Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 22255 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 22255 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18080-2016 R.G. proposto da:
COGNOME LucaCOGNOME rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dall’ avv. prof. NOME COGNOME (pec: EMAIL;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende (pec: EMAIL);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 87/38/2016 della Commissione tributaria regionale del PIEMONTE, depositata in data 25 gennaio 2016;
Oggetto:
TRIBUTI –
udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12 giugno 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
In controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento emesso per l’anno d’imposta 2008 nei confronti di NOME COGNOME, esercente l’attività di servizi di contabilità e consulenza fiscale, con cui l’amministrazione finanziaria disconosceva la deducibilità di costi relative alle fatture emesse dall’i mpresa individuale RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, padre del predetto contribuente, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR del Piemonte accoglieva l’appello dell’Ufficio avverso la sfavorevole sentenza di primo grado.
I giudici di appello rigettavano l’eccezione preliminare sollevata dal contribuente in ordine all’invio dell’atto di appello in busta chiusa e non in plico raccomandato, perché tale modalità di invio non è requisito di inammissibilità dell’impugnazione, ma mera irregolarità soggetta a sanatoria ex art. 156 cod. proc. civ., come accaduto nel caso di specie essendosi l’appellato costituito regola rmente in giudizio ed avendo formulando tutte le sue difese.
Rigettavano l’eccezione di tardività dell’appello ritenendo che anche nell’ipotesi di spedizione dell’atto mediante uso della busta dovesse farsi riferimento alla data di spedizione.
Sostenevano che l’avviso di accertamento era stato sottoscritto da funzionario legittimato in quanto a ciò delegato sulla base degli ordini di servizio prodotti in giudizio dall’amministrazione finanziaria.
Nel merito, sostenevano che le circostanze emergenti dagli atti processuali e non contestate, in particolare che NOME COGNOME, percettore dei compensi indicati nelle fatture contestate, era il padre del contribuente, che non aveva presentato alcuna dichiarazione fiscale, che la ditta individuale di cui era titolare era stata cancellata dal registro delle imprese in epoca precedente all’emissione delle fatture, anche se non aveva chiesto la cancellazione della partita IVA
indicata nelle fatture emesse in favore del figlio, facevano ritenere fondata la tesi sostenuta dall’Agenzia delle entrate secondo cui i compensi fatturati dovevano considerarsi spese per prestazioni di lavoro svolte da un congiunto e, come tali, indeducibili ex art. 60 TUIR. Infondato era anche il rilievo formulato dal contribuente con riferimento alla contestata violazione dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 per illegittima detrazione d’imposta ai fini IVA, considerato che le prestazioni effettuate da NOME COGNOME emittente delle fatture, non rientravano nel campo di applicazione dell’IVA per difetto del requisito soggettivo.
Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a sette motivi, cui replica l’ intimata con controricorso.
Il ricorrente deposita memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si deduce , ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’inammissibilità dell’atto di appello per tardività, in violazione dell’art. 327 cod. proc. civ. , essendo stato spedito per la notificazione il 12/11/2014, ovvero il giorno successivo alla scadenza del termine lungo, verificatasi in data 11/12/2014 rispetto alla data del 27/03/2014, di deposito della sentenza di primo grado.
1.1. Il motivo è manifestamente infondato posto che il ricorrente applica un termine feriale più breve, di 45 giorni rispetto a quello di 46 giorni invece decorrente dal 1° agosto al 15 settembre.
1.2. Pertanto, considerato che la sentenza di primo grado è stata depositata in data 27/03/2014, il termine semestrale per la proposizione dell’appello scadente il 27/09/2014 andava prorogato di 46 giorni, ovvero fino al 12/11/2014, data in cui l’appello risult a spedito, come peraltro ammette lo stesso ricorrente.
Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’inammissibilità dell’atto di appello per essere stato sottoscritto da dirigente incaricato, ovvero sfornito di rappresentanza processuale, in violazione degli artt. 10, 11, 18, comma 3, e 53, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 75 cod. proc. civ.
2.1. Il motivo è inammissibile in quanto nuovo, non risultando né dal testo della sentenza impugnata né dal ricorso che la questione sia stata posta dinanzi al giudice di merito, ovvero con le controdeduzioni depositate in grado di appello.
2.2. Invero, «In tema di processo tributario, il difetto di legittimazione della sottoscrizione dell’atto di appello da parte del funzionario di un ufficio periferico dell’Agenzia delle entrate, anche ove non sia esibita in giudizio una specifica delega, non è rilevabile d’ufficio, trattandosi di circostanza che deve essere eccepita dal contribuente, dovendosi in mancanza presumere che l’atto provenga dal soggetto legittimato e ne esprima la volontà» (Cass. n. 2901/2019)
2.3. Al riguardo va poi ricordato che «Qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa» (Cass. n. 3473/2025).
2.4. In ogni caso, il motivo è infondato nel merito.
2.5. Si è affermato che «In tema di contenzioso tributario, gli artt. 10 e 11, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in
giudizio all’ufficio locale dell’agenzia delle entrate nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale, sicchè è validamente apposta la sottoscrizione dell’appello dell’ufficio finanziario da parte del preposto al reparto competente, anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza» (Cass. n. 6691/2014).
2.6. Si è anche detto che «In tema di contenzioso tributario, la provenienza di un atto di appello dall’Ufficio periferico dell’Agenzia delle Entrate e la sua idoneità a rappresentarne la volontà si presumono, anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata«, ma non è il caso di specie, «la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque l’usurpazione del potere di impugnare la sentenza» (Cass. n. 694/2025).
Con il terzo motivo si deduce , ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere la CTR erroneamente ritenuto validamente provata la delega alla sottoscrizione dell’atto impositivo nonostante che dalla documentazione prodotta dall’Agenzia delle entrate non risultasse la preesistenza de lla delega all’atto, il nominativo del delegato e il potere conferito al delegato di firmare un avviso di accertamento del tipo di quello impugnato.
3.1. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.
3.2. Richiamando quanto recentemente affermato da Cass., Sez. U, n. 22986/2024 (in motivazione, par. 3), l’orientamento espresso dalla più recente giurisprudenza di questa Corte sulla cosiddetta autosufficienza o autonomia del ricorso per cassazione (Cass. S.U. 18
marzo 2022 n. 8950; Cass. S.U. 30 novembre 2022 n. 35305; Cass. 26 giugno 2024 n. 17670; Cass. 25 giugno 2024 n. 17445; Cass. 21 giugno 2024 n. 17183; Cass. 16 maggio 2024 n. 13565; Cass. 10 maggio 2024 n. 12906; Cass. 29 aprile 2024 n. 11362) è nel senso che ««la «specifica indicazione» degli atti processuali e dei documenti, già richiesta dal testo previgente dell’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., va letta alla luce dei principi stabiliti nella sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (Succi e altri c. Italia), che ha ritenuto il requisito formale compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, a condizione che, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa. È stato, di conseguenza, affermato che se, da un lato, la «specifica indicazione» non si può «tradurre in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso» (così Cass. S.U. n. 8950/ 2022), dall’altro sono comunque necessarie l’individuazione chiara del contenuto dell’atto nonché la produzione o l’indicazione della esatta collocazione dello stesso nel fascicolo processuale. Ciò perché il requisito di ammissibilità del ricorso è finaliz zato a consentire al giudice di legittimità l’esatta comprensione del contenuto della doglianza nonché la valutazione sulla fondatezza della stessa e, pertanto, come evidenziato dalla Corte EDU nella citata pronuncia del 28 settembre 2021, serve a semplificare l’attività dell’organo giurisdizionale nazionale, assicurando nello stesso tempo la certezza del diritto, la corretta amministrazione della giustizia, l’utilizzo appropriato e più efficace delle risorse disponibili ( punti 75, 78, 104 e 105 della motivazione)»».
3.3. Pertanto, il motivo in esame, censurando l’errore in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado nel valutare il contenuto degli ordini di servizio conferenti la delega di firma è inammissibile in quanto il ricorrente ha omesso di trascrivere nel ricorso le parti essenziali dei documenti cui ha fatto riferimento, che neppure ha
allegato al ricorso o localizzato negli atti dei giudizi di merito, di fatto impedendo a questa Corte di effettuare la necessaria verifica di fondatezza del motivo.
Con il quarto motivo si deduce, «la violazione dell’art . 42 del D.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 e n. 5, c.p.c. sotto il profilo dell’omesso esame di fatto storico.
4.1. Sostiene il ricorrente che gli ordini di servizio con cui era stata conferita la delega di firma non contenevano l’indicazione nominativa del funzionario delegato, della motivazione della delega e del termine di validità della stessa.
4.2. Il motivo incorre nel medesimo vizio di inammissibilità, per difetto di specificità, rilevato con riferimento al precedente motivo di ricorso.
4.3. In ogni caso, il motivo è manifestamente infondato.
4.4. Invero, in due celebri arresti, per vero ormai non più recenti, cui si è uniformata la successiva giurisprudenza, questa Suprema Corte ha avuto modo di esplicitare che ‘la delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento ad un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente ex art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 ha natura di delega di firma – e non di funzioni – poiché realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa’ (Sez. 5, n. 11013 del 19/04/2019, Rv. 653414-01), puntualizzando come il provvedi mento contenente la delega di firma ‘non richiede l’indicazione né del nominativo del soggetto delegato, né della durata della delega,
che pertanto può avvenire mediante ordini di servizio che individuino l’impiegato legittimato alla firma mediante l’indicazione della qualifica rivestita, idonea a consentire, ‘ex post’, la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sotto scritto l’atto’ (Sez. 5, n. 8814 del 29/03/2019, Rv. 653352-01; Cass. n. 32726/2024).
Con il quinto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 60 del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR).
5.1. Il ricorrente lamenta, sostanzialmente, che la CTR aveva errato nel ricondurre la fattispecie in esame al disposto di cui all’art. 54, comma 6, del TUIR, ovvero ritenere i compensi pagati dal ricorrente al padre NOME indeducibili in quanto erogati a favore di un familiare, risultando dagli atti di causa che lo stesso era un lavoratore autonomo professionale, titolare di partita IVA.
5.2. Il motivo è inammissibile in quanto in contrasto con l’accertamento in fatto compiuto al riguardo dai giudici di appello in ordine alle circostanze (rapporto di stretta parentela tra l’emittente la fattura e il suo destinatario; cancellazione dal registro delle imprese della ditta individuale del padre del ricorrente, fin dal 2006; omessa presentazione di qualsivoglia dichiarazione fiscale da parte di quest’ultimo) , peraltro neppure smentite dal ricorrente, che facevano chiaramente ritenere che quella fornita dal genitore del ricorrente andava qualificata come collaborazione e non come prestazione resa nell’esercizio di attività professionale.
5.3. In buona sostanza, con il motivo in esame il ricorrente, sotto lo schermo del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, in realtà pone in discussione il predetto accertamento, sicché la censura trasmoda nella revisione della quaestio facti , richiedendo inammissibilmente a questo Giudice di legittimità l’esercizio di poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. in tale
prospettiva, tra le altre, Cass. n. 18715/2016, Cass. n. 3965/2017, Cass. n. 6035/2018).
5.4. D’altro canto è noto che il vizio di violazione di legge «consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità» (cfr., ex multis , Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. Sez. 1, ord. 14 gennaio 2019, n. 640, Rv. 652398-01; Cass. Sez. 1, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, Rv. 652549 -02; Cass., Sez. 3, ord. n. 19651 del 16/07/2024, Rv. 671812 – 01), e ciò in quanto il vizio di sussunzione «postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicché è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito» (Cass., Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01; Cass., Sez. 3, ord. n. 19651 del 16/07/2024, Rv. 671812 – 01).
Con il sesto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, sostenendo l’illegittimità della negazione della detrazione IVA.
6.1. Il motivo è infondato e va rigettato.
6.2. Invero, in tema di IVA, ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972, ed in conformità con l’art. 17 della direttiva n. 77/388/CEE, nonché con gli artt. 167 e 63 della successiva direttiva n. 2006/112/CE, non è ammessa la detrazione dell’imposta pagata a monte per l’acquisto o l’importazione di beni o servizi per il solo fatto che tali
operazioni attengano all’oggetto dell’impresa e siano fatturate, poiché è, invece, indispensabile che esse siano effettivamente assoggettabili all’IVA nella misura dovuta, sicché, ove l’operazione sia stata erroneamente assoggettata all’IVA, restano privi di fondamento il pagamento dell’imposta da parte del cedente, la rivalsa da costui effettuata nei confronti del cessionario e la detrazione da quest’ultimo operata nella sua dichiarazione IVA, con la conseguenza che il cedente ha diritto di chiedere all’Amministrazione il rimborso dell’IVA, il cessionario ha diritto di chiedere al cedente la restituzione dell’IVA versata in via di rivalsa, e l’Amministrazione ha il poteredovere di escludere la detrazione dell’IVA pagata in rivalsa dalla dichiarazione IVA presentata dal cessionario» (Cass. n. 13149/2024; Cass. n. 21351/2020; Cass. n. 1642/2020; Cass. n. 4874/2019; Cass. n. 15536/2018; v. anche Cass. n. 32900/2022, con riferimento al caso di operazione erroneamente assoggettata ad un’aliquota IVA eccedente quella applicabile, nonché Cass. n. 4101/2025, in cui si è affermato che « ai sensi dell’art. 19, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e in conformità dell’art. 17 della direttiva del Consiglio CEE del 15 maggio 1977, n. 77/388/CEE, e degli artt. 167 e 63 della successiva direttiva del Consiglio del 28 novembre 2006 n. 2006/112/CE , l’esercizio del relativo diritto presuppone l’effettiva realizzazione di un’operazione assoggettabile a tale imposta nella misura dovuta»).
6.3. Pertanto, sulla base di tali principi, il motivo va rigettato atteso che nella specie è indiscutibile che l’attività svolta dal genitore del contribuente non era soggetta ad IVA e che resta del tutto irrilevante, quindi, che il prestatore abbia comunque emesso fattura, peraltro con l’utilizzo di una partita IVA rilasciata a ditta cancellata dal registro delle imprese, quindi non più esistente.
Con il settimo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la illegittimità sopravvenuta delle
sanzioni applicate con l’atto impositivo per effetto dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 158 del 2015, art. 15, costituente legge più favorevole.
7.1. Al riguardo deve darsi atto che con la memoria il ricorrente ha invocato « l’applicazione, alla fattispecie de qua, dello ius superveniens di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 87 del 2024, con conseguente irrogazione, in applicazione del principio del favor rei di cui all’art. 3, co. 3, D.Lgs. n. 472 del 1997, delle sanzioni amministrative secondo quanto previsto dai novellati artt. 1, 5 e 6, D.Lgs. n. 471 del 1997 ».
7.2. Prospetta, inoltre, questione di illegittimità costituzionale dell’art. 5, del d.lgs. n. 87 del 2024 che prevede che « le disposizioni di cui agli articoli 2, 3 e 4 si applicano alle violazioni commesse dal 1° settembre 2024 », in deroga al principio di retroattività della sanzione più favorevole sancito dall’art. 3, co. 3, del d.lgs. n. 472 del 1997.
7.3. Il settimo motivo è inammissibile mentre va rigettata la richiesta avanzata con la memoria.
7.4. Quanto al motivo di ricorso in esame e all’applicazione della disposizione di cui all’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015, osserva il Collegio che il ricorrente non ha indicato l’entità della sanzione applicata limitandosi a sollecitare l’applicazione di un a sanzione solo in astratto più favorevole. In buona sostanza, il ricorrente non solo non indica né il tipo di violazione per la quale è stata applicata sanzione, né l’entità della stessa, così impedendo a questa Corte di verificare l’effettiva sussis tenza del favor rei che rivendica.
7.5. Quanto all’applicabilità delle sanzioni di cui al d.lgs. n. 87 del 2024, i profili di illegittimità costituzionale prospettati dal ricorrente con riferimento al disposto di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024, secondo cui « le disposizioni di cui agli articoli 2, 3 e 4 si applicano alle violazioni commesse dal 1° settembre 2024 », per violazione del principio di retroattività della sanzione più favorevole sancito dall’art. 3, co. 3, del d.lgs. n. 472 del 1997, sono manifestamente infondati per le ragioni ampiamente sviluppate da questa Corte nella recente sentenza n.
1274/2025 (non massimata) che afferma la non retroattività delle nuove sanzioni previste dal citato d.lgs. n. 87 del 2024, complessivamente più favorevoli per il contribuente, disposta dall’art. 5, comma 2, del citato decreto legislativo e la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale della citata disposizione. Sentenza, questa richiamata, alle cui articolate argomentazioni si rimanda e con la quale il ricorrente non si è confrontato.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese processuali che liquida in euro 5.900,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 12 giugno 2025