Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32887 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 32887 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
ha emesso la seguente ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 4077/2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli Avv.ti NOME COGNOME (indirizzo Pec: EMAILpec.kstudioassociato.it) e NOME COGNOME (indirizzo PecEMAILpec.kstudioassociatoEMAILit).
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Dogane dei Monopoli, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 2167/2023, depositata in data 7 luglio 2023, non notificata; udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 25 settembre 2024, dal Consigliere NOME COGNOME udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito, per la parte ricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso per cassazione; NOME COGNOME che ha chiesto udito per la parte controricorrente, l’Avv. il rigetto del ricorso per cassazione;
FATTI DI CAUSA
La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello dell’Ufficio e, per l’effetto, ha riformato la sentenza di primo grado, rigettando il ricorso della società RAGIONE_SOCIALE avverso il silenzio-rifiuto opposto dall’Agenzia delle Dogane all’istanza di rimborso presentata per maggiori dazi doganali corrisposti in eccedenza per royalties, all’atto della importazione di merci nel periodo agosto-settembre 2017, nonché negli anni 2018 e 2019.
I giudici di secondo grado, in particolare, hanno affermato che:
-) risultava agli atti, contrariamente a quanto affermato dai giudici di primo grado, che la controversia tra le parti verteva anche sulla daziabilità (sussistendo i presupposti di legge) delle royalties dovute dalla società RAGIONE_SOCIALE con riferimento alle merci della cui importazione si trattava;
-) nel caso in esame, trattandosi di ripetizione di indebito (ex art. 2033 cod. civ., avendo, all’epoca, la COGNOME spontaneamente provveduto al pagamento dei dazi tenendo conto anche delle royalties, nella determinazione del valore delle merci importate), sarebbe stato onere
della medesima ricorrente allegare e dimostrare la insussistenza delle condizioni di cui innanzi, per le quali il pagamento delle royalties potesse considerarsi «condizione della vendita» nel senso di cui alla normativa UE (e non, viceversa, onere dell’Agenzia delle Dogane provare il contrario, ovvero la presenza di un controllo, anche solo di fatto, diretto o indiretto, della licenziante sul produttore/venditore asiatico), e segnatamente (per quanto allegato) che i titolari dei diritti di licenza sui marchi non esercitassero alcun controllo od il loro controllo fosse solo un «controllo di qualità» sulle merci prodotte all’estero;
-) una prova siffatta non era stata fornita dalla società RAGIONE_SOCIALE, che si era limitata, come risultava dagli atti, ad invocare l’autorità della sentenza n. 10687 del 2020 della Corte di cassazione, riguardante altre non meglio precisate operazioni di importazione effettuate dalla stessa società RAGIONE_SOCIALE nel corso degli anni (in epoca certamente anteriore rispetto a quelle di cui si discuteva, risalendo in quel caso al 2016 la sentenza resa in appello dalla Commissione tributaria regionale), e peraltro coeva ad altre a sé sfavorevoli (Cass., nn. 10685 e 10686 del 2020);
-) la società RAGIONE_SOCIALE aveva dedotto l’indebito versamento dei diritti doganali sulle royalties con riferimento ad una serie di importazioni di merce cumulativamente individuate in relazione al periodo di esecuzione, anziché allegare dettagliatamente (come sarebbe stato suo onere) le singole operazioni di importazione oggetto della pretesa restitutoria e fornire, in relazione a ciascuna di esse, elementi idonei a dimostrare l’assenza dei presupposti per la configurabilità del pagamento delle royalties come «condizione della vendita» nel senso anzidetto (con conseguente non assoggettamento del relativo importo ai diritti doganali).
La società RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli resiste con controricorso.
La società RAGIONE_SOCIALE ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 70, 71 e 72 Reg. Ue 952/2013 e dell’art. 136 Reg. Ue 2447/2015 , in quanto la sentenza impugnata si fondava su una ricostruzione della normativa unionale del tutto parziale e comunque erronea. In particolare la normativa e la prassi comunitaria richiedevano, ai fini della daziabilità delle royalties, la sussistenza di un «collegamento», ossia, una sorta di «interdipendenza» fra il contratto di vendita delle merci (stipulato tra l’importatore/acquirente e il fornitore/venditore) e il contratto di licenza (stipulato tra la licenziataria/acquirente/importatore e la licenziante) ed inoltre che il licenziante esercitasse un controllo sulla produzione delle merci importate che travalicasse il mero controllo di qualità. Sul punto, occorreva evidenziare che la verifica della sussistenza della condizione alla vendita, anche nel rapporto trilaterale, doveva essere effettuata non secondo criteri astratti, ma prendendo in considerazione le specifiche pattuizioni contenute nei contratti stipulati dal licenziante, come previsto anche dalle Linee Guida Unionali. I giudici di secondo grado avevano fondato la propria decisione sul requisito del «controllo», da parte dei licenzianti sui fornitori esteri, non esaminando tutti gli altri elementi previsti dai Regolamenti unionali e dai «nuovi» documenti di prassi per assumere la propria decisione. Peraltro il Commento n. 11 utilizzato dai giudici di secondo grado per definire la nozione di «controllo» ai sensi dell’art. 143 del DAC. non aveva alcuna rilevanza e, in ogni caso, la Commissione Europea aveva ritenuto di sopprimere il Commento n. 11 contenuto nella «Raccolta dei testi sul valore in Dogana» pubblicato nel TAXUD-800-2002-EN (versione aggiornata a settembre 2008) che, infatti, non era stato
riproposto nella versione aggiornata del «Compendium of Customs Valuation texts -Edition 2018» e nelle successive edizioni del 2021 e 2022. La questione in esame doveva, pertanto, essere risolta non più sulla base di una prassi interpretativa, bensì avendo riguardo alla formulazione letterale delle norme contenute nel Codice Doganale Unionale e nel relativo Regolamento di Esecuzione, con la conseguenza che non rilevava più la circostanza di fatto che si configurasse uno o più degli elementi indicativi di un presunto «controllo» tra licenziante e fornitore ma, al fine di determinare la daziabilità dei diritti di licenza corrisposti dalla licenziataria alla licenziante, si doveva verificare la sussistenza di una «condizione alla vendita» delle merci destinate all’esportazione verso l’Unione Europea, come disciplina ta nel Codice Doganale Unionale e nel Regolamento di Esecuzione. In ogni caso, la s ocietà chiedeva, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, di deferire alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale in merito alla mancata trasposizione del Commento n. 11, nella versione aggiornata, del «Compendium of Customs Valuation texts -Edition 2018», e nelle successive edizioni del 2021 e del 2022, e alla sua inutilizzabilità al fine di determinare la daziabilità o meno delle royalties corrisposte in forza di un contratto di licenza, che doveva essere verificata avendo esclusivo riguardo unicamente alla disciplina contenuta nelle previsioni normative di riferimento che richiedevano una valutazione congiunta del contratto di licenza e dell’accordo di vendita concluso tra la licenziataria ed i singoli produttori, ponendo l’accento sulla necessaria sussistenza, nel contratto di licenza , di riferimenti alla vendita e, viceversa, nell’accordo di vendita, di clausole contrattuali relative al rapporto di licenza, elementi che, nel caso di specie, non sussistevano.
1.1 Il motivo è inammissibile per difetto del requisito dell’attinenza della censura alla ratio decidendi della sentenza impugnata, avendo la Commissione tributaria regionale affermato che la società ricorrente
non aveva fornito la prova della sussistenza dei presupposti dell’istanza di rimborso dalla stessa presentata e, più specificamente, che trattandosi di ripetizione di indebito (ex art. 2033 cod. civ., avendo, all’epoca, la COGNOME spontaneamente provveduto al pagamento dei dazi, tenendo conto anche delle royalties nella determinazione del valore delle merci importate), sarebbe stato onere della medesima ricorrente allegare e dimostrare l ‘ insussistenza delle condizioni per le quali il pagamento delle royalties potesse considerarsi «condizione della vendita» nel senso di cui alla normativa UE (e non, viceversa, onere dell’Agenzia delle Dogane provare il contrario, ovvero la presenza di un controllo, anche solo di fatto, diretto o indiretto, della licenziante sul produttore/venditore asiatico), e segnatamente (per quanto allegato) che i titolari dei diritti di licenza sui marchi non esercitassero alcun controllo od il loro controllo fosse solo un «controllo di qualità» sulle merci prodotte all’estero; i giudici di secondo grado hanno evidenziato, inoltre, che la prova non era stata fornita dalla società RAGIONE_SOCIALE, che si era limitata, come risultava dagli atti, ad invocare l’autorità della sentenza n. 10687 del 2020 della Corte di cassazione, riguardante altre non meglio precisate operazioni di importazione effettuate dalla stessa società RAGIONE_SOCIALE nel corso degli anni (in epoca certamente anteriore rispetto a quelle di cui si discuteva, risalendo in quel caso al 2016 la sentenza resa in appello dalla Commissione tributaria regionale), e peraltro coeva ad altre a sé sfavorevoli (Cass., nn. 10685 e 10686 del 2020) (cfr. pagine 3 e 4 della sentenza impugnata).
1.2 E’, infatti, incontroverso che la società RAGIONE_SOCIALE, in data 31 luglio 2020, provvedeva a richiedere all’Amministrazione doganale il rimborso -ai sensi dell’articolo 117, paragrafo 1, del Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, e, contestualmente, la revisione dell’accertamento ai sensi dell’articolo 173, paragrafo 3, del medesimo Codice Doganale Unionale
e dell’articolo 11 del decreto legislativo n. 374 dell’8 novembre 1990, a titolo di maggiori diritti doganali, per un importo complessivo pari ad euro 26.772,02, in ragione dell’inclusione nel valore doganale dei diritti di licenza versati alle l icenzianti all’atto dell’importazione dei prodotti con le dichiarazioni doganali relative al periodo compreso tra il mese agosto ed il mese di novembre 2017 e dalle dichiarazioni doganali relative alle annualità 2018 e 2019, segnalando come proprio i Giudici di legittimità, nella sentenza n. 10687/20 del 5 giugno 2020 (in atti), avessero escluso la sussistenza dei presupposti normativi previsti per la daziabilità dei diritti di licenza qualora, come nel caso di specie, le licenzianti non esercitavano alcuna forma di controllo sui singoli produttori non comunitari liberamente scelti dalla RAGIONE_SOCIALE (cfr. pagina 4 del ricorso per cassazione).
1.3 Invero, in tema di ricorso per cassazione è necessario che venga contestata specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass., 14 febbraio 2012, n. 2091; Cass., 10 agosto 2017, n. 19989). Più precisamente, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi eserci ta il diritto d’impugnazione, la dec isione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicitato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nella specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata; queste ultime, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo il motivo che non rispetti questo requisito;
in riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un ≪ non motivo ≫ , è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’ art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. (Cass., 14 marzo 2017 n. 6496; Cass., 31 agosto 2015, n. 17330).
1.4 Peraltro, la decisione impugnata, sul punto, è conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte che ha ribadito, anche di recente, che il rimborso di imposta dà, invero, origine ad un rapporto giuridico nel quale – con una netta inversione dei ruoli rispetto allo schema paradigmatico del rapporto tributario – è il contribuente a rivestire il ruolo attivo, assumendo nei confronti dell’Erario la posizione di creditore di una determinata somma di denaro, per il fatto di avergliela in precedenza versata (Cass., 3 luglio 2023, n. 18644; Cass., 2 settembre 2022, n. 25999; Cass., 3 marzo 2020, n. 5827).
2. Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia, ovvero i giudici di secondo grado non avevano valutato che la sentenza n. 10687 del 2020 riguardava i medesimi contratti di cui alla presente controversia, che gli Uffici delle Dogane di Verona e Modena aveva concesso il rimborso dei dazi con riferimento ai medesimi contratti oltre al fatto che tali contratti, prodotti in giudizio, non prevedevano alcun legame tra il pagamento delle royalties e la vendita da parte dei produttori esteri, né un controllo dei licenzianti su questi ultimi. I Giudici di secondo grado avevano erroneamente ritenuto che la società RAGIONE_SOCIALE avesse posto a fondamento dell’impugnazione del silenzio rifiuto opposto dalla Dogana all’istanza di rimborso solo ed esclusivamente la sentenza n. 10687 del 2020, senza prendere minimamente in considerazione tutte le argomentazioni, di fatto e di diritto, esposte nei propri scritti difensivi né la documentazione prodotta dalla stessa società e dall’Ufficio delle Dogane nei giudizi di merito. Invero, la società, fin dal primo grado di giudizio, aveva sostenuto che, nel caso di specie, non sussistevano i
presupposti per la daziabilità delle royalties in quanto il loro pagamento era del tutto scollegato dalla produzione dei prodotti importati e i contratti di licenza d’uso dei marchi sottoscritti da lla società RAGIONE_SOCIALE non prevedevano alcun «controllo» dei licenzianti sui produttori/fornitori esteri. I Giudici di secondo grado avevano omesso di analizzare le clausole dei contratti di licenza d’uso dei marchi, acquisiti agli atti in quanto richiamati nell’istanza di rimborso allegata al ricorso di primo grado della s ocietà ed inoltre prodotti dall’Ufficio delle Dogane, ovvero i contratti di licenza con RAGIONE_SOCIALE, con RAGIONE_SOCIALE, nonché con RAGIONE_SOCIALE. Analizzando le clausole dei contratti sopra citati non si poteva che giungere alle medesime conclusioni cui era già giunta la Suprema Corte nella sentenza n. 10687 del 2020, ma anche la stessa Amministrazione doganale nei processi verbali di revisione dell’accertamento emessi dagli Uffici delle Dogane di Verona e Modena, che avevano riconosciuto il diritto della società RAGIONE_SOCIALE ad ottenere il rimborso dei dazi calcolati tenendo conto delle royalties corrisposte in relazione ai medesimi contratti.
2.1 Il motivo è inammissibile, atteso che il denunciato vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo per il giudizio (Cass., Sez. U., sentenza 7 aprile 2014, n. 8053). In particolare, questa Corte ha chiarito che il fatto storico prospettato, inteso come un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, deve essere decisivo, ovvero per potersi configurare il vizio è necessario che la sua assenza conduca, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data, vale a dire un fatto che
se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 14 novembre 2013, n. 25608). Inoltre, il vizio dedotto, non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24035; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 23 maggio 2014, n. 11511); né la Corte di cassazione può procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass., 7 gennaio 2014, n. 91; Cass., Sez. U., 25 ottobre 2013, n. 24148). Peraltro, questa Corte ha anche affermato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del decreto legge n. 83/2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 134/2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass., 14 giugno 2017, n. 14802).
2.2 Ciò posto, la doglianza della società ricorrente, secondo cui i giudici di secondo grado non avevano valutato che la sentenza n. 10687/2020 riguardava i medesimi contratti di cui alla presente controversia, che gli Uffici delle Dogane di Verona e Modena avevano concesso il rimborso dei dazi con riferimento ai medesimi contratti oltre al fatto che tali contratti, prodotti in giudizio non prevedevano alcun legame tra il pagamento delle royalties e la vendita da parte dei produttori esteri né un controllo dei licenzianti su questi ultimi, non prospetta alcun riferimento a fatti controversi, nella accezione indicata e ciò senza prescindere dalla duplice circostanza che la sentenza della
Cassazione richiamata n. 10687 del 2020 aveva ad oggetto avvisi di accertamento e non il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso e che, in ogni caso, come rilevato dai giudici di secondo grado, nei giudizi instaurati dalla società RAGIONE_SOCIALE la Corte di Cassazione aveva emesso, in pari data (5 giugno 2020) anche le sentenze nn. 10865 e 10686 del 2020 favorevoli all’Amministrazione .
2.3 Ed invero, in proposito, è necessario specificare che la causa in esame riguarda bollette doganali afferenti ad operazioni doganali diverse rispetto a quelle oggetto della causa n. 10687 del 2020 (come correttamente rilevato dai giudici di secondo grado alle pagine 3 e 4 della sentenza impugnata), ciò che rende diverso il « petitum » degli avvisi di accertamento oggetto di impugnazione nelle rispettive cause. Dunque, nel caso di specie, il fatto generatore dell’imposta è retto dalla dichiarazione in dogana e sul valore doganale delle merci importate oggetto della bolletta doganale; vi è, pertanto, una dichiarazione doganale, atto con il quale il soggetto interessato manifesta la volontà di vincolare quelle determinate merci dichiarate ad uno specifico regime doganale e la merce dichiarata è proprio quella oggetto della dichiarazione, con il valore doganale esposto in dichiarazione (Cass., 26 febbraio 2019, n. 5560).
2.4 Inoltre, questa Corte ha pure affermato che, nella specifica materia doganale, non sussiste un equipollente alla « diversità di periodo d’imposta », che, sicuramente, non è identificabile nel compimento delle singole operazioni doganali e ha statuito il principio di diritto secondo cui « In tema di sanzioni doganali è inapplicabile il regime della continuazione di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 472 del 1997, che postula che le violazioni siano state “commesse in periodi d’imposta diversi”, nozione questa estranea alla materia doganale, senza che ad essa possa ritenersi equivalente il compimento delle singole operazioni d’importazione o esportazione » (Cass., 21 settembre 2020, n. 19663), il che esclude, al contempo, la
problematica della configurabilità, nella vicenda in esame, dell’istituto del giudicato esterno in caso di situazioni giuridiche di durata, (nella specie, per quanto rilevato, del tutto assenti), che, come già affermato, opera in presenza di elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta, assumono carattere tendenzialmente permanente.
2.5 Come già precisato da questa Corte « Qualora uno dei giudizi, riguardante il medesimo rapporto giuridico tra le stesse parti, sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto già accertato e risolto, benché il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo » (Cass., 24 gennaio 2024, n. 2387); inoltre « Il giudicato esterno opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione, presupponendo che soggetti, petitum e causa petendi siano comuni alla causa anteriore e a quella successivamente intrapresa. Per converso, la mera identità delle questioni giuridiche o di fatti da esaminare non crea alcun vincolo a carico del giudice investito del secondo giudizio – non applicandosi la regola dello “stare decisis” -, ma è al più suscettibile di venire in considerazione ai fini della condivisione delle argomentazioni svolte nella precedente sentenza, nella misura in cui le stesse appaiano pertinenti anche alla fattispecie oggetto del nuovo giudizio e risultino dotate di efficacia persuasiva tale da giustificare l’adesione ad esse » (Cass., 4 gennaio 2024, n. 211)
2.6 Né può farsi richiamo al principio, più volte enunciato in sede di legittimità, in forza del quale « se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio,
costituisce il presupposto logico -giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e pertanto spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto (Cass., Sez. 3, 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., Sez. L, 14 agosto 1999, n. 8680; Cass., Sez. 3, 29 settembre 1997, n. 9548; Cass., Sez. L, 13 maggio 1995, n. 5243; Cass., Sez. 1, 22 novembre 1990, n. 11277) » (Cass., 14 giugno 2024, 16618, in motivazione), in quanto, per quanto rilevato, tale principio postula che i giudizi interessati siano fra le stesse parti e vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, ancorché le finalità dei due giudizi siano diverse, evenienza che non sussiste nella fattispecie in esame. Solo in tal caso « la denuncia di violazione del giudicato esterno attribuisce poi a questa Corte il potere di «accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito » (Cass., Sez. U., 28 novembre 2007, n. 24664).
2.7 Ciò posto, osserva la Corte che, nel caso di specie, non sia invocabile l’autorità del giudicato sostanziale esterno che opera, come già detto, entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione, e presuppone, quindi, che la causa precedente e quella in atto abbiano in comune, oltre ai soggetti, anche il petitum e la causa petendi , restando irrilevante, a tal fine, l’eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione (cfr. Cass., 1 marzo 2024, n. 5515; Cass., 7 giugno 2021, n. 15817; Cass., 25 giugno 2018, n. 16688; Cass., 24 marzo 2014, n. 6830).
Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 7, comma 5bis , del decreto legislativo n. 546 del 1992. La
società ricorrente aveva ottemperato al proprio onere probatorio allegando l’istanza di rimborso , con la relativa documentazione, la sentenza della Suprema Corte resa in analoga vertenza in senso favorevole all’esponente e i provvedimenti di rimborso emessi dagli Uffici delle Dogane di Verona e Modena con riferimento ai medesimi contratti di cui alla presente controversia, documentazione che non era stata considerata dai Giudici di secondo grado, fatta eccezione per la sola sentenza della Suprema Corte n. 10687 del 2020. I Giudici di secondo grado avevano affermato erroneamente che la società ricorrente avrebbe dovuto allegare «dettagliatamente» le singole operazioni di importazione e fornire in relazione ad esse le prove dell’assenza dei presupposti per la daziabilità «nel senso anzidetto», ossia dimostrare l’insussistenza di un controllo da parte dei licenzianti sui fornitori, non comprendendo, tuttavia, che non occorreva la prova dell’assenza del controllo di cui sopra (che comunque era stata fornita dall’esponente ), ma piuttosto doveva essere dimostrata l’insussistenza della riferibilità delle royalties alle merci importate e del legame tra il pagamento dei diritti di licenza e la vendita da parte del produttore estero, come richiesto dalla normativa vigente in materia e tale prova era stata fornita dalla società ricorrente con i contratti di licenza d’uso dei marchi, richiamati nell’istanza di rimborso e prodotti in giudizio dall’Ufficio, e con i provvedimenti emessi dagli Uffici doganali di Verona e Modena, ritualmente prodotti in giudizio. La Commissione tributaria regionale aveva pure violato l ‘art. 7, comma 5 bis , del decreto legislativo n. 546 del 1992, non avendo considerato tutti gli elementi di prova emersi nel corso del giudizio che, se analizzati, avrebbero portato al riconoscimento del diritto al rimborso della società.
Il quarto motivo, deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 70, 71 e 72 Reg. Ue 952/2013 e degli artt. 136 Reg. Ue 2447/2015, oltre che degli artt. 2697 cod. civ. e 7, comma 5bis , del decreto legislativo n.
546 del 1992, perché la motivazione della sentenza si palesava apparente in quanto contraddittoria, laddove aveva affermato dapprima che il controllo da parte dei licenzianti sui produttori esteri non fosse un elemento dirimente ai fini della daziabilità delle royalties, e poi aveva concluso che la società avrebbe dovuto dimostrare proprio l’insussistenza di tale controllo per fornire la prova del proprio diritto al rimborso dei dazi.
4.1 Il terzo e il quarto motivo, che devono essere trattati unitariamente in quanto connessi, sono infondati, avendo la società ricorrente prospettato la violazione del disposto di cui all’art. 2697 cod. civ., ancorché il giudice di appello non abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata, secondo le regole di scomposizione della fattispecie in esame contraddistinta dalla presentazione dell’istanza di rimborso ( Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769).
4.2 Nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale ha ritenuto, correttamente, che trattandosi di ripetizione dell’indebito, avendo la società spontaneamente provveduto al pagamento dei dazi, tenendo conto, anche delle royalties, nella determinazione del valore delle merci importate, era onere della stessa società allegare e dimostrare la insussistenza delle condizioni di vendita per le quali il pagamento delle royalties potesse considerarsi condizione della vendita nel senso di cui alla normativa UE e, più in particolare, che i titolari dei diritti di licenza sui marchi non esercitassero alcun controllo o il loro controllo fosse un « controllo di qualità » sulle merci prodotte all’estero , e che una prova siffatta non era stata fornita dalla società ricorrente, appellata, che si era limitata a invocare l’autorità della sentenza della Corte di Cassazione n. 10687 del 2020, che riguardava altre operazioni di importazioni, nemmeno precisate, in epoca certamente anteriore a quella in discussione nella vicenda in esame e, peraltro, come già detto, coeva ad altre a sé sfavorevoli (Cass. nn. 10865 del 2020 e 10686 del
2020); i giudici di secondo grado, dunque, con un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, hanno affermato che la società ricorrente non aveva assolto l’onere, sulla stessa incombente, di allegare dettagliatamente le singole operazioni di importazione oggetto della pretesa restitutoria e di fornire, in relazione a ciascuna di esse, elementi idonei a dimostrare l’assenza dei presupposti per la configurabilità del pagamento delle royalties come «condizione della vendita», con conseguente assoggettamento del relativo importo ai diritti doganali (cfr. pagine 3 e 4 della sentenza impugnata).
4.3 Le censure proposte (violazione di legge e vizio di motivazione) sono pure inammissibili, perché, lungi dal denunciare l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa in quella astratta recata da una norma di legge o l’omesso esame di fatti decisivi, mirano in realtà ad ottenere una diversa ricostruzione dei fatti di causa, censurando la negata congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova acquisiti, che correttamente ha ritenuto non provati i presupposti per il non assoggettamento dell’importo dei diritti doganali nel valore delle merci oggetto di importazione sulla base della sentenza di questa Corte n. 10687 del 2020.
4.4 In proposito, questa Corte ha affermato il principio secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass., 4 agosto 2017, n. 19547; Cass., 4 aprile2017, n. 8758; Cass., 2 agosto 2016, n. 16056; Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., 4 marzo 2021, n. 5987).
4.5 Quanto all’incidenza al caso di specie della nuova previsione in materia di onere probatorio, di cui al comma 5 bis dell’art. 7 del decreto
legislativo n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della legge n. 130 del 2022, cui la società ricorrente ha fatto riferimento, deve osservarsi che, come già precisato da questa Corte « In tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della legge n. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale ». questa Corte (Cass., 27 ottobre 2022, n. 31878) e che « La nuova formulazione legislativa, che prevede che ‘L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impo sitivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni’, non costituisce abrogazione, neppure implicita, dell’utilizzo delle presunzioni non legali in materia tributaria e, precisamente, delle presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., ma detta al giudice tributario le regole di valutazione della prova, stabilendo che se questa, anche presuntiva, fornita dall’amministrazione finanziaria, quando ne è onerata, è contraddittoria o insufficiente, allora il giudice deve annullare l’atto impositivo, e allo stesso modo dovrà fare quando addirittura essa manchi, come, invero superfluamente, pure prevede la disposizione in esame» (Cass., 13 giugno 2024, n. 16493).
4.6 A quanto detto aggiungasi che tale disposizione ha chiaramente natura sostanziale posto che, in base al consolidato orientamento
giurisprudenziale di legittimità, sono tali le norme che, come quella in esame, consistono in regole di giudizio la cui applicazione comporta una decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda, mentre hanno carattere processuale le disposizioni che disciplinano i modi di deduzione, ammissione e assunzione delle prove (cfr. Cass., 17 luglio 2018, n. 18912). Ne consegue che la disposizione in esame, di natura sostanziale e senza alcuna valenza interpretativa di altre disposizioni in tema di valutazione delle risultanze probatorie, non ha efficacia retroattiva e, quindi, si applica, ai giudizi iniziati successivamente al 16 settembre 2022, data di entrata in vigore dell’art. 6 della legge n. 130 del 2022 che l’ha introdotta, per la quale il successivo art. 8, dettato in materia di « disposizioni transitorie e finali », non prevede una diversa decorrenza (cfr. Cass., 13 giugno 2024, n. 16493, citata, in motivazione) e, nel caso di specie, il ricorso introduttivo di primo grado è stato presentato decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione dell’istanza di rimborso, in data 31 luglio 2020 (cfr. pagine 3 e 4 del ricorso per cassazione).
5. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della
società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 25 settembre 2024.