Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 1239 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 1239 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 18/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 29523/2018 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO), che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DEL PIEMONTE n. 1016/01/18 depositata il 08/06/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza n. 1016/01/18 del 08/06/2018, la Commissione tributaria regionale del Piemonte (di seguito CTR) rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate (di seguito AE) nei confronti della sentenza n. 26/03/17 della Commissione tributaria provinciale di Torino (di seguito CTP), che aveva accolto il ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso un avviso di accertamento per IRES, IRAP e IVA relative all’anno d’imposta 2010.
1.1. Come evincibile dalla sentenza impugnata e dalle difese delle parti, con l’avviso di accertamento erano state effettuate due distinte riprese.
1.2. La prima ripresa concerneva la non inerenza dei costi sostenuti con riferimento al contratto stipulato con RAGIONE_SOCIALE e volto all’acquisizione dei diritti di utilizzazione economica delle ricette ideate da NOME COGNOME, con concessione all’allora RAGIONE_SOCIALE del diritto di vendere i relativi prodotti con il nome dell’autore delle ricette. Detta ripresa si giustificava in ragione del fatto che nessuna confezione dei prodotti commercializzati al tempo da RAGIONE_SOCIALE riportava le ricette scritte da COGNOME né veniva fatto alcun riferimento al nome di quest’ultimo.
1.3. La seconda ripresa riguardava la fusione per incorporazione di RAGIONE_SOCIALE nella controllante RAGIONE_SOCIALE, avvenuta in data 20/12/2002, con successiva trasformazione di quest’ultima, a decorrere dal 01/01/2003, in società per azioni e cambio di denominazione in RAGIONE_SOCIALE, oggi RAGIONE_SOCIALE A seguito della fusione risultava un disavanzo da annullamento della partecipazione detenuta da RAGIONE_SOCIALE imputato ai marchi ‘aceto RAGIONE_SOCIALE e ‘RAGIONE_SOCIALE‘, i quali venivano affrancati ex art. 6 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358 e quindi dedotti a seguito ammortamento. Nella prospettazione di AE l’operazione di fusione si giustificava solo in
funzione dell’ammortamento dei marchi, con conseguente risparmio d’imposta e, quindi, era un’operazione elusiva ai sensi dell’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
1.4. La CTR rigettava l’appello di AE evidenziando che: a) quanto all’ammortamento dei marchi, doveva ritenersi maturata la decadenza dall’accertamento per decorrenza del termine quinquennale previsto dall’art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; b) doveva, altresì, essere condiviso il giudizio espresso dalla CTP, che riconduceva alla libertà di scelta imprenditoriale l’operazione di fusione per incorporazione al posto dello scioglimento di RAGIONE_SOCIALE: l’operazione era legittima anche se originava un risparmio fiscale; c) rientrava altresì nelle scelte imprenditoriali insindacabili quella concernente gli accordi con RAGIONE_SOCIALE, peraltro generatore di costi sicuramente inerenti in quanto attinenti all’attività di impresa.
Avverso la sentenza di appello AE proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
RAGIONE_SOCIALE resisteva in giudizio con controricorso e depositava memoria ex art. 380 bis .1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso per cassazione di AE è affidato a tre motivi, che vengono di seguito riassunti.
1.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 37 bis e 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 2220 del cod. civ. e dell’art. 8, comma 5, della l. 27 luglio 2000, n. 212, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto che il termine di decadenza previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 decorra dall’atto di stipula della fusione (20/12/2002) e non già dall’anno d’imposta (2010) in relazione al quale si è verificato l’indebito risparmio d’imposta conseguente all’atto elusivo.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso si contesta violazione e falsa applicazione dell’art. 109 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi TUIR), dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 59, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto l’inerenza del costo sostenuto da Ponti in relazione al contratto stipulato con RAGIONE_SOCIALE, senza previamente verificare se detto costo sia congruo.
1.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 6 del d.lgs. n. 358 del 1997 dell’art. 2501 cod. civ. e dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto la possibilità di comparare in astratto i due istituti della fusione e della liquidazione, con ciò valorizzando la scelta imprenditoriale compiuta da RAGIONE_SOCIALE s.p.a., nonché per avere erroneamente ritenuto sussistenti valide ragioni economiche per il compimento dell’operazione di fusione, nonostante l’esiguità del risparmio conseguito.
Il primo e il terzo motivo, riguardando entrambi la questione concernente il contestato abuso del diritto, vanno unitariamente esaminati.
2.1. Va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, « in materia tributaria, alla stregua dell’elaborazione giurisprudenziale comunitaria e nazionale, costituisce pratica abusiva l’operazione economica che, attraverso l’impiego “improprio” e “distorto” dello strumento negoziale, abbia quale scopo predominante e assorbente (seppur non esclusivo) l’elusione della norma tributaria, mentre la mera astratta configurabilità di un vantaggio fiscale non è sufficiente ad integrare la fattispecie abusiva, poiché è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice
risparmio di imposta e l’accertamento della effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale » (così Cass. n. 25758 del 05/12/2014; si vedano, altresì, Cass. n. 29936 del 27/10/2023; Cass. n. 19234 del 07/11/2012; Cass. n. 21782 del 20/10/2011; Cass. S.U. n. 30055 del 23/12/2008).
2.1.1. Più in particolare, se è vero che va esclusa l’abusività quando sia ravvisabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, non identificabili necessariamente in una redditività immediata dell’operazione, potendo rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda (Cass. n. 31772 del 05/12/2019; Cass. n. 18239 del 24/06/2021), deve ritenersi, invece, la sussistenza di un illecito risparmio di imposta quando questo rappresenti la parte preponderante e comunque prevalente dell’oggetto del contratto o degli accordi nel loro complesso, in quanto le ragioni economiche dell’operazione negoziale, valutata secondo la sua essenza, appaiano meramente marginali o teoriche (Cass. n. 9135 del 02/04/2021).
2.1.2. Con specifico riferimento alle imposte dirette, poi, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo che trova fondamento, dapprima, negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano (Cass. n. 3938 del 19/02/2014; Cass. n. 4604 del 26/02/2014) e, quindi, nell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (Cass. n. 405 del 14/01/2015; Cass. n. 4561 del 06/03/2015), che consente all’Amministrazione finanziaria di disconoscere e dichiarare non opponibili le operazioni e gli atti, in sé privi di valide ragioni economiche e diretti al solo scopo di conseguire vantaggi fiscali diversamente non spettanti.
2.1.3. Per completezza, va detto che la clausola antielusiva è stata oggi tradotta in una norma generale (non applicabile alla fattispecie), l’art. 10 bis della l. 27 luglio 2000, n. 212 che, al comma 1, così
recita: «Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni».
2.1.4. In conclusione, quindi, perché operi la clausola antielusiva occorre che il contribuente faccia un uso improprio o distorto dello strumento negoziale e che tale uso sia posto in essere con lo specifico scopo (seppure non esclusivo) di eludere la norma tributaria e di ottenere in questo modo un vantaggio fiscale.
2.2. Nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria ha contestato a RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE l’abusività ex art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’operazione di fusione intercorsa con RAGIONE_SOCIALE in quanto tale operazione sarebbe tesa a conseguire essenzialmente un vantaggio fiscale, costituito dall’ammortamento dei marchi ‘aceto RAGIONE_SOCIALE e ‘RAGIONE_SOCIALE‘, previa affrancazione ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 358 del 1997. In altri termini, nella prospettazione dell’Amministrazione finanziaria l’operazione di fusione sarebbe elusiva in quanto, sfruttandosi le agevolazioni concesse dal d.lgs. n. 358 del 1997, lo scopo reale della stessa era quello di portare in deduzione il valore dei marchi conseguiti da RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE, a seguito della fusione per incorporazione. In quest’ottica, del tutto marginale si rivelerebbe il risparmio dei costi di gestione conseguito dalla società contribuente.
2.3. La CTR ha ritenuto infondate le contestazioni di AE sulla base di due autonome rationes decidendi : a) l’Amministrazione finanziaria è decaduta dall’accertamento per decorrenza del termine quinquennale previsto dall’art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.
600; b) l’operazione di fusione appartiene alla libera scelta imprenditoriale della società contribuente, sicché non rileva che la possibilità di realizzare analoghi risparmi attraverso la liquidazione della società incorporante ovvero il conseguimento di un risparmio fiscale.
2.4. La prima ratio decidendi è impugnata da AE con il primo motivo di ricorso, che è fondato.
2.4.1. Invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, « In caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale non per l’errato computo del singolo rateo dedotto, ma a causa del fatto generatore e del presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato, e non già del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio » (Cass. S.U. n. 8500 del 25/03/2021; conf., con riferimento specifico alla fusione, si veda Cass. n. 7438 del 15/03/2023; contra Cass. n. 9993 del 24/04/2018 citata dalla controricorrente, espressione di un orientamento ormai superato).
2.4.2. Nel caso di specie il costo ammortizzabile costituito dal valore dei marchi è un costo pluriennale in relazione al quale per la decadenza prevista dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 deve aversi riguardo alla dichiarazione relativa all’anno d’imposta 2010.
2.4.3. Ne consegue la tempestività dell’avviso di accertamento, notificato il 30/09/2015 e, cioè, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, relativa all’anno d’imposta 2010, e l’erroneità della sentenza impugnata in parte qua .
2.5. Peraltro, il terzo motivo -involgente la seconda e autonoma ratio decidendi della sentenza impugnata -va disatteso, sicché la fondatezza del primo motivo non giova alla ricorrente.
2.5.1. L’operazione di fusione costituisce una scelta organizzativa che le parti hanno ritenuto di dover porre in essere senza che le finalità elusive siano da considerarsi prevalenti rispetto al vantaggio economico conseguito; in ordine al quale sussiste un accertamento di fatto del giudice di appello, che non può essere messo in discussione con la proposizione di un vizio di violazione di legge.
2.5.2. La ricorrente, infatti, pur deducendo apparentemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. n. 3340 del 05/02/2019; Cass. n. 640 del 14/01/2019; Cass. n. 24155 del 13/10/2017; Cass. n. 8758 del 04/07/2017; Cass. n. 8315 del 05/04/2013).
Ugualmente da disattendere è il secondo motivo di ricorso, concernente l’inerenza del costo sostenuto per la stipulazione del contratto con RAGIONE_SOCIALE
3.1. Secondo l’orientamento della S.C. il principio di inerenza, pur con le dovute precisazioni derivanti dall’applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia della UE per l’imposta armonizzata, è unico per le imposte dei redditi e per l’IVA (Cass. n. 18904 del 17/07/2018), si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dall’art. 109, comma 5, del medesimo d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili) (Cass. n. 450 del 11/01/2018) ed è espressione della necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’impresa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, escludendo i costi che si collocano in una sfera ad essa estranea
(Cass. 30030 del 21/11/2018; Cass. n. 27786 del 31/10/2018; Cass. n. 13882 del 31/05/2018; Cass. n. 450 del 2018, cit. ; Cass. n. 18904 del 2018, cit. ).
3.1.1. Lo stesso si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico (o di vantaggio economico) ovvero quantitativo (Cass. n. 27786 del 2018, cit. ; Cass. n. 22938 del 26/09/2018; Cass. n. 18904 del 2018, cit. ), sicché « il costo attiene o non attiene all’attività d’impresa a prescindere dalla sua entità » (così espressamente, in motivazione, Cass. n. 18904 del 2018, cit. ).
3.1.2. Peraltro, secondo il medesimo orientamento (si veda sempre la motivazione di Cass. n. 18904 del 2018, cit. ), il giudizio quantitativo o di congruità non è del tutto irrilevante, collocandosi, invece, su un diverso piano logico e strutturale rispetto al giudizio di inerenza (cfr. Cass. 27786 del 2018, cit. ).
3.1.3. Quest’ultimo implica che la prova debba investire i fatti costitutivi del costo, sicché, per quanto riguarda il contribuente, egli è tenuto a provare (e documentare) l’imponibile maturato e, dunque, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa perché in correlazione con l’attività d’impresa; prova che è tanto più complessa quanto complessa, atipica e originale è l’operazione posta in essere.
3.1.4. A sua volta, l’Amministrazione finanziaria, ove ritenga gli elementi dedotti dal contribuente mancanti, insufficienti od inadeguati ovvero riscontri ulteriori circostanze di fatto tali da inficiare la validità e/o la rilevanza di quelli allegati a fondamento dell’imputazione del costo alla determinazione del reddito, può contestare la valutazione di inerenza.
3.1.5. Ciò si traduce: a) in tema di imposte dirette, nella possibilità che l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo, contesti anche l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa (cfr. Cass. n. 13588 del 30/05/2018); b) in tema di IVA, nella possibilità per l’Amministrazione finanziaria di dimostrare la macroscopica antieconomicità del costo, rilevando questa quale indizio dell’assenza di connessione tra il costo e l’attività d’impresa.
3.2. Nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria ha contestato la congruità del costo sostenuto da RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE in ragione del fatto che il contratto stipulato con RAGIONE_SOCIALE non avrebbe dato alcun beneficio utile a fronte di costi rilevanti, anche perché i prodotti commercializzati non erano riconducibili a NOME COGNOME.
3.3. La CTR ha, da un lato, ritenuto che il costo è relativo all’attività d’impresa di Ponti e, dall’altro, ha evidenziato che il difetto di congruità del costo denunciato da AE non ha alcun riscontro fattuale, anche «a fronte dell’ineludibile collegamento tra le ricette postate sul sito della Ponti e l’attore -testimonial della stessa».
3.4. La superiore decisione del giudice di appello non merita le censure mosse da AE in quanto pienamente rispettosa dei principi di diritto più sopra enunciati. Invero, la sentenza impugnata, dopo avere evidenziato che il costo sostenuto da RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE è inerente all’attività imprenditoriale, ha altresì escluso in fatto la dedotta incongruità della prestazione e, ancora una volta, la ricorrente tende a mettere in discussione il suddetto accertamento con la proposizione di un vizio di violazione di legge.
In conclusione, nonostante l’astratta fondatezza del primo motivo, il ricorso va nel suo complesso rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento in favore della
contro
ricorrente, delle spese del presente procedimento, liquidate come in dispositivo avuto conto di un valore dichiarato della lite di euro 493.574,00.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di lite, che si liquidano in euro 10.800,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, ad euro 200,00 per spese borsuali e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 23/10/2024.