Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 14150 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 14150 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 27/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.10868/2023 R.G. proposto da:
Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore , domiciliata ope legis in Roma, alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende,
PEC EMAIL
-ricorrente –
E
RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE in concordato preventivo, in persona del legale rappresentante pro tempore e del liquidatore giudiziario rag. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata presso il suo studio a San Benedetto del Tronto (AP), INDIRIZZO con dichiarazione di voler ricevere ai sensi dell’art. 125, co.1, c.p.c., nonché dell’art. 136, co.3, c.p.c. ogni comunicazione al numero di fax NUMERO_TELEFONO, oppure tributi
all’indirizzo di posta EMAIL
elettronica
certificata
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 207/2023 della Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche, depositata in data 1° marzo 2023 e non notificata.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 maggio 2025 dal consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L ‘Agenzia delle entrate ricorre con due motivi contro l’ Impresa RAGIONE_SOCIALE che resiste con controricorso, avverso la sentenza indicata in epigrafe, che ha rigettato l’appello dell’ufficio , in controversia avente ad oggetto l’impugnazione del silenzio rifiuto sull’istanza di rimborso del credito, non compensato, relativo all’anticipo delle ritenute Irpef sul TFR maturato dai dipendenti. In particolare, la citata società presentò il 19.9.1995 istanza per l’amministrazione controllata, poi trasformatasi in concordato preventivo, procedette al versamento degli acconti di imposta sull’ammontare dei trattamenti di fine rapporto maturati al 31/12/1996 e al 31/12/1997, così come previsto dall’art. 3, commi 211, 212 e 213 della Legge n. 662/1996, come modificata dalla Legge n. 140/1997. Risulta dagli atti – ed è pacifico – che nel febbraio 1999 fu posta in essere la mobilità per quasi tutti i dipendenti e contestualmente venne attivato il Fondo di Garanzia, direttamente gestito dall’Inps, per il pagamento del TFR ai dipendenti, non avendo la società fondi disponibili per effettuare tali pagamenti. L’INPS, al momento dell’erogazione della indennità di fine rapporto ai dipendenti operò, in sostituzione della società quale sostituto d’imposta, la ritenuta fiscale
prevista dall’art. 23 del d.P.R. 600/1973 e si avvalse del diritto di surrogarsi ex lege ai lavoratori, insinuandosi nello stato passivo della procedura. Per tale ragione, ad avviso della società, essa si era trovata nell’impossibilità di utilizzare l’unico strumento, previsto dall’art. 3 , comma 213, della Legge n. 662/96, per poter recuperare, con la compensazione, il credito derivante dall’ anticipo delle ritenute Irpef sul TFR maturato; pertanto in data 25.6.2019 aveva presentato all’Agenzia delle Entrate -Direzione di Ascoli Piceno istanza di rimborso del credito di imposta per un importo di € 250.697,05 , sul quale si formava il silenzio rifiuto oggetto del presente giudizio.
L’adita RAGIONE_SOCIALE di Ascoli Piceno accoglieva il ricorso della indicata società, riconoscendo in suo favore il diritto al richiesto rimborso; la Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche confermava -con la sentenza qui impugnata -la pronuncia di primo grado.
Il ricorso in cassazione dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di appello è stato fissato per la camera di consiglio del 7 maggio 2025, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 -bis. 1 cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n.168, conv. dalla legge 25 ottobre 2016, n.197.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo, l ‘Agenzia ricorrente denunzia la violazione dell’art. 3, comma 211, della Legge 23.12.1996 n. 662 in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, c. p. c.
Secondo l’ufficio, il giudice di appello ha erroneamente interpretato la normativa in oggetto.
Infatti, per recuperare il credito d’imposta di cui al menzionato art. 3 della Legge n. 662/96 sarebbe necessario ricorrere alle uniche due modalità previste dal legislatore: 1. il credito può essere recuperato all’atto della corresponsione dei trattamenti di fine rapporto, fino a concorrenza del 9,78% degli stessi (come previsto dallo stesso art. 3
della Legge n. 662/96); 2. il credito può essere utilizzato in compensazione per il versamento dell’imposta sostitutiva dovuta sulla rivalutazione dei TFR maturata dal l’ 1/1/2001 (come previsto dal comma 4bis dell’art. 11 del d.lgs. n. 47/2000). Secondo l’ufficio, non essendo stata espressamente prevista dal legislatore, non sarebbe ammessa la possibilità di recuperare il credito mediante istanza di rimborso.
Inoltre, nella specie, il credito avrebbe dovuto essere ceduto alla massa dei creditori, all’interno della procedura di concordato preventivo ex art. 160 della Legge Fallimentare; e ciò per consentire all’Inps di effettuare la compensazione (a cui sarebbe conseguita una riduzione del debito della società nei confronti dell’Inps). Avendo infatti l’INPS operato quale sostituto d’imposta in sostituzione della società ricorrente ed essendosi avvalso del diritto di surrogarsi ex lege ai lavoratori, lo stesso Istituto avrebbe potuto compensare il credito d’imposta con le ritenute operate. Secondo l’amministrazione finanziaria, la società si sarebbe preclusa la possibilità di recuperare il credito maturato, non avendolo trasferito all’ente che le si era sostituito, per effettuare i pagamenti del TFR, posto che l’art. 3 della Legge n. 662/96 ha previsto un credito utilizzabile esclusivamente dal sostituto d’imposta dei lavoratori per il versamento delle ritenute sui TFR.
1.2. Il motivo è infondato e deve essere rigettato.
Costituisce un consolidato orientamento di questa Corte quello secondo cui l’acconto sulle imposte dovute sui trattamenti di fine rapporto dei dipendenti, di cui all’art. 3, comma 211, della l. n. 662 del 1996, è una forma di imposizione straordinaria (sui trattamenti maturati al 31 dicembre degli anni 1996 e 1997), avente contenuto di mero anticipo, posta a carico dei sostituti d’imposta, sicché questi ultimi, per il recupero dello stesso, oltre ad utilizzare il previsto credito d’imposta,
possono presentare istanza ex art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973, poiché l’esclusione del rimborso determinerebbe un illegittimo pregiudizio per la sfera patrimoniale del datore di lavoro e, al contempo, un indebito arricchimento per l’erario (Cass. n. 24672/2007, n. 22516/2013, n. 10243/2018, n.11431/2019, n. 18904/2021).
La Corte ha già avuto modo di affermare che: «a) l’art. 3 della legge n. 662 del 1996, al comma 211, prevede a carico dei sostituti di imposta per redditi di lavoro dipendente un obbligo tributario di versamento di un importo percentuale ragguagliato all’ammontare complessivo dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del codice civile, maturati al 31 dicembre, rispettivamente, dell’anno 1996 e 1997, a titolo di acconto delle imposte dovute su tali trattamenti dai dipendenti; e, al comma 213, un meccanismo, a favore del datore di lavoro, di utilizzazione a percentuale, a cominciare dal 10 gennaio 2000, dell’acconto come “credito di imposta” per i versamenti delle ritenute sui TFR corrisposti, e con possibilità di utilizzazione anticipata in relazione al rapporto tra credito di imposta e trattamenti residui; b) i dati normativi fondamentali, quindi, sono rappresentati, da un lato, dall’obbligatorietà dell'”anticipo forzoso” a carico del datore di lavoro al momento di esistenza del presupposto impositivo e, dall’altro, dal diritto di esso datore di lavoro di recuperare tale anticipo al sorgere delle condizioni all’uopo fissate dal legislatore, ovverosia al momento del “versamento delle ritenute applicate sui trattamenti di fine rapporto corrisposti a decorrere dal 1 gennaio 2000” (cfr. Corte cost. n. 155 del 2001)» (Cass. 2/10/2013, n. 22516).
Accertata, dunque, l’indiscutibile natura di credito d’imposta di tale anticipo forzoso ed escluso, diversamente da quanto sostiene l’Ufficio, che esso si configuri, in sostanza, come un beneficio fiscale, è evidente che il contribuente che non lo abbia recuperato secondo le modalità stabilite dal comma 213 cit., abbia pieno titolo per presentare e per
vedere accolta l’istanza di rimborso ex art. 38, primo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
Tuttavia, in caso di fallimento del datore di lavoro, si è anche precisato che esso non determina la liberazione del fallito dal dovere di corrispondere il TFR ai lavoratori, ma fa sorgere un obbligo solidale in capo al Fondo di Garanzia istituito presso l’INPS, che si surroga nei diritti dei lavoratori per le somme versate subordinatamente all’insinuazione al passivo del fallimento. Ne consegue che l’insinuazione al passivo del Fondo di Garanzia ricomprende anche le ritenute fiscali operate al momento del pagamento, che costituisce l’unico titolo per recuperare il credito d’imposta da parte del datore di lavoro e, per esso, al Fallimento (vedi Cass. n. 22516/2013, citata).
In definitiva, tali considerazioni possono valere anche nel caso di specie, in cui vi è stato l’intervento del Fondo, che si è surrogato nei diritti dei lavoratori.
Tale surroga costituisce l’unica fonte giuridica del diritto del datore di lavoro a recuperare il credito di imposta in questione, perché solo con essa si verifica il presupposto (pagamento del TFR da parte dello stesso datore di lavoro) che legittima l’utilizzo del corrispondente “credito di imposta” attribuito specificamente dal legislatore.
2.1. Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la v iolazione dell’art. 115 c.p.c. nonché, in via conseguenziale, la violazione o falsa applicazione dell’art. 38 del d. P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, c.p.c.
Secondo l’Agenzia delle entrate, la società non ha contestato che il credito non era stato riportato a partire dalla prima dichiarazione dei redditi utile (770/1998 e 770/1999), ma a partire dall’anno d’imposta 2008, nel Mod. 770/2009 presentato dalla stessa società. La C.g.t. avrebbe dunque ritenuto offerte prove in realtà mai prodotte, con
conseguente violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 38 del d.P.R. n. 602/1973.
Secondo la ricorrente, il termine per chiedere il rimborso doveva intendersi scaduto trascorsi 48 mesi dalla data di versamento degli acconti, versati in data 31/07/1997, 01/12/1997 e 31/07/1998, mentre l’istanza di rimborso è stata presentata nel 2019, ben oltre i termini consentiti dalla legge, senza che il contribuente provvedesse a riportare il credito nella prima dichiarazione utile (770/98 e 770/99) ed in quelle successive fino al 2008.
2.2. Il motivo si profila, anzitutto, come ammissibile, in quanto la ricorrente censura, in primo luogo, la violazione dell’art. 115 c.p.c., laddove il giudice di appello ha ritenuto che la società avesse dimostrato di aver regolarmente indicato nelle dichiarazioni il credito di imposta e di averlo portato sistematicamente in compensazione in percentuale sui trattamenti di fine rapporto in abbattimento delle imposte sui TFR mano a mano che si procedeva alla risoluzione dei rapporti con i lavoratori dipendenti.
La circostanza è rilevante, in quanto, su tale presupposto di fatto, la C.g.t. di secondo grado ha ritenuto che il dies a quo del termine per la presentazione dell’istanza di rimborso decorresse dal momento del pagamento dell’ultimo TFR e che, nella specie, l’istanza fosse tempestiva in quanto la società aveva sistematicamente utilizzato il credito anno per anno e presentato l’istanza di rimborso entro un mese dalla cessazione del rapporto con l’ultimo dei dipendenti, momento questo in cui si concretizzava l’impossibilità di qualsiasi ulteriore utilizzo in compensazione.
Risulta dagli atti e non è contestato che la documentazione prodotta dalla contribuente (modelli della dichiarazione ed F24 prodotti dalla società in primo grado in data 22.2.2022 e con la nota di deposito del 6.2.2023) riguarda le annualità dal 2008 in poi; pertanto, la C.g.t. ha
posto a fondamento della sua decisione prove in realtà mai prodotte, incorrendo in un errore valutativo immediatamente rilevabile ex actis . Pertanto, non avendo documentato la sistematica compensazione del credito all’atto della corresponsione dei trattamenti di fine rapporto fino a concorrenza del 9,78% degli stessi, come previsto dall ‘ art. 3 della Legge n. 662/96, la società avrebbe dovuto presentare istanza di rimborso per gli importi versati in eccedenza nel termine di cui all’art. 38 d.P.R. n.602/1973, il cui dies a quo , contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, decorreva dal momento in cui era maturato il diritto del datore di lavoro ad utilizzare il credito di imposta (e, quindi, in alternativa di chiedere il rimborso) e cioè il momento in cui l’INPS aveva manifestato la volontà di surrogarsi, dichiarando di aver provveduto al pagamento dei dipendenti (vedi Cass. n. 18904/2021).
Il fatto che fosse rimasto fino al 2019 un solo dipendente, peraltro con mansioni meramente amministrative, non vale a spostare il momento iniziale di decorrenza del termine per l’istanza di rimborso dell’eccedenza già versata , che deve ricollegarsi al momento in cui la società poteva far valere il suo diritto , a seguito della surroga dell’INPS . In conclusione, rigettato il primo motivo di ricorso, va accolto il secondo; la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche, in diversa composizione, per nuovo esame, alla luce del principio, già enunciato da questa Corte, secondo cui <>.
Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche, in diversa composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 7 maggio 2025