Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 15632 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 15632 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/06/2025
Oggetto: II.DD -IVA -costi -deducibilità – competenza
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 60/2018 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME (pecEMAIL, elettivamente domiciliata presso il suo studio in INDIRIZZO Roma;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, INDIRIZZO
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 2836/10/2017, depositata il 18.5.2017 e non notificata. camerale del 26 marzo 2025
Udita la relazione svolta nell’adunanza dal consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
Con sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 2836/10/2017, depositata il 18.5.2017 venivano rigettati l’appello principale della RAGIONE_SOCIALE e l’appello incidentale de ll’Agenzia delle Entrate proposti avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma n. 20574/57/2015, la quale aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dalla società. L’atto impugnato era l’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2007 con cui, a seguito di verifica, veniva accertato maggiore reddito rispetto a quanto dichiarato, ai fini IRAP, IVA e sanzioni. Veniva così ripresa a tassazione la somma di euro 120.000 relativa ad attività di marketing fornita dalla ditta RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME, avendone l’Agenzia ritenuto ingiustificata la deducibilità.
Il giudice di prime cure riconosceva la deducibilità dei costi oggetto di contestazione limitatamente alla somma di euro 44.822,83, decisione confermata dal giudice d’appello.
Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso principale per Cassazione la contribuente deducendo due motivi, mentre l’Agenzia delle Entrate ha depositato in risposta al ricorso della contribuente atto di costituzione ai soli fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione ex art.370, comma 1, cod. proc. civ. e ha a sua volta proposto ricorso, notificato successivamente al primo e da qualificarsi incidentale, per un motivo.
Considerato che:
Con il primo motivo la società ricorrente principale prospetta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt.109, comma 2, e 5 TUIR nella parte in cui il giudice non ha riconosciuto la deducibilità dei costi per euro 44.822,83 nella considerazione che gli assegni erano stati emessi prima della ricezione delle fatture asseritamente pagate attraversi tali effetti.
Il motivo è inammissibile in quanto, sotto lo schermo della pretesa violazione di legge, impinge in un preciso accertamento fattuale sia del giudice di prime cure sia del giudice di appello a pag.3 della sentenza impugnata, che ha stabilito la irriconciliabilità parziale delle fatture suddette con le modalità di pagamento addotte dalla società, in doppia conforme.
Infatti, l’abrogazione dell’art. 348-ter cod. proc. civ., già prevista dalla legge delega n.206/2021, attuata per quanto qui interessa dal d.lgs. n.149/2022, ha comportato il collocamento all’interno dell’art. 360 cod. proc. civ. di un terzo comma, con il connesso adeguamento dei richiami, il quale ripropone la disposizione dei commi quarto e quinto dell’articolo abrogato e prevede l’inammissibilità del ricorso per cassazione per il motivo previsto dal n. 5 dell’art. 360 citato, ossia per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Il ricorrente non ha dimostrato che le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello sono state tra loro diverse.
Al di là dello schermo di violazione di legge, la doglianza è chiaramente diretta ad ottenere un’inammissibile rivalutazione della prova da parte del giudice di legittimità, a fronte dell’omogenea valutazione del materiale probatorio da parte del giudice nei due gradi di merito.
Con il secondo motivo la ricorrente censura, in rapporto all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione de ll’ art. 15, comma 2, d.lgs. n.546/1992, come modificato dall’art.9, comma 1, lett. f), d.lgs. n.156/2015 in relazione alla condanna alle spese dell’appellante, in presenza di soccombenza reciproca delle parti in grado d’appello.
Il motivo è affetto da concorrenti profili di inammissibilità e di infondatezza.
4.1. Innanzitutto, il Collegio osserva che alla luce della disciplina applicabile ratione temporis , richiamata anche nel motivo, il giudice d’appello non era tenuto necessariamente a compensare le spese di lite anche in presenza di soccombenza reciproca.
4.2. Sotto un ulteriore profilo, la ricorrente si duole sostanzialmente dell’assenza di motivazione adottata dal giudice per derogare a tale criterio («nel caso di specie non si ravvisa la sussistenza delle predette circostanze») e per averla condannata alle spese del grado, ma non costruisce la censura come vizio motivazionale assoluto o, almeno, relativo, sotto l’angolo della illogicità della motivazione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014) con conseguente inammissibilità del motivo perché non correttamente proposto.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale l’Agenzia deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 109, primo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver il giudice d’appello erroneamente confermato la decisione di primo grado affermando non essere stato violato il principio di competenza con riferimento a parte dei costi dedotti dalla società, considerando che «ai sensi dell’art.109 TUIR, ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza (…) i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate e, dunque, nel
caso di specie, presuntivamente alla data di emissione delle fatture», senza aver compiuto un reale accertamento sul momento in cui le prestazioni fatturate sarebbero state ultimate, tenuto conto che la prova della competenza d ell’ esercizio cui è imputato il costo spetta al contribuente.
Il motivo è affetto da concorrenti profili di inammissibilità e di infondatezza.
6.1. In tema di reddito d’impresa, ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza al quale vanno temporalmente imputati i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi del reddito, sono regolati dall’art.109 del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo cui i ricavi, i costi e gli altri oneri concorrono a formare il reddito dell’esercizio di competenza a condizione che la loro esistenza o il loro ammontare sia determinabile in modo oggettivo.
La norma mira a contemperare la necessità di computare tutte le componenti dell’esercizio di competenza con l’esigenza di non addossare al contribuente un onere troppo difficile da rispettare, sicché tale regola è stata interpretata dalla Corte (tra le tante, v. Cass. Sez. 5, ordinanza n. 36600 del 2021 e giurisprudenza ivi citata) nel senso che il dovere di conteggiare dette componenti nell’anno di riferimento si arresta soltanto di fronte a quei ricavi e a quei costi che non siano ancora noti all’atto della determinazione del reddito, e cioè al momento della redazione e presentazione della dichiarazione.
6.2. Orbene, nella fattispecie il giudice d’appello innanzitutto richiama la corretta previsione di legge applicabile ai fini della determinazione del periodo di imposta di competenza dei costi in questione. Inoltre, compie, come già il giudice di primo grado in una pronuncia doppia conforme, un preciso accertamento fattuale nel rispetto del canone di riparto dell’onere della prova sopra richiamato e con precisi addentellati nel quadro istruttorio raccolto nel processo. La sentenza impugnata a pag. 3 accerta che «sia pure nell’ambito di
un rapporto professionale intercorrente tra le due società sin dal 2006» l’esistenza dei costi e la determinabilità in modo obiettivo del loro ammontare non era certa sino al momento dell’emissione della fattura e degli assegni di pagamento. Tale accertamento non è revocabile in dubbio nei termini generici e sostanzialmente rivalutativi della prova esposti nel motivo in disamina, dal momento che il fatto storico è stato compiutamente esaminato dal giudice (cfr. Cass. Sez. U, n. 8053/2014 cit., poi sempre confermata).
In conclusione, entrambi i ricorsi devono essere rigettati.
Le spese di lite sono compensate, in presenza di soccombenza reciproca.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta i ricorsi e compensa le spese di lite.
Si dà atto del fatto che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale della società, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 26.3.2025