Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 30320 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 30320 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/11/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 11806-2024, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione (c.f. 02796770549), in persona del liquidatore p.t., elettivamente domiciliata al seguente indirizzo di posta elettronica certificata EMAIL, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf CODICE_FISCALE, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 6174/03/2023 della Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Campania, depositata il 7 novembre 2023;
udita la relazione della causa svolta nell’ adunanza camerale del 26 febbraio 2025 dal AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
La controversia ha ad oggetto la cartella di pagamento con cui l’RAGIONE_SOCIALE, a seguito di controllo automatizzato ex art. 54 bis, d.P.R. n.
IVA -Rimborso -Detrazione -Limiti alla modifica – Tardività -Conseguenze
633 del 1972, e 36 bis, d.P.R. 600 del 1973, a titolo di recupero IVA non versata per l’anno d’imposta 2015, richiese alla RAGIONE_SOCIALE il pagamento dell’importo di € 120.000, oltre sanzioni ed interessi.
Dalla sentenza impugnata emerge che la società aveva richiesto il rimborso di un credito Iva di € 120.000,00, conseguentemente non esponendo alcun credito nelle dichiarazioni RAGIONE_SOCIALE successive annualità d’imposta. Dopo aver appreso della archiviazione della richiesta di rimborso , a cui l’Ufficio si era determinato per mancata presentazione della documentazione più volte richiesta a giustificazione dell’istanza, in data 21.04.2018 la società aveva integrato le dichiarazioni iva relative agli anni d’imposta 20 14, 2015 e 2016, optando per la detrazione del credito (in luogo dell’originaria richiesta di rimborso). Le dichiarazioni integrative erano state ritenute però tardive dall’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 17, d.lgs. 241 del 1997, tanto più che con esse la contribuente non aveva operato la correzione di un mero errore dichiarativo, bensì modificato l’opzione di rimborso del credito di € 120.000,00 in richiesta di detrazione del suddetto importo, ai fini della compensazione con debiti Iva.
La cartella, contestata dalla società sull’assunto di non avere debiti erariali per i quali l’ufficio potesse vantare pretese, fu impugnata dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Caserta, che con sentenza n. 373/11/2023 accolse il ricorso annul lando l’atto. La Corte di giustizia di II grado della Campania, con pronuncia n. 6174/03/2023, in riforma RAGIONE_SOCIALE statuizioni di primo grado, ha invece stabilito la correttezza e fondatezza della pretesa dell’RAGIONE_SOCIALE.
Il giudice d’appello, nel ricostruire la vicenda, ha evidenziato che non era contestato che la cartella fosse stata emessa dall’ufficio per il recupero del minor credito relativo all’anno d’imposta 2015, a sua volta conseguenza del recupero del credito Iva relativo al 2014, annualità per la quale risultava prima presentata una dichiarazione tesa al rimborso di € 120.000,00 e, successivamente, una seconda dichiarazione, presentata in data 21/04/2018, con cui la società aveva chiesto di portare in compensazione il medesimo credito.
NUMERO_DOCUMENTO AVV_NOTAIO rel. COGNOME COGNOME giudice d’appello ha esposto che l’istanza di rimborso originariamente formulata dalla società, che non aveva avuto seguito ed era stata archiviata per mancata allegazione della documentazione giustificativa sollecitata
dall’ufficio, era stata poi sostituita dalla richiesta di compensazione, formulata per la prima volta con dichiarazioni integrative del 2018 (relative alle annualità 2014, 2015, e 2016). Ciò aveva consentito all’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di annullare la comunicazione di irregolarità, inizialmente trasmessa alla contribuente sull’assunto che il medesimo credito fosse stato fatto valere per due volte (la prima con l’istanza di rimborso, la seconda con la invocata compensazione), ma non per questo quel credito d’i mposta poteva dirsi riconosciuto.
Ciò perché al rimborso non era stato dato corso dall’erario per assenza di riscontri documentali a sostegno della pretesa della società. Né poteva assumere rilevanza l’integrazione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni intervenute nel 2018 per i pregressi anni d’imposta, tr attandosi non di integrazioni afferenti alla correzione di meri errori, ma di modifica dell’opzione già consumata a favore del rimborso, ossia di una espressa esplicitazione di volontà, come tale non più modificabile. Inoltre, la contribuente non aveva neppure mai provato il fondamento di quel credito, non solo in occasione della richiesta di rimborso, ma anche con la pretesa compensazione, né, aggiungeva la Corte regionale, nel corso della controversia.
In altri termini di quel credito non vi era alcun riscontro e la richiesta di compensazione era per giunta tardiva, ex art. 17 d.lgs. 241 del 2017, e mai autorizzata dall’Ufficio.
Infine, sulla questione, il giudice d’appello ha richiamato la giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di IVA trovava applicazione il principio di alternatività tra rimborso e detrazione, incompatibile con l’illimitata possibilità di revoca della scelta del rimborso, la cui originaria richiesta può essere modificata dal contribuente in istanza di compensazione, da presentarsi però entro l’anno successivo alla maturazione del credito medesimo, ex art. 17 cit.
La società ha censurato la sentenza, affidandosi a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria. L’RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
La causa è stata trattata e decisa all’esito dell’adunanza camerale del 26 febbraio 2025.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società si duole della «Nullità della sentenza per falsa applicazione di norme di diritto ed in particolare degli artt. 36 e 61 D.Lgs. 546/92, 132, secondo comma, n. 4) c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., nonché dell’art. 111, sesto comm a, Cost., deducibile come vizio ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4 ), c.p.c.». La sentenza sarebbe afflitta da un grave vizio motivazionale, per non aver esplicitato le ragioni in base alle quali ha rigettato (implicitamente) le eccezioni di inammissibi lità dell’appello dell’RAGIONE_SOCIALE e per non aver seguito un percorso logico fra le premesse in fatto e le conclusioni a cui è giunta, non permettendo alla contribuente di comprendere l’ iter logico-argomentativo del giudice. Mancherebbe una motivazione in ordine alla prima questione (assenza nell’atto d’appello di motivi specifici; difetto di interesse ad impugnare; nuova prospettazione difensiva relativamente alle eccezioni di merito proposte) e la sentenza sarebbe affetta da motivazione apparente, quanto alla illogicità tra i presupposti di fatto da cui parte e la ‘nuova questione’ (prospettata solo con l’appello) della tardività del deposito RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni integrative.
Si tratta di motivo che, inammissibile rispetto alla prima ragione di censura, merita invece accoglimento quanto alla seconda.
Quanto alla mancata esplicitazione RAGIONE_SOCIALE ragioni per le quali il giudice di II grado avrebbe (implicitamente) rigettato le eccezioni di inammissibilità dell’appello dell’RAGIONE_SOCIALE, calibrate, come si prospetta in ricorso, rispettivamente sulla pretesa assenza di motivi specifici contro la sentenza di I grado che aveva escluso l’esposizione debitoria, sul preteso difetto di interesse a impugnare posto che si discuteva di un minor credito e non già di un debito della contribuente, nonché sull’affermata novità della questione concernente la tardività della presentazione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni integrative, l’inammissibilità deriva dall’impianto stesso della sentenza impugnata: con essa il giudice d’appello ha fatto propria la prospettazione dell’Ufficio, antinomica rispetto a quella della contribuente, basata sul contegno da questa tenuto (dapprima di richiesta a rimborso dell’iva in questione e poi di d’indicazione di utilizzo in compensazione), come descritto in narrativa. Una tale prospettazione si è risolta nella radicale contestazione del fondamento della decisione di primo grado, con la conseguenza che le eccezioni
d’inammissibilità hanno rinvenuto chiara, per quanto implicita risposta nelle argomentazioni sviluppate nella sentenza d’appello.
Quanto invece alla doglianza con la quale la ricorrente denuncia una motivazione apparente per l’illogicità tra i presupposti di fatto da cui il giudice di II grado sarebbe partito ed il contenuto della cartella, con la quale l’RAGIONE_SOCIALE ha preteso il recupero di un credito d’imposta non spettante, essa trova accoglimento.
Questa Corte ha chiarito che sussiste una apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta RAGIONE_SOCIALE norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 1 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando carente nel giudizio di fatto, così da risolversi in un giudizio generale e astratto (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166), o quando essa si traduca in una argomentazione logicamente perplessa ed obiettivamente incomprensibile, o dalla quale emerga un contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili.
Ebbene, nel caso di specie dalla motivazione della pronuncia impugnata è dato evincere che la Corte tributaria di merito ha inteso apprezzare che ‹‹ quanto agli aspetti formali della dichiarazione, inoltre, non è stato documentalmente dedotto prima ancora che provato che a fronte di un provvedimento di diniego del rimborso del credito IVA 2014 vi sia stata
un’espressa autorizzazione al riporto del medesimo credito nell’anno d’imposta 2015,. Il successivo comportamento della Società contribuente di modifica della richiesta di rimborso con dichiarazione integrativa presentata a distanza di diversi anni, solo in data 21.4.2018, non può ritenersi corretta perché tardiva a mente dell’art. 17 del Dlgs. 241/17). In tema di IVA, invero, si applica il principio di alternatività tra rimborso e detrazione incompatibile con l’illimitata possibilità di revoca della scelta del rimborso ››.
La rilevanza di tali argomentazioni, se pertinente rispetto alla correzione di errori materiali o di calcolo commessi nella compilazione della dichiarazione, è incomprensibile quando relazionata ad una cartella di pagamento, relativa all’anno d’imposta 201 5, emessa per il recupero da parte dell’RAGIONE_SOCIALE di un preteso debito d’imposta. Non solo, infatti, non vi era certezza che di quel presunto credito d’imposta la società si fosse servita nel 2018, ma, per quanto qui di interesse, vi era certezza che quel credito, ancorché erroneamente esposto nel 2015, non era stato comunque utilizzato in quella annualità.
A tal fine deve evidenziarsi che questa Corte ha rilevato come l’art. 36 bis, comma 2, lett. e), d.P.R. n. 600/1973, prevede che il controllo automatizzato sulle dichiarazioni presentate dal contribuente può riguardare anche la riduzione dei crediti di imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge, o non spettanti sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni. In termini generali, dunque, ai fini del legittimo ricorso all’art. 36-bis, d.P.R. n. 600/1973, l’ufficio è legittimato alla verifica del corretto riporto in dichiarazione di un credito di imposta indicato dal contribuente nella dichiarazione dei redditi, e ciò anche facendo riferimento alle dichiarazioni presentate dal contribuente negli anni precedenti, senza che tale verifica comporti un accertamento sostanziale che presuppone valutazioni giuridiche o esame di atti non consentiti dalla procedura (Cass. civ., 16 novembre 2018, n. 29582).
Tuttavia, fermo restando il potere erariale di controllo automatico della correttezza RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni dei redditi, nonché della correzione degli eventuali errori materiali o di calcolo, ai fini invece della emissione della cartella ex art. 36 bis e 54 bis cit., quando con essa si intenda anche recuperare un credito utilizzato in misura superiore o non spettante,
l’emissione della cartella di pagamento risulta legittima solo laddove, a seguito della verifica compiuta in sede di controllo automatizzato, l’amministrazione finanziaria accerti che, a causa di errori materiali o di calcolo, il contribuente abbia illegittimamente utilizzato il credito di imposta, così da prospettare un debito del contribuente nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
Solo in questa ipotesi l’erario è legittimato al recupero dell’importo mediante la notifica della cartella di pagamento.
Diversamente, nel caso di mancato utilizzo del credito di imposta, ma ove accertato che lo stesso non era stato correttamente esposto, l’amministrazione finanziaria può solo procedere alla rettifica dell’errore materiale o di calcolo, ma non può emettere una cartella di pagamento ai fini del recupero di un credito di imposta che, in quanto non utilizzato, non si è tradotto in un debito del contribuente nei confronti dell’amministrazione finanziaria (cfr. Cass., 20 luglio 2021, n. 20643).
Questi i principi applicabili, nel caso di specie è evidente come, dalla pacifica e non contestata ricostruzione dei fatti, il credito d’imposta sarebbe emerso nella dichiarazione del 2018, così come nella medesima annualità risultano integrate le dichiarazioni dei redditi relative agli anni 2014, 2015 e 2016.
Tale condotta palesa come quel credito sia stato erroneamente riportato nella dichiarazione 2015, ed a tal fine ben poteva l’erario correggere la dichiarazione. Ma, per essere un credito al più eventualmente utilizzato nel 2018, esso non poteva certo costituire oggetto di recupero a mezzo di una cartella di pagamento afferente al l’anno d’imposta 2015, per la semplice ragione che nel 2015 la contribuente non aveva utilizzato quel presunto credito.
Ebbene, rispetto ai fatti emersi e alle difese assunte dalle parti, le argomentazioni addotte dal giudice tributario d’appello risultano del tutto perplesse quando non illogiche e contraddittorie, valorizzando questioni del tutto esulanti dall’oggetto sost anziale della controversia.
Il motivo va dunque accolto nei termini appena esposti.
Con il secondo motivo la società lamenta la «Nullità della sentenza per omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., vizio che rileva ai sensi dell’art. 360,
1° comma, n. 4 c.p.c.»; la sentenza avrebbe omesso la pronuncia sulle tre eccezioni relative all’inammissibilità dell’appello (di cui già al primo motivo).
Per le medesime ragioni per le quali si è ritenuto inammissibile la prima parte del primo motivo va rigettato anche il secondo.
Con il terzo motivo ci si duole dell’«Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, vizio che rileva ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 5 c.p.c.». Si sostiene che la pronuncia non tiene conto che, p ur se nell’anno d’imposta 2015 la società risultava in credito d’imposta, nel concreto con la cartella di pagamento l’erario pretendeva di recuperare una somma di spettanza del proprio creditore.
Con il quarto motivo la contribuente ha lamentato la «Violazione dell’art. 57 D. Lgs. 546/1992, vizio che rileva ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4 c.p.c.». La sentenza impugnata non ha avvertito che l’RAGIONE_SOCIALE aveva sollevato l’eccezione di tardività d ella trasmissione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni integrative solo in appello, e quindi tardivamente rispetto ai termini previsti nel D.Lgs. 546/1992.
I due ultimi motivi sono invece assorbiti dall’accoglimento della seconda questione proposta con il primo motivo.
In conclusione, il ricorso è fondato nei limiti di quanto chiarito in motivazione, la sentenza va annullata, e il processo va rinviato alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Campania, che, in diversa composizione, oltre che liquidare le spese del giudizio di legittimità, provvederà al riesame dell’appello, tenendo conto dei principi enunciati nell’ordinanza.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, nei limiti di cui in motivazione, respingendolo per il resto. Rigetta il secondo motivo, assorbiti il terzo ed il quarto. Cassa la sentenza impugnata nei limiti dell’accoglimento del ricorso e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Campania, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione RAGIONE_SOCIALE spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il giorno 26 febbraio 2025.
La Presidente NOME COGNOME