato ad entrambi i soci, uniti da vincolo di coniugio; (b) i soci, a loro volta, vantavano un “controcredito” nei confronti della Società; (c) in bilancio, pertanto, è stata data indicazione della situazione creditoria netta vantata Società nei confronti dei soci, compensando le predette reciproche posizioni creditorie/debitorie»;
quanto al quarto motivo, «del fatto che, (a) ai fini della rideterminazione induttiva del reddito, l’Agenzia ha individuato un insieme non omogeneo di imprese; (b) viceversa, le grandezze economiche della Società sono risultate congrue e coerenti con i principali indici degli studi di settore relativi alla categoria di
appartenenza; (c) in ogni caso, la Società presenta delle rilevanti peculiarità che hanno inciso sul reddito dalla stessa dichiarato, quali (c.i) la circostanza di aver conseguito un volume di affari riconducibile, per il 50%, all’attività di elaborazione dati e, per il restante 50%, ad attività immobiliare, ovvero, (c.ii) la circostanza di essere una realtà economica di modeste dimensioni, in cui i soci operano soltanto saltuariamente e priva di personale alle proprie dipendenze».
6. Ciò precisato, osserva il Collegio che in materia di accertamento del reddito d’impresa, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui il discrimine tra l’accertamento condotto con metodo analitico extracontabile (ex art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973) e l’accertamento condotto con metodo induttivo puro (art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600/1973 ed art. 55, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA) va ricercato, rispettivamente, nella parziale od assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili. Nel primo caso, l’«incompletezza, falsità od inesattezza» degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, essendo l’Ufficio accertatore legittimato solo a «completare» le lacune riscontrate utilizzando, ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati ovvero dell’inesistenza di componenti negativi dichiarati, anche presunzioni semplici rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ. Nel secondo caso, invece, «le omissioni o le false od inesatte indicazioni» sono così gravi, numerose e ripetute da inficiare l’attendibilità – e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che in tale ultimo caso l’Amministrazione finanziaria può «prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio o delle scritture contabili in quanto esistenti» ed è legittimata a determinare l’imponibile in base
ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 cod. civ.» (Cass. n. 6861 del 2019; conf. Cass. n. 33604 del 2019 e, più recentemente Cass. n. 1880 e n. 1883 del 2024; in termini anche Cass. n. 28476 del 2024).
Nel caso in esame, la legittimità dell’utilizzo da parte dell’amministrazione finanziaria del metodo di accertamento induttivo cd. puro, ai sensi delle sopra citate disposizioni, è stata affermata dai giudici di appello sulla base della accertata « irregolarità della tenuta delle scritture contabili evidenziata dalla differenza tra i dati esposti nel bilancio e i mastrini relativi ai finanziamenti C/soci ».
Dalla ricostruzione in fatto operata in sentenza dai giudici di appello e dall’avviso di accertamento riprodotto nel ricorso, emerge che:
per consentire ai soci COGNOME e COGNOME di acquistare un immobile ad uso abitativo del costo di 960.000,00 euro, la società deliberò di concedere a costoro un finanziamento in linea capitale di 800.000,00 euro, poi erogato nella minor somma di 500.000,00 euro, «da dedurre l’eventuale finanziamento dei soci in essere» (che ammontava a 237.816,00 euro), infruttifero, se rimborsato interamente entro il 30 giugno 2015, e con concessione in comodato gratuito alla società contribuente di una parte del predetto immobile;
nella copia del mastrino del conto 30556-“RAGIONE_SOCIALE” esercizio 2008, trasmessa all’ Ufficio, figurava la restituzione da parte della società ai soci dell’importo di 20.000,00 euro, relative ai pregressi finanziamenti forniti da questi ultimi, nonché parziali restituzioni per 197.000,00 euro in senso inverso, ovvero dai soci alla società, per il finanziamento di € 500.000 da questa effettuato e registrato nell’anno precedente;
il predetto mastrino si chiudeva al 31/12/2008 con un saldo positivo di € 224.950, che avrebbe dovuto anch’esso corrispondere alla voce “RAGIONE_SOCIALE” nell’attivo dello S/P- bilancio dell’esercizio
2008 ma, in realtà, alla stessa voce risultava indicato in bilancio l’importo di 58.890,00 euro;
anche nella memoria prodotta in risposta al questionario la parte asseriva che “il saldo a fine esercizio a credito nei confronti del socio COGNOME era di € 58.890″, con l’evidente scopo di dimostrare che il finanziamento della società, a fine 2008, era stato in gran parte ad essa restituito dai soci o comunque in gran parte compensate con i pregressi finanziamenti dai soci alla società;
i n merito alla discrasia tra il saldo del mastrino di € 224.950 e l’importo di € 58.890 esposto in bilancio nella voce corrispondente , alla richiesta di chiarimenti dell’ Ufficio, la società rispondeva inviando a mezzo mail una nuova versione del mastrino del conto n. 30556 “RAGIONE_SOCIALE” con l’aggiunta di una nuova operazione (“g/c finanziamento RAGIONE_SOCIALE” in avere, come restituzione dai soci alla società, per € 166.059, allo scopo di allineare il saldo positivo di € 58.890 all’importo esposto in bilancio;
la versione del nuovo mastrino del conto con l’aggiunta di una nuova operazione (“g/c finanziamento COGNOME/Di Felice” in avere, come restituzione dai soci alla società, per € 166.059 ), recava in calce lo stesso “totale movimenti del periodo” in dare (20.000) ed in avere (421.950) della copia del mastrino già in possesso dell’Ufficio, sicché l’operazione di giroconto di € 166.059 doveva ritenersi essere stata aggiunta artificiosamente allo scopo di creare un saldo positivo di € 58.890 e di allinearlo in modo forzato all’importo esposto in bilancio;
tale versione del mastrino non poteva, quindi, essere presa in considerazione e, contrariamente a quanto asserito dalla parte, il saldo a fine esercizio del conto (rappresentante il credito della società nei confronti del socio COGNOME) non era di € 58.890 bensì di € 224.950, così come risultante nella copia del mastrino originariamente prodotto dalla società contribuente.
8.1. Orbene, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto che « Sulla base di tali elementi la società ha pertanto redatto il bilancio indicando in una voce dell’attivo dello S/P l’importo di € 166.059 in meno in difformità dalle risultanze della scheda contabile, rendendo tutto il bilancio e la contabilità che lo presuppone completamente inattendibili; inoltre, “per” occultare'” tale situazione ha prodotto all’ufficio una versione della scheda contabile con dati palesemente artefatti » (così nell’avviso di accertamen to).
Tale argomentazione è stata condivisa dai giudici di appello che hanno ritenuto che « i dati esposti nel bilancio e i mastrini relativi ai finanziamenti C/soci » giustificassero un accertamento di tipo induttivo puro.
9.1. In realtà, così argomentando i giudici di appello sono incorsi nella violazione delle disposizioni censurate, che, così come detto, in forza anche dell’interpretazione costantemente fattane da questa Corte, consentono il ricorso all’accertamento di tipo induttivo puro , quindi prescindendo in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio o delle scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 cod. civ., solo se le omissioni o le false od inesatte indicazioni sono così gravi, numerose e ripetute tali da rendere inattendibili le scritture contabili nel loro complesso.
9.2. Nella specie, invero, pur non potendosi dubitare della gravità della violazione accertata, consistente nell’indicazione in bilancio di un credito della società verso il socio COGNOME inferiore rispetto a quello reale, deve escludersi la sussistenza sub specie di una molteplicità e ripetitività di violazioni che rendessero inattendibile la contabilità societaria nel suo complesso e l’intero bilancio, che i giudici di appello si sono, in realtà, affrettati ad affermare senza fornire argomentazioni specifiche al riguardo e facendo riferimento a plurimi ‘dati esposti in
bilancio’ quando, invece, la falsità del bilancio era limitata alla sola voce dell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio di esercizio dell’anno 2008 relativo al saldo di fine esercizio del credito della società nei confronti del socio COGNOME, non congruente con il mastrino del conto 30556-“RAGIONE_SOCIALE” esercizio 2008, originariamente prodotto dalla società contribuente all’Ufficio.
Da quanto detto consegue l’accoglimento del secondo motivo di ricorso con assorbimento del terzo e quarto, peraltro dedotti in via subordinata.
Con il quinto motivo i ricorrenti, con riferimento alla deducibilità da parte della società contribuente degli interessi passivi pagati in relazione al mutuo ipotecario contratto per effettuare il finanziamento a favore dei soci per l’ammontare di 500.000,00 euro ed alla ripresa a tassazione della variazione in aumento dell’importo di € 7.917,00 operata a titolo di interessi passivi non deducibili , deducono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 109, comma 5, TUIR (d.P.R. n. 917 del 1986), ponendo a questa Corte la seguente questione di diritto: «se a norma dell’art. 109, quinto comma, d.P.R. n. 917, citato, ai fini della deducibilità dal reddito di impresa, gli interessi passivi soggiacciono, oppure no, ad un giudizio sull’inerenza rispetto all’attività svolta dal contribuente».
11.1. Lamenta, inoltre, l’illegittimità della ripresa a tassazione della variazione in aumento dell’importo di € 7.917,00 operata dalla Società a titolo di interessi passivi non deducibili al rigo RF29 – “altre variazioni in aumento” della dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio 2008, che l’amministrazione finanziaria aveva effettuato in quanto non documentata e comunque non effettuata nel rigo corretto (RF15).
Con il sesto e settimo motivo di ricorso viene dedotto in via subordinata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, e precisamente,
quanto al sesto motivo, «i) il fatto che la somma di € 500.000 è stata erogata ai soci, (i.a) per € 237.816, a titolo di rimborso di pregressi finanziamenti dei soci e, (i.b) solo per la restante parte di € 262.184, a titolo di finanziamento a favore dei soci medesimi per l’acquisto dell’immobile in Biassono; ii) il fatto che la Società non aveva a propria disposizione un immobile in cui poter svolgere la propria attività; con la conseguenza che, qualora non avesse ricevuto in contropartita al finanziamento erogato ai soci la concessione in comodato d’uso gratuito di una parte dell’immobile da essi acquistato, avrebbe comunque dovuto reperire sul mercato la disponibilità di un altro immobile; iii) il fatto che il costo stimato per la locazione di un immo bile, pari a circa € 50.000, sarebbe stato di gran lunga superiore rispetto a quello in concreto sostenuto dalla Società a titolo di interessi passivi; iv) il fatto che, a prescindere dall’attività sociale formalmente indicata, la Società, nell’esercizio 2008, ha realizzato un volume di affari derivante, per il 50%, dall’attività di elaborazione dati e, per il restante 50%, da attività immobiliare»;
quanto al settimo motivo, il fatto che la società, nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio 2008, aveva apportato una variazione in aumento di € 7.917,00 per interessi passivi indeducibili.
I motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto tra loro strettamente connessi, sono fondati e vanno accolti.
13.1. L’art. 109, comma, 5 TUIR, prevede che «Le spese e gli altri componenti negativi (del reddito, ndr) diversi dagli interessi passivi, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi».
13.2. Come correttamente osservato da questa Corte (cfr. Cass. n. 23872 del 2020, le cui argomentazioni vanno qui integralmente richiamate) si tratta della regola normativa generale di inerenza degli oneri deducibili, che viene specificamente evocata per l’esclusione espressa degli «interessi passivi», oneri che appunto secondo la società contribuente sono sempre deducibili, a prescindere dalla inerenza della loro fonte generatrice. Il che toglierebbe ab imis fondamento giuridico alla ripresa fiscale ed alla statuizione confermativa dei giudici di appello. Il Collegio è ben consapevole che nella giurisprudenza di legittimità è da ritenersi consolidato il principio di diritto che «Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, gli interessi passivi, ai sensi dell’art. 75, comma 5, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ed a differenza della precedente normativa contenuta nell’art. 74, del d.P.R. 20 settembre 1973, n. 597, sono sempre deducibili, anche se nei limiti di cui all’art. 63 (ora 96) del detto d.P.R. n. 917 del 1986, che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza» (Cass., n. 10501 del 14/05/2014, Rv. 630816 – 01; precedenti conformi, Cass. n. 9380/2009 e Cass. n. 22034/2006). Tuttavia, l’assolutezza di questo arresto giurisprudenziale è sicuramente temperata dall’ulteriore principio di diritto secondo il quale «Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, resta precluso tanto all’imprenditore quanto all’Amministrazione finanziaria dimostrare che gli interessi passivi riguardano finanziamenti contratti per la produzione di specifici ricavi, dovendo, invece, essere correlati all’intera attività dell’impresa esercitata. Gli interessi passivi, infatti, sono oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all’impresa nel suo essere e progredire, e, dunque, non possono essere specificamente riferiti ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo» (Cass., n. 10501 del 14/05/2014, Rv. 630817 – 01,
che è -significativamente- la stessa sentenza da cui è tratta la massima di cui appena sopra). Ciò spiega quindi che, in realtà, la citata disposizione del TUIR non può essere intesa nel senso che essa fissa una presunzione legale assoluta di inerenza degli interessi passivi, ma, più semplicemente e limitatamente, nel senso che li affranca da una correlazione diretta con i componenti attivi del reddito di impresa, certamente e comunque rilevandone il vincolo con l’attività dell’impresa nel suo complesso. Con la precisazione che l’inerenza degli interessi passivi, sia pure “generica” secondo una corretta interpretazione dell’art. 109, comma 5, TUIR e nel solco della relativa giurisprudenza di questa Corte, necessariamente implica che l’operazione che ha ingenerato tale componente negativa non sia qualificabile come elusiva ovvero contrastante con il generale divieto dell’abuso del diritto (così in Cass. 23872/2020 citata).
13.3. Nel caso qui vagliato, i giudici del gravame non si sono attenuti ai principi sopra enunciati, avendo escluso l’inerenza d ei costi per interessi passivi sulla base di due presupposti, entrambi errati, ovvero che l’attività svolta dalla società contribuente era quella di elaborazione elettronica di dati fiscali e non comprendeva l’attività immobiliare e che l’operazione doveva ritenersi antieconomica, in tal senso dovendosi interpretare l’affermazione secondo cui andava ‘rimarcato’ « che la concessione in comodato gratuito di una marginale parte dei locali dell’immobile avrebbe dovuto compensare i costi sostenuti dalla società per erogare ai soci il finanziamento necessario per l’acquisto dell’immobile ».
13.4. Invero, la prima affermazione sconta la mancata considerazione del fatto che ne ll’avviso di accertamento impugnato (pag. 3), allegato al ricorso (ed in esso, in parte qua , riprodotto a pag. 54, nota 71), è la stessa Agenzia delle entrate a dare atto che la società contribuente «era proprietaria di n^ 2 uffici siti in Monza concessi in locazione a terzi e pertanto non disponibili ad essere
adibiti a sua sede operativa». La seconda affermazione, invece, si pone in evidente contrasto con i principi sopra enunciati in materia di interpretazione del l’art. 109, comma 5, TUIR, che esclude espressamente gli interessi passivi dalla regola generale di inerenza degli oneri deducibili, cui l’antieconomicità dell’operazione costituisce indice sintomatico della sua assenza, ritendo sufficiente la sussistenza di un vincolo con l’attività dell’impresa nel suo complesso. Infine, la CTR non ha in alcun modo considerato la ripresa a tassazione dell’importo di € 7.917,00 di cui alla variazione in aumento per interessi passivi indeducibili operata dalla società contribuente.
14. In estrema sintesi, vanno accolti il secondo, quinto, sesto e settimo motivo di ricorso, rigettato il primo, assorbito il terzo e quarto, nonché l’ottavo , con cui i ricorrenti hanno dedotto, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’« Illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici non hanno applicato d’ufficio il principio del favor rei, rideterminando in misura più mite le sanzioni irrogate a mezzo dell’avviso di accertamento di cui è causa» in violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Istanza di applicazione del favor rei in materia sanzionatoria, avanzata dai ricorrenti nelle memorie anche con riferimento al d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87, su cui provvederà il giudice del rinvio.
P.Q.M.
accoglie il secondo, quinto, sesto e settimo motivo di ricorso, rigettato il primo, assorbito il terzo, quarto ed ottavo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 15 gennaio 2025