Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 819 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 819 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 09/01/2024
ORDINANZA
Sul ricorso n. 20958-2019, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (cf. NUMERO_DOCUMENTO), in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME dal quale, unitamente agli avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME, è rappresentata e difesa –
Ricorrente
CONTRO
AGENZIA DELLE DOGANE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Controricorrente Avverso la sentenza n. 4/12/2019 della Commissione tributaria regionale della Emilia-Romagna, depositata il 3.01.2019; del 21 giugno udita la relazione della causa svolta nell ‘adunanza camerale 2023 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che
Dalla sentenza e dal ricorso si evince che l ‘Agenzia delle dogane e dei monopoli sottopose a revisione d’accertamento sette bollette doganali di
Dogane -Dazi antidumping
importazione di elementi di fissaggio (viti e bulloni) in ferro ed acciaio inossidabili, dichiarate di origine e di provenienza dalla Malesia. La merce risultava munita di certificati di origine preferenziale ‘SPG Form A’, rilasciate dalle autorità malesi, e come tale era stata ammessa a fruire del trattamento preferenziale.
A seguito di una indagine avviata dall’Olaf era tuttavia emerso che la merce risultava effettivamente prodotta da società cinesi ed immessa nella zona franca di Port Klang, ove, previo trasbordo in contenitori occultanti la provenienza effettiva, era poi esportata nei Paesi europei.
Emergendo dunque l’evasione delle misure antidumping, disposte con Reg. CE n. 91/2009 del 26 gennaio 2009, l’Agenzia delle dogane em ise gli avvisi di rettifica per il recupero dei maggiori diritti evasi ed in particolare gli atti nn. 7660/RU e 7661/RU.
Seguì il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ravenna, che con sentenza n. 621/02/2014 accolse in parte le ragioni della società, annullando l’atto n. 7661/RU -per l’intervenuta decadenza dal potere d’accertamento dell’ufficio -e confermando l’atto n. 7660/RU.
Entrambe le parti, ciascuna per quanto soccombente, impugnarono la pronuncia dinanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia -Romagna. Con sentenza n. 4/12/2019 il giudice di secondo grado respinse entrambi gli appelli. Per quanto qui ancora di interesse ha ritenuto che la revisione dell’accertamento, contenuta nell’avviso n. 7660/RU, era da considerarsi tempestiva per mancato decorso del termine triennale, di cui all’art. 84 del d.P.R. 23 gennaio 1993, n. 43, né ricorrevano tutte le condizioni ric hieste dall’art. 220 del Reg. CE n. 2913/1992, mancando nel caso di specie la riconducibilità dell’omessa contabilizzazione dei dazi ad un errore dell’autorità doganale. Ha ritenuto inoltre palese la condotta elusiva della normativa doganale tenuta dalla società importatrice.
La società ha censurato la sentenza con tre motivi e ne ha chiesto la cassazione, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle dogane.
All’esito dell’adunanza camerale del 21 giugno 2023 la causa è stata riservata e decisa.
Considerato che
il primo motivo la società ha denunciato l’omesso esame del Regolamento UE n. 278/2016, «fatto decisivo per il giudizio e oggetto di
RGN 20958/2019 Consigliere rel. NOME Con
discussione tra le parti», in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.
Il motivo, che, quanto al richiamo formale al vizio di motivazione, sarebbe inammissibile perché un regolamento non costituisce un ‘ fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali ‘, dal tenore della stessa critica va invece ricondotto all’errore nell’interpretazione d i norme di diritto.
Esso è comunque infondato.
La ricorrente sostiene che l’art. 2 del Regolamento di esecuzione 2016/278 della Commissione, del 26 febbraio 2016, in materia di dazi antidumping sull’importazione di elementi di fissaggio in ferro o acciaio, secondo cui «l’abrogazione dei dazi antidumping di cui all’articolo 1 prende effetto a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, come disposto all’articolo 3, e non consente il rimborso dei dazi riscossi prima di tale data», sarebbe da interpretarsi nel senso di prescrivere il rimborso dei dazi riscossi prima della sua entrata in vigore (28.02.2016) quando relativi ad atti non ancora definitivi.
Si tratta di una interpretazione del tutto eccentrica rispetto al dato letterale, che fissa in modo non equivoco un principio riferibile a qualunque versamento dei dazi, che sia avvenuto in epoca anteriore all’abrogazione della disciplina antidumping in materia.
Nel caso di specie si tratta di un pagamento eseguito in epoca anteriore al 28 febbraio 2016 e per importazioni relative ad epoca in cui il dazio antidumping era in vigore, così che della norma invocata risulta coerente solo una lettura di rigorosa esclusione del rimborso di quanto già versato.
Con il secondo motivo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 220 Regolamento CEE del Consiglio, del 12 ottobre 1992, perché erroneamente il giudice regionale non ha considerato che la mancata contabilizzazione derivava da un errore delle stesse autorità doganali. Le autorità malesi avrebbero potuto verificare l’origine delle merci.
Anche tale motivo è infondato.
Premesso che l’art. 220 del reg. n. 2913/1992, al comma 2, lett. b, prevede che non si procede a contabilizzazione posteriore quando «l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal
debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana», il caso di specie esula da tale prescrizione.
Si è infatti affermato che in tema di dazi doganali, ove venga accertata la falsità dei certificati di origine della merce (fattispecie corrispondente a quella per cui è causa), le autorità devono procedere alla loro contabilizzazione “a posteriori”, salvo che l’importatore fornisca la prova delle condizioni richieste dall’art. 220, par. 2, lett. b), del cd. Codice doganale comunitario, senza che, rispetto allo stato soggettivo di buona fede, assuma rilevanza l’effettiva consapevolezza da parte dello stesso circa la veridicità delle informazioni fornite dall’esportatore alle autorità del proprio Stato, essendo, piuttosto, il debitore tenuto a dimostrare che, per tutta la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con la diligenza qualificata richiesta, in ragione dell’attività professionale di importatore svolta, ex art. 1176, comma 2, c.c., per verificare la ricorrenza delle condizioni per il trattamento preferenziale, mediante un esigibile controllo sull’esattezza delle informazioni rese dall’esportatore (Cass., 23 maggio 2018, n. 12719).
D’altronde, nel circoscrivere il concetto di buona fede dell’operatore -compreso anche il rappresentante indiretto-, cui è imputabile la dichiarazione fatta in dogana, si era già affermato che l’esenzione prevista dall’art. 220, comma secondo, lett. b), del Codice doganale comunitario, che preclude la contabilizzazione “a posteriori” dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore, intende tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare o meno i dazi. Per essere applicata, essa tuttavia richiede un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buona fede, che va dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova di tutti i presupposti necessari perché resti impedito il recupero daziario, ossia: a) un errore imputabile alle autorità competenti; b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c) l’osservanza da parte del debitore di
tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente (cfr. Cass., 27 marzo 2013, n. 7702; 26 febbraio 2019, n. 5560; 21 febbraio 2020, n. 4639).
Q uanto all’errore imputabile all’autorità competente, con riguardo all’applicabilità dei dazi “antidumping” e ai fini dell’integrazione delle condizioni di cui all’art. 220, par. 2, lett. b), cit., l’errore delle autorità doganali non è integrato dalla mera ricezione di dichiarazioni inesatte, in quanto l’Amministrazione non è tenuta a verificarne o valutarne la veridicità, ma richiede un comportamento attivo delle autorità medesime. Ciò perché la comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze dei comportamenti scorretti dei fornitori ed il legittimo affidamento è protetto solo quando siano state tali autorità ad avere determinato i presupposti sui quali si basa la fiducia dell’importatore, che, per tutta la durata delle operazioni commerciali, abbia agito con la diligenza professionale richiesta dall’art. 1176, comma 2, cod. civ. per verificare la ricorrenza delle condizioni del trattamento preferenziale, mediante un esigibile controllo sull’esattezza delle informazioni rese dall’esportatore (Cass., 12 febbraio 2019, n. 4059; 3 maggio 2019, n. 11631; 22 marzo 2019, n. 8161; 28 giugno 2019, n. 17501; 17 dicembre 2019, n. 33314).
In riferimento poi alla rigorosa perimetrazione dello spazio entro cui l’esimente può essere fatta valere, è altrettanto significativa l’affermazione, secondo cui, in tema di dazi all’importazione, il certificato di origine della merce, pur se ritenuto inizialmente veritiero dall’Autorità doganale di uno Stato membro, non preclude l’esercizio di controlli “a posteriori” finalizzati a confermarne la veridicità, in quanto, alla luce del sesto considerando del codice doganale comunitario di cui al reg. CEE n. 2913 del 1992 (come interpretato dalla sentenza della Corte di Giustizia 15 settembre 2011, in causa C-138/10), la suddetta autorità, al momento dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni in dogana, non si pronuncia sulle informazioni fornite dal dichiarante, di cui quest’ultimo si assume la responsabilità, spettando all’importatore dare prova anche della sua buona fede (Cass., 11 settembre 2019, n. 22647).
RGN 20958/2019 Consigliere rel. NOME Questi i risultati dell ‘ elaborazione ermeneutica della disciplina in materia, cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità, il giudice regionale si è attenuto ai principi ora illustrati, così che le censure mosse alla sentenza
dalla contribuente sono inaccoglibili, emergendo, come evidenziato in sentenza (primo periodo, ultima pagina), che nel caso di specie mancava l’errore attivo dell’autorità doganale , e dunque il primo dei presupposti per procedere alla contabilizzazione a posteriori al fine del recupero daziario. Né la difesa della società si è nel concreto spinta oltre la denuncia della mancanza di una verifica puntu ale e specifica dell’OLAF, in tal modo peraltro tentando di rivalutare il merito della vicenda.
Con il terzo motivo la società lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 Regolamento CE n. 1225/2009 del Consiglio, del 30 novembre 2009, nonché dei Regolamenti UE n. 966/2010 della Commissione del 27 ottobre 2010 e del Regolamento di esecuzione UE n. 723/2011 del Consiglio, del 18 luglio 2011, perché erroneamente il giudice regionale, così come il giudice di primo grado, non avevano considerato che le dichiarazioni doganali erano state presentate ed accettate in data anteriore al 29 ottobre 2010, in cui era entrato in vigore il regolamento n. 966/2010, inapplicabile dunque nel caso di specie.
Il motivo non coglie nel segno poiché, come peraltro evidenziato dalla difesa della Agenzia delle dogane, alla contabilizzazione ‘a posteriori’ e agli avvisi di rettifica per cui è causa, l’ufficio aveva provveduto per la accertata provenienza degli elementi di fissaggio dalla Cina, e ciò in forza del Regolamento CE n. 91/2009 del 26 gennaio 2009, senza mai invocare i regolamenti indicati invece dalla contribuente per supportare la rettifica e la maggiore pretesa daziaria.
Il ricorso in definitiva va integralmente rigettato.
Alla soccombenza segue la condanna della società al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in favore dell’Ufficio nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nell’importo di € 7.800,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, il giorno 21 giugno 2023